Il Senso di Chiara per la Neve

Il Senso di Chiara per la Neve
di Chiara Baù
(già pubblicato su imperialbulldog.com l’8 marzo 2018)

Da qualche anno la neve non compariva nelle vallate alpine. Le montagne erano spoglie senza quella coltre naturale che protegge ogni filo d’erba, ogni singolo arbusto. Gli animali in letargo cercavano piccoli anfratti tra le rocce, chiedendosi dove fosse il manto bianco che un tempo li nascondeva.

Una sembianza innaturale dell’inverno dovuta all’aridità degli inverni passati. Tanto è mancata la neve in questi anni tanto è cresciuto il desiderio di rivederla. Ad ogni accenno di nevicata, scrutavo il cielo che, come da un contagocce, lasciava cadere con estrema parsimonia qualche fiocco sparuto. La neve voleva farsi desiderare, forse impegnata a imbiancare le montagne di altri paesi. Non si può accontentare ogni vetta avida di bianco. La neve non è on demand come nei programmi televisivi. Siamo abituati a ottenere tutto su richiesta, per fortuna non la neve.

Questo era l’anno giusto. Il sorbo degli uccellatori, una pianta che si ricopre di piccole bacche rosse a grappoli, a fine ottobre aveva perso quasi tutti i suoi frutti, segno premonitore evidente di un inverno ben innevato. Così è avvenuto. Sfidando ogni previsione metereologica la neve riesce sempre a stupirmi con quel suo alone di mistero, non sembra vero rivederne così tanta ed è come la prima volta.

Nessuna nevicata è uguale all’altra, così come nessuna scalata. Puoi fare la stessa via o il medesimo sentiero migliaia di volte, ma quante cose si nascondono nello stesso tragitto.

Innumerevoli variabili appartengono ad una nevicata, innanzi tutto il ritmo di caduta dei fiocchi. Se alcune volte la neve sembra accarezzare i prati con delicatezza, altri momenti pare graffiarli, tanta è la velocità con cui i fiocchi si dimenano vorticosamente nella bufera.

Amo camminare sotto la neve, pensando a chi perde lo spettacolo del momento, a chi non ha mai visto questa soffice polvere che uniforma di bianco tutto ciò che incontra. Quest’anno è comparsa persino nel deserto del Sahara, disorientando ogni granello di sabbia e ricoprendo di 40 centimetri le dune color zafferano.

Non ho mai realizzato cosa mi comunichi esattamente la neve, so solo che è eloquente quanto un ventriloquo e che apprendo più da lei che dalla lettura di un libro.

Ogni occasione è buona per avventurarsi nel bosco e gustarne l’atmosfera. Nel tardo pomeriggio decido di inoltrarmi tra pini e abeti per osservare forme e disegni creati dall’ultima nevicata. Quest’anno la mia voglia di sciare è svanita; le piste sono sempre accessibili con l’innevamento artificiale, ma la neve incontaminata, quella che fa sognare fin da bambini, è talmente rara che appena possibile la cerco ovunque: nei boschi, nelle radure, in ogni angolo dove poterne assaporare la magia.

Prendo le racchette da neve, chiamate anche ciaspole, che mi consentono di non affondare, ma quasi di galleggiare sul manto nevoso. Mi identifico così nel personaggio di Jack London, che amava narrare le imprese dei cercatori del Klondike, intenti ad attraversare le foreste muniti di sole ciaspole.

Inizio il percorso nel bosco. La luce del sole sembra partecipare a questa festa della neve e si insinua nel folto degli abeti, come un faro che illumina il mare di notte.

Più che il richiamo del bosco, è una sensazione di appartenenza alla foresta quella che sento. In alcuni momenti il richiamo diventa prepotentemente intenso, si trasforma in un dovere, nella sua accezione positiva.

In Sud Africa nel paese di Hermanus, ogni anno si festeggia il ritorno delle balene dopo una lunga migrazione; io festeggio il ritorno della neve.

In ognuno di noi è vigile un forte richiamo per la natura. Può rimanere silente e sopito o essere ascoltato. Devo seguirlo e andare sempre e comunque per non essere irrispettosa della bellezza della natura. Certe situazioni non solo meritano di essere ammirate, ma vanno vissute. Così mi succede quando cade la neve. Mentre cammino col fiato un po’ corto per la fatica, intravedo un uomo al limite del bosco, nascosto tra gli alberi, immobile. “Scusi ha bisogno di qualcosa, posso aiutarla?” Gli chiedo. “Dipingo la neve” Risponde.

Niente gnomi, folletti né entità magiche nel bosco, ma un pittore intento a dipingere le più varie sfumature della neve.

Johan il suo nome. Mi spiega quanto sia difficile dipingere la neve, perché dà filo da torcere. Testuali parole. Nel nostro immaginario la neve è bianca, punto e basta. In realtà, mi rivela, non può dipingerla per più di due ore, perché il colore continua a cambiare; i riflessi pur minimi gli procurano un gran da fare nel mischiare i colori sulla tavolozza e inoltre il freddo diventa un gelo mordente. Il tempo dovrebbe fermarsi.

Potrebbe scattare una foto e semplificare il lavoro, ma il dipinto non sarebbe lo stesso. Raffigurare il cambiamento dei colori e l’atmosfera invernale mentre dipinge renderebbe il quadro diverso.

Se i colori ad olio non soffrono le basse temperature, erano le sue mani ad avvertire il gelo mordente dell’aria. A casa, racconta, avrebbe completato il quadro. Ogni volta che ci lavorava gli sembrava di ritrovare un amico perché nel dipinto era racchiusa un’esperienza, un’avventura, come amava definirla. Più lavorava, più cresceva la confidenza col quadro.

Ho capito meglio il significato dei colori quando al tramonto la neve si è ammantata di un rosa tenue, uno spettacolo esaltante, simile ad un’aurora boreale. Forse era stato Johan a dipingerla, ma in realtà è il sole il vero pittore delle montagne.

La distesa di neve rosata ricordava il mare al tramonto, una sfumatura che tenta di sfuggire, ma che rimane intrappolata nei brevi attimi dell’ora dorata del calar del sole.

Proseguendo il cammino, ripensavo al repentino cambiamento dei colori di cui mi aveva parlato il “pittore della neve” e osservando un piccolo pino quasi interamente sommerso potevo constatare come a distanza di pochi minuti i riflessi fossero slittati da un azzurro intenso a un azzurro tenue, mentre le ombre tentavano di introdursi in un gioco di luci e chiaroscuri. Proprio come il pittore aveva spiegato.

Mi era già capitato di osservare come ogni fiocco di neve si adagi con leggerezza sugli aghi degli abeti. Sembra che ogni cristallo scenda con un piccolo paracadute quando arriva in prossimità del ramo, dapprima con notevole velocità, poi rallentando e appoggiandosi delicatamente su pochi millimetri disponibili. Pian piano cadono altri fiocchi che si sovrappongono fino a costituire morbide onde di neve.

Gli aghi, larghi 1-2 mm e lunghi 1-12 cm, flessuosi ma robusti, rappresentano la superficie più idonea a sopportare il peso della neve. Consentono infatti accumuli minuscoli, si piegano senza spezzarsi per raddrizzarsi all’improvviso, elasticamente, come abili trapezisti, una volta liberi da una massa di neve eccessiva. Gli aghi dei pini e degli abeti rappresentano l’unica forma fogliare in grado di resistere tutto l’anno sui rami degli alberi esposti in inverno alla coltre bianca. Piccolo capolavoro della natura, l’ago è dotato di una cuticola ispessita rispetto alle normali latifoglie, così da isolare maggiormente dal freddo i tessuti interni e conferir loro la rigidità necessaria per recuperare la posizione originaria una volta liberati dalla neve cui danno appoggio. Gli aghi rimangono sulla pianta per 3-4 anni e successivamente, durante la bella stagione, vengono progressivamente sostituiti, proprio come avviene per i capelli. Fanno eccezione gli aghi dei larici, che cadono ogni autunno perché questa conifera si spinge ad altitudini superiori, dove anche l’ago più efficiente potrebbe costituire un pericolo per la sopravvivenza dell’albero. Inoltre le aghifoglie, per potenziare la resistenza al freddo, possono adottare una strategia che consiste nell’aumentare la concentrazione di zuccheri e altri soluti all’interno della cellula. Questa capacità riduce ulteriormente il punto di congelamento utilizzando una tecnica non molto diversa da quella degli additivi antigelo aggiunti nel radiatore delle automobili. La resistenza al freddo dipende dalla capacità dell’albero di impedire la perdita di acqua dalle sue cellule.

Alcuni fiocchi sembrano addentrarsi nella parte più intima dell’albero, altri atterrano sugli aghi più prossimali. Inizia così una specie di dialogo tra queste due entità naturali che si incontrano, forse per raccontarsi vicende passate. Il fiocco di neve divagherà sui viaggi compiuti negli strati alti dell’atmosfera e l’ago dell’abete sugli eventi del bosco: dai forti temporali allo scampato pericolo del fulmine, al lupo ricomparso dopo anni di assenza.

Può sembrare che i rami facciano fatica a sopportare consistenti quantità di neve, piegati fino a terra con aspetto sofferente, ma osservandoli da vicino l’impressione cambia lasciando presumere una sintonia tra abete e carico nevoso che funziona da milioni di anni. C’è da chiedersi quale peso possa sopportare un piccolo ramoscello e quali leggi della fisica ogni particella di neve stia sfidando, eppure il fiocco e l’ago di abete si appartengono in questo periodo. Niente e nessuno può intaccare quell’equilibrio, forse solo il capriolo per grattarsi la schiena tra i rami o qualche lepre bianca per strofinarsi il pelo vellutato.

È una vicenda del tutto particolare: una storia d’amore tra il fiocco di neve e l’ago dell’abete, una storia che da migliaia di anni sussiste nella foresta. L’equilibrio di questa unione rivela i dialoghi più antichi della natura.

Mentre cammino ecco una traccia che si delinea parallela al mio percorso.

Pochi istanti prima un capriolo mi ha certamente preceduto. Ripassando più tardi sullo stesso tracciato le cose sono cambiate: il vento ha sfumato le orme ben delineate confondendole pian piano con il manto nevoso.

È una concessione della neve mostrare per breve tempo le impronte degli animali, un dono per chi fortuitamente le incontra.

La traccia dell’animale deve rimanere nascosta; il cacciatore potrebbe seguirla, il fotografo curioso avvicinarsi e disturbare una quiete importante.

Qualunque azione esterna da parte di predatori o dell’uomo disturba un equilibrio indispensabile, togliendo preziose risorse al mondo animale. D’inverno Il cibo è scarso e risparmiare energie è un’esigenza fondamentale alla sopravvivenza. Complice della neve, il vento ricostituisce l’uniformità dello strato nevoso; il capriolo sarà di nuovo al sicuro e nessuno riuscirà a scoprirne il nascondiglio. Il vento, il garante della sua privacy.

Il look mutevole della neve non finisce mai di suscitare immaginazione e curiosità. Il silenzio si adegua perfettamente al paesaggio, ma improvvisamente viene interrotto da uno strano ronzio: una motoslitta in lontananza, il cigolio di una seggiovia? Troppo lontani.

Si tratta di un drone che sorvola dall’alto, una presenza comunque fuori luogo per quanto importanti i vantaggi della tecnologia moderna.

Un drone può arrivare dappertutto, ma al di là di una sua importanza per operazioni di soccorso o sorveglianza, una cosa è la visuale che si gode dalla cima di una montagna conquistata con fatica, altra cosa quella proiettata da un minuscolo apparecchio non privo di un ripetitivo fastidioso disturbo per il mondo animale e per il mio.

Le fuggevoli tracce osservate in precedenza conducono ad un piccolo abete che sembra spuntare appena dalla coltre nevosa, un segnale per il capriolo perché si possa nutrire dei piccoli rami sporgenti per poi proseguire a balzi la sua corsa. Una piccola ma preziosa risorsa alimentare.

Di converso il piccolo abete sommerso sembra non aver possibilità di respiro, ma le stesse leggi della natura provvedono a garantirne la sopravvivenza.

Incastrato nella neve resa oltre tutto compatta dal gelo non è in pericolo di vita, ma grazie ai propri ingegnosi sistemi di conservazione è in uno stato di equilibrio perfetto e mi diverte paragonarlo alla calda coperta in cui accoccolarsi sopra un divano davanti a un bel film in TV.

Se la distesa nevosa simula l’immagine di un mare piatto, in alcuni tratti piccoli cumuli ovali costellano la superficie apparentemente immobile.

Sotto quelle forme ovali può nascondersi la tana di un orso in letargo o di qualche marmotta, per cui cerco di camminare ancora più piano per non arrecare disturbo ad alcun animale.

Tutto appare addormentato, ma in realtà il manto nevoso è dotato di un’importante proprietà isolante che limita il congelamento del suolo e si traduce in azione di riscaldamento degli strati basali della copertura.

L’effetto igloo mantiene la temperatura relativamente mite sotto la superficie, anche a diversi gradi sotto zero, perché la neve isola dal freddo.

I raggi del sole riescono a penetrare fin sotto lo strato di neve, portando luce ai germogli delle piante che possono così crescere e svilupparsi. Una sensazione di apparente tranquillità che nasconde un fermento inarrestabile.

Se emotivamente attribuisco alla neve un’aura magica, devo riconoscere che in molti casi costituisce un notevole impedimento.

È il caso di Wang Manfu, uno dei milioni di bambini cinesi che vivono con i nonni in villaggi sperduti, perché i genitori si sono trasferiti a lavorare in città lontane. Sono gli orfani sociali dello straordinario sviluppo industriale della Cina, che ha portato quasi 300 milioni di contadini a migrare dalla campagna alle megalopoli per trovare occupazione nelle catene di montaggio e nei cantieri. Costretto ogni giorno a percorrere oltre 4 km a piedi per raggiungere la scuola, il piccolo Manfu si era presentato in classe con capelli e sopracciglia completamente ricoperti di ghiaccio dopo aver camminato ad una temperatura di 9 gradi sotto zero.

La sua foto ha fatto il giro del mondo e dimostra come bambini molto poveri sfidino condizioni impossibili, pur di andare a scuola.

Un altro caso riguarda la valle Zanskar, appartenente al Ladakh, una zona ancora estremamente isolata dal resto della nazione durante i lunghi inverni; la si può raggiungere in 4 o 5 giorni e con enormi rischi dopo un faticoso cammino di 130 km sul fiume ghiacciato Chadar.

L´aspetto fatato del torrente color argento che anima il bosco diventa una ferita in questi luoghi. Un accurato reportage di Bruno Zanzaterra sulla rivista National Geographic racconta il duro viaggio degli insegnanti per raggiungere le scuole della valle dello Zanskar.

Un ecosistema chiuso e inaccessibile per oltre 8 mesi l’anno. La neve blocca l’accesso e le vie di comunicazione con la comunità. Ma la sete di apprendimento non ferma questi ragazzi neanche in Nepal.

Non possiamo immaginare quante difficoltà debbano affrontare per andare a scuola sia insegnanti che bambini nelle remote regioni dell’Himalaya. Un diritto che diamo per scontato senza renderci conto della nostra facilità di accedere a un sistema di istruzione vicino a casa.

E a distanza di anni mi sento in colpa per quelle pochissime giornate in cui avevo saltato la scuola. La neve porta a riflettere.

Proseguendo il cammino nel bosco mi accorgo che la vibrazione del mio passo, per quanto silenzioso, produce una sorta di eco impercettibile, suscettibile di provocare la caduta di leggere cascate di neve dagli alberi: un sottile, luminoso velo di cristalli di ghiaccio che appare pochi secondi per poi dissolversi. Tempo per il cristallo di neve di lasciare l’ago di pino col quale era rimasto in perfetta sintonia fino a quell’istante.

In un pendio più esposto a nord un piccolo abete, fiocco dopo fiocco, ha assunto una curiosa forma rotondeggiante.

Non si delinea più la figura piramidale, snella e slanciata della conifera, ma una sorta di nuova creatura del bosco, tutta avvolta su se stessa.

La neve si diverte a cambiare ciò che ricopre, creando, nascondendo, trasformando.

La neve è fantasia, specialmente dopo una consistente nevicata, quando una panchina isolata si trasforma in un’inquietante creatura plasmata dal manto nevoso, assumendo le sembianze di una rana gigante.

Nevicata dopo nevicata, tutto è sommerso, nascosto e ulteriormente impreziosito, bloccato come dentro una cassaforte che rimarrà chiusa fino al primo annuncio di primavera.

Persino gli steccati di legno che d´estate delimitano i pascoli di mucche e cavalli sono stati pian piano coperti dalla neve, eliminando ogni barriera.

I limiti scompaiono e gli ancestrali percorsi degli animali del bosco, interrotti durante l’estate dalla presenza dell´uomo, tornano ad assumere il loro più autentico significato. La neve riporta la natura alla sua libertà.

Per gioco mi nascondo tra i rami di un abete carichi di neve, che si sono trasformati in tante mani giganti come ad accogliermi in un piccolo, confortevole antro di braccia ospitali.

Da qui mi godo lo spettacolo di immacolate distese e più rimango a contatto con la neve e più l’immaginazione cresce.

La neve mi sta ispirando trasportandomi in un ambiente frugale e completo.

Nelle giornate di lavoro più impegnative, tornando a casa sotto la neve che cade avverto una sensazione di conforto, come i bambini che in un pupazzo di neve trovano un nuovo amico. Sono felice quando i fiocchi si posano sul mio volto invece che scegliere un ramo di pino.

La casa è vicina, sembra sospesa in uno scenario dai confini sfumati. Il tetto si scorge a malapena, nascosto tra il bianco opaco del manto nevoso e il grigio ceruleo del cielo, un cielo che sembra appartenere alla terra e la terra al cielo, tutto in una continuità senza spazi.

Nel romanzo di Peter Hoeg Il senso di Smilla per la neve, di cui è protagonista Smillla, una ragazza eschimese profondamente legata alla sua cultura così da conoscere ogni minima sfumatura legata alla neve, i fiocchi sono come piccole piume e la neve è così, non necessariamente fredda.

Ed è vero, la neve trasmette anche calore, basta sentirlo.

Smilla in uno dei dialoghi più belli sostiene che Il sistema numerico sia come la vita umana. Per cominciare ci sono i numeri naturali. Sono quelli interi e positivi. I numeri del bambino. Ma la coscienza umana si espande. Il bambino scopre il desiderio, e l´espressione matematica del desiderio sono i numeri negativi. Quelli con cui si dà forma all’impressione che manchi qualcosa. Ma quando nevica non manca niente. Ascolto la neve perché a dispetto di ogni influencer mi condiziona con il suo silenzio.

La neve è la mia influencer, facendomi crescere con i suoi insegnamenti, mi spinge a fotografarne le forme più diversificate, stimola la mia creatività ed io ne seguo il suo look semplice ma allo stesso tempo sofisticato. La neve è il mio tutto e la porto dentro.

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