Patagonia, chi ha fretta perde tempo

di Valentina Pison e Alberto Leonardi, pubblicato su Altitudini il 10 maggio 2020 e su Focus on Trip.

Chi ha fretta perde tempo. Nella nostra vita quotidiana siamo costantemente alla ricerca di tempo: tempo per vivere, tempo per le nostre passioni, tempo per noi stessi.

E lo cerchiamo nella fretta che contraddistingue il susseguirsi dei nostri impegni, scanditi da ritmi incessanti. Ritmi che possiamo abbracciare oppure rinnegare, ma che in ogni caso segnano la nostra vita quotidiana. Siamo infatti portati a definire con approccio scientifico la realtà che ci circonda, dando nome, significato ed una misura a tutte le meraviglie della natura. Anche il tempo è un’entità misurabile e proprio per questo motivo cerchiamo di guadagnarne. Di solito pensiamo che la fretta ci permetta di guadagnare tempo. Anche se per certi aspetti della nostra vita può funzionare così, si tratta invece di un’illusione quando ci relazioniamo con la natura, che per definizione è paziente e riesce a concedere il giusto tempo ad ogni cosa. Quella stessa natura che ci sorprende in ogni angolo del mondo, e che ci piace apprezzare soprattutto camminando.

Camminare alla nostra velocità, naturalmente lenta
Chi ha fretta perde tempo… è un detto comune in Patagonia, terra sudamericana ai confini del mondo. La gente se la prende comoda e gli spostamenti richiedono tempo e molta pazienza. Le enormi distanze che caratterizzano la steppa patagonica la rendono una regione scarsamente popolata: circa due abitanti per ogni chilometro quadrato. Sembra un paradosso, quando proprio la fretta e la velocità negli spostamenti permetterebbe di colmare queste infinite distanze. Invece tutto procede alla sua velocità naturale, senza forzature. Per questo decidiamo di partire per il nostro viaggio in Patagonia con lo zaino in spalla, per camminare in quelle terre alla nostra velocità, naturalmente lenta.

Già di per sé il viaggio stesso, inteso come semplice trasferimento aereo verso la Patagonia, ci fa riscoprire il significato di fretta e tempo. Partiamo alla fine di dicembre con un volo intercontinentale che si divide tra Venezia, Roma, San Paolo, Santiago del Cile e Punta Arenas, nostra destinazione nel Cile meridionale. All’inizio di questo viaggio siamo spesso tentati di farci sopraffare dall’impazienza, soprattutto nelle lunghe ore di attesa trascorse sui pavimenti delle sale d’aspetto degli aeroporti. La fretta di giungere a destinazione per cominciare a camminare è tanta.

Muelle Historico. Foto: Valentina Pison e Alberto Leonardi.

C’è qualcosa che non va, siamo troppo organizzati
Fin da subito ci accorgiamo che qualcosa non quadra: siamo troppo organizzati, il nostro viaggio è calcolato come somma di intervalli di tempo. Tempo che è fondamentale per camminare, scopo e fine ultimo del nostro viaggio. Si tratta del nostro primo vero viaggio di trekking e per questo abbiamo cercato di pianificare tutto con largo anticipo e nei minimi dettagli: dal tempo, agli spostamenti, al materiale tecnico da portare nello zaino. Ed è proprio lo zaino a farci riscoprire per primo il significato di fretta e tempo. Uno dei nostri due zaini infatti si perde nei meandri degli smistamenti automatici aeroportuali durante il nostro secondo scalo: non lo rivedremo più fino alla fine del nostro viaggio.

Lo zaino conteneva i nostri sacchi a pelo e la tenda, che avrebbero dovuto accompagnarci in un percorso di trekking tra laghi e cime granitiche di cui ci eravamo innamorati ancora prima di partire. Nella Patagonia cilena si trova infatti un parco meraviglioso, che sorge ai piedi delle Ande: il Parco Nazionale Torres del Paine. Arrivarci senza zaino non era sicuramente nei nostri programmi.

Salto Grande. Foto: Valentina Pison e Alberto Leonardi.

Puerto Natales: la riscoperta del tempo
Da Santiago del Cile proseguiamo nel nostro viaggio in aereo verso sud, ancora con la speranza di ritrovare lo zaino nell’aeroporto successivo: Punta Arenas. Ma nemmeno qui lo troviamo: abbiamo poco tempo e ci aspetta un pullman diretto a Puerto Natales. Questa piccola cittadina ci accoglie con una leggera pioggia e tipiche folate del vento patagonico.

Puerto Natales è il capoluogo della provincia di Ultima Esperanza, un’area raggiunta dagli esploratori europei nella seconda metà del 1500, alla ricerca dell’ingresso ovest dello Stretto di Magellano. Puerto Natales si trova infatti in un lembo di terra che si specchia nelle acque di quel labirinto di canali e laghi che dividono questa regione frastagliata tra le Ande e l’oceano Pacifico.

Ci riorganizziamo recuperando lo stretto indispensabile, tra cui uno zaino e dell’attrezzatura da campeggio a noleggio, nei piccoli negozi che caratterizzano il centro. Qui la cortesia e cordialità degli abitanti del posto ci fanno dimenticare le nostre necessità. È la vigilia di Natale, e per la restante parte del pomeriggio perdiamo la cognizione del tempo. Ci immergiamo nei suoni e colori di una celebrazione del Natale in una chiesetta del posto. Più che una celebrazione, il rito assomiglia ad un concerto festoso in cui ognuno è impegnato a cantare e a battere le mani a tempo. Per un attimo ci sfiora l’idea di aver già interiorizzato il detto patagonico: avendo dimenticato la fretta e l’inconveniente dello zaino, ci illudiamo così di aver guadagnato del tempo.

Lago Pehoe. Foto: Valentina Pison e Alberto Leonardi.

Il Parco Nazionale Torres del Paine
La mattina seguente arriva presto e ci fiondiamo verso la stazione degli autobus con trepidante attesa. È il giorno di Natale, sono le 6 di mattina, per strada non incontriamo più la gente del posto. Quello che si muove è invece un “esercito” silenzioso, composto da camminatori che arrivano da varie parti del mondo. Un esercito calmo e rispettoso, che nel pomeriggio precedente si mescolava ed integrava silenziosamente tra i vicoli di Puerto Natales, ora emerge all’unisono. Un cenno di riconoscimento, un abbozzo di sorriso, un gesto della mano: tutti segni che ci legano per un istante talmente breve ed irripetibile, nel quale condividiamo l’emozione che ci apprestiamo a vivere. Di nuovo, il valore del tempo, dell’attesa.

Il pullman scorre nella steppa patagonica, finché le cime granitiche delle Ande incombono sulla strada sterminata. Il Parco Nazionale Torres del Paine nasce dall’incontro di roccia e acqua, che danno vita a scenari unici. Il massiccio del Paine, formato da roccia granitica, si specchia nell’acqua dei suoi frastagliati laghi: Lago Grey, Lago Pehoé, Lago Nordenskjold, Lago El Toro e Lago Sarmiento, solo per citare i principali. Il massiccio granitico è famoso per le sue cime e torri aguzze, tra cui le famose ed iconiche tre Torres del Paine. Paine che nella lingua dei nativi Tehuelche significa “blu”, dato che il massiccio si può colorare di riflessi blu a seconda della posizione del sole.

Una perdita di tempo di un’ora che vale un viaggio
Il nostro primo giorno di trekking comincia mentre ci perdiamo nella vista di queste montagne, dalle forme così emozionanti. A dire il vero, prima ancora di cominciare a camminare scendiamo dal pullman diretti verso l’imbarco del traghetto che permette di attraversare il Lago Pehoé e raggiungere il Rifugio Paine Grande, da cui avevamo programmato di iniziare il nostro percorso. Il nostro programma troppo calcolato ci gioca inevitabilmente un altro scherzo e, dopo il tragitto in pullman di circa due ore, perdiamo per un soffio la partenza programmata del traghetto per le 11 di mattina. Il traghetto seguente, secondo ed ultimo della giornata, è alle 12: apparentemente una perdita di un’ora. Avendo probabilmente già perso una tappa di cammino che avremmo dovuto raggiungere nel pomeriggio, ci mettiamo il cuore in pace ed impieghiamo l’ora di attesa per raggiungere un punto panoramico non previsto dal nostro itinerario.

Camminiamo verso il Mirador Salto Grande ricevendo un assaggio della forza e velocità del vento patagonico, che smuove la cascata sotto ai nostri piedi. Il “Salto Grande” rappresenta proprio questa cascata, il cui frastuono e gli zampilli d’acqua si mescolano con la forza turbolenta del vento che spira dal cielo grigio e nuvoloso. Ancora, la fretta del vento si mescola con la nostra fretta di recuperare tempo.

Quasi non ci accorgiamo di cosa sta avvenendo alle nostre spalle, dove proprio la fretta del vento ha pian piano spazzato via le prime nuvole, liberando le cime che ci stava prima nascondendo. È così che un guanaco solitario compare in primo piano, posizionandosi fieramente, quasi a voler attirare la nostra attenzione verso le due cime Los Cuernos del Paine, emerse dalla foschia: uno spettacolo.

Los Cuernos. Foto: Valentina Pison e Alberto Leonardi.

Dopo i ritardi il cammino prosegue
Ritorniamo al molo dove saliamo a bordo del traghetto che ci conduce sulle acque del lago Pehoé, da cui ammiriamo il cielo sempre più azzurro spazzato dal vento che spinge le nuvole e scopre le cime del massiccio del Paine. Raggiungiamo l’estremità opposta del lago, dove si trova il Rifugio Paine Grande. Da qui comincia il cammino, che ci condurrà nel cuore del Parco Torres del Paine, per tre giorni e due notti indimenticabili.

Dopo i ritardi e l’apparente inconveniente della partenza, il nostro cammino prosegue tranquillo, come se la natura patagonica ci avesse finalmente accolto nella sua tranquillità e semplicità. Regalandoci due giorni filati di tempo stabile, e permettendoci di arrivare in tempo alla nostra meta, di fronte alle tre cime delle Torres del Paine, che prima della partenza avevamo tanto sognato di vedere.

Ultimio giorno, in cammino verso l’alba
Il terzo ed ultimo giorno di cammino ci svegliamo nel cuore della notte con un ultimo desiderio da esaudire. Abbiamo raggiunto le Torres del Paine il giorno precedente e abbiamo trascorso la notte in tenda nei pressi del rifugio più vicino, distante circa 2 ore. Percepiamo la nostra volontà di raggiungere le torri per l’ultima volta, per vederle colorate dai raggi dell’alba: una sorta di atto di devozione o capriccio che dir si voglia. Il tempo stringe perché ci aspetta poi ancora una mattinata di cammino per raggiungere il pullman che ci avrebbe condotti fuori dal parco. Ancora il tempo corre davanti a noi, mentre noi lo cerchiamo.

Torri del Paine all’alba. Foto: Valentina Pison e Alberto Leonardi.

Fuori dalla tenda è buio pesto e non si vedono le stelle, il cielo è coperto. Decidiamo comunque di uscire dalla tenda e dal tepore dei sacchi a pelo. Sembra difficile in questi casi far scorrere il tempo: nel buio della notte tutto si amplifica. I nostri sensi sono all’erta e le emozioni sono più propense a manifestarsi all’improvviso. Lo stesso sentiero che avevamo percorso il giorno precedente assume tutta un’altra forma, intrisa di mistero ed un pizzico di paura. La luna fa capolino tra le nuvole, e finalmente ammiriamo un cielo stellato davvero emozionante. Gli stessi passi che durante il giorno ci appaiono scontati, ed automatici ora ci richiedono uno sforzo maggiore, per individuare la via, senza fretta, per non correre il rischio di sbagliarsi. Nell’oscurità del bosco il silenzio è impressionante. La luna si nasconde di nuovo, l’unica fonte di luce rimane quella delle nostre torce frontali. Il buio del cammino ci insegna così a concentrarci su ogni singolo passo, lasciandoci definitivamente alle spalle la concezione del tempo. Chi non ha fretta, guadagna tempo: forse intendevano proprio questo gli abitanti della Patagonia…

Arriviamo così all’alba di fronte alle torri del Paine e restiamo ad appropriarci del nostro tempo grazie a questa vista, nonostante il vento gelido del primo mattino. Dopo un po’ guardiamo l’orologio, che nell’intensità del cammino notturno avevamo dimenticato: è ora di scendere.

 

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