Afghanistan 1974: la bellezza ritrovata

Dal 1 all’11 giugno 2019 a Milano, una mostra fotografica racconta il Paese asiatico attraverso le immagini inedite realizzate da una spedizione italiana negli anni Settanta

L’Afghanistan rurale fatto di tradizioni, mestieri artigiani, riti tribali. Le sue impervie montagne. Gli occhi delle gente, il sorriso dei bambini, prima dei sanguinosi anni di guerra che hanno dilaniato il Paese per decenni. Luoghi, emozioni e scene di vita vissuta raccontate attraverso gli occhi e la fotografia di Fabrizio Delmati, fotoreporter che nel 1974 prese parte ad una spedizione del CAI in Afghanistan e documentò i 40 giorni che il gruppo di 10 italiani – accademici, medici, alpinisti –  trascorse tra i meravigliosi paesaggi del Paese asiatico. Ottanta fotografie inedite di diversi formati, mai esposte al pubblico prima d’ora, raccolte nella mostra Afghanistan 1974: la bellezza ritrovata, ospitata dal 1 all’11 giugno 2019 presso lo Spazio Sei Centro in via Savona, 99 a Milano. L’ingresso è gratuito per tutta la durata della Photo Week milanese.

La mostra, che ha ricevuto il patrocinio del Comune di Milano ed è sostenuta dal Municipio 6, sarà inaugurata sabato 1 giugno alla presenza di istituzioni e giornalisti.  Durante il periodo della mostra sono in programma degli incontri sull’alpinismo in Afghanistan e sulle condizioni  igienico sanitarie.

La mostra Afghanistan 1974: la bellezza ritrovata vuole restituire a Milano e ai cittadini del capoluogo lombardo una panoramica del Paese in un preciso momento storico, gli anni Settanta, quando era molto diverso da quello che conosciamo attualmente. L’idea è quella di trasferire attraverso le immagini la bellezza di un mondo che non esiste più: la valle dei Buddha di Bamyan, i laghi di blu cobalto, le vette, le vicende del “leone del Panshir”, il combattente Massoud, che sognava un Afghanistan moderno e libero e soprattutto le persone, fiere pur nella loro povertà.

Nel 2001 i Talebani afghani distrussero con la dinamite i monumentali Buddha di Bamyan, due enormi statue alte 55 e 33 metri scolpite nella pietra a 230 chilometri da Kabul. Massoud, guerrigliero di etnia tagika che combatteva contro i talebani per l’indipendenza afgana, morì due giorni prima dell’attentato alle Torri gemelle di New York. Da allora in poi fu un susseguirsi di guerre e battaglie sanguinose, che portarono i talebani alla conquista totale del Paese e agli anni di chiusura e terrore che ne seguirono.

Con Fabrizio Delmati fecero parte della spedizione altri 9 italiani: Romeo Arienta, medico, Luigino Airoldi del CAI di Lecco, accademico, Augusto Rigamonti, alpinista del CAI di Bovisio Masciago, Guido Della Torre del CAI Milano, Luciano Lovato, Alfredo Arnaboldi,  don Francesco Ceriotti, Piero Comelli e Romano Perego. La spedizione durò 40 giorni, gli italiani conobbero una paese geograficamente tanto esteso da sconvolgere le loro previsioni e far saltare i piani previsti per l’esecuzione dell’impresa.

Il Buddha di Bamyan prima del 2001

La realtà più sconvolgente è l’uomo” recita il diario di uno dei protagonisti della spedizione. “Di uomini ne abbiamo visti molti a Kabul e nei centri importanti sugli altipiani dove abbiamo vissuto nei 32 giorni di spedizione. Sono stati proprio quei pochi che ci hanno rilevato la realtà umana di quella gente, una realtà che sconvolge e urta perché mette in discussione il nostro modo europeo di concepire la vita e di essere uomini. Da noi il tempo, le cose, le cose, gli avvenimenti, la ricchezza, la povertà, il pulito, lo sporco, sono cose che condizionano l’essere uomo. Tra la gente afgana abbiamo avuto la percezione che non fosse così.  Abbiamo visto uomini con addosso forme di povertà da noi nemmeno inimmaginabili fieri e capaci di donare qualcosa”.

Al campo base veniva svolta quotidianamente attività ambulatoriale per la popolazione locale. Venivano curati denti, infezioni, broncopolmoniti e persino l’occlusione intestinale di un bambino. Il giovane medico che partecipava alla spedizione fu chiamato diverse volte a curare la gente del luogo, tra cui un capotribù con un’infezione alla mano. “Una volta, mentre stavamo marciando in carovana, venne prelevato senza consenso e portato in un accampamento poco distante di nomadi per curare la moglie del capotribù” continua il diario. “L’ Afghanistan in quegli anni era diventato meta di viaggi di giovani occidentali che, attirati dall’esotico, viaggiavano lontano soprattutto nei Paesi dove l’acquisto di droghe era molto più facile e accessibile. L’Afghanistan assieme all’India era considerato una sorta di paradiso sperduto e sono tanti i giovani che una volta arrivati non sono più tornati a casa e si sono persi.”

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