Per contestualizzare appropriatamente il racconto, va ricordato che in quell’estate mio fratello Luigi (Gino) avena 15 anni e mia sorella Giuliana (la piccola Coca) 12 anni (Carlo Crovella).
Attraverso l’Oberland
di Pensiero Acutis
(pubblicato su Scàndere 1955)
Lunedì, 8 agosto
Questo ghiacciaio d’Aletsch è davvero interminabile! Vi cammino sopra da ore e mi par d’essere sempre allo stesso punto. La solitudine più assoluta mi circonda…
I miei amici devono già trovarsi alla Konkordia. Avevamo l’appuntamento ieri, a Briga. Per un banale equivoco l’incontro non c’è stato. Così ho dovuto proseguire solo in una regione che non conosco affatto.
A Fiesch speravo di trovare la funivia. (almeno così mi era stato detto…). Le funivie effettivamente ci sono, ma prima, e congiungono rispettivamente Mörel con Riederalp e Betten con Bettmeralp. Qui c’è solo una jeep che fa servizio per l’Hotel Jungfrau, al prezzo di 7 franchi. Ho provato l’emozione di questo viaggio: una cosa davvero interessante.
Più tardi ho potuto constatare, che un sentiero partente da Fiesch, conduce direttamente all’Hotel in un paio d’ore e. naturalmente, senza costo di spesa.
Verso sera il tempo s’è voltato al peggio, così mi sono deciso a passare la notte al Jungfrau. Per una volta potevo fare il signore, tanto più che le future previsioni erano di trascorrere più giorni in alta montagna, senza scendere dai rifugi. In questo modo la possibilità di fare economia non mi sarebbe mancata. Comunque. Il trattamento è stato superiore al previsto e, d’altra parte, il conto finale non è stato tale da rendere probabile l’eventualità di un attacco cardiaco…
Ho trovato una vecchia conoscenza: una gentile cameriera che l’anno scorso prestava servizio in un locale di Zermatt. Mi si è rivolta in italiano: almeno ho avuto modo di scambiare qualche parola con una persona amica. Così non venuto a sapere che quattro italiani erano passati il giorno prima diretti alla Konkordia: senza dubbio si trattava di Umberto e C.
Stancane son partito di buon’ora, nella nebbia. Il sole ha fatto capolino quando son giunto nei pressi del Märielensee. Quest’ultimo m’ha lasciato un po’ deluso: credevo di trovare qualcosa di veramente bello e grandioso. Invece si tratta solo di un laghetto di proporzioni alquanto ridotte e nulla più.
Ho messo piede sull’Aletschgletscher. Ieri, una carovana di un centinaio di persone è scesa sin qui, proveniente dal Jungfraujoch: però, né sulle chiazze di neve molto compatta, né sul ghiaccio vivo e nerastro, riesco a scorgere tracce di sorta.
Mi sono tenuto vicino alla morena. I crepacci, numerosi, sono scoperti e ben visibili, i ponti solidi e sicuri. In principio ho proceduto con attenzione, poi la marcia si è fatta monotona… avanti, un po’ a destra, un salto, a sinistra, altro saltino, dietro-front, avanti e così di seguito.
Dò un’occhiata all’orologio: qualche ora è trascorsa da quando ho lasciato il Märielensee. Mi pare d’aver fatto progressi, poiché la sagoma delle montagne che fiancheggiano il ghiacciaio sta mutando, ma lo sperone, sul quale si deve trovare il rifugio, è sempre laggiù e non aumenta di proporzione.
Ora, il saltellamento tra le crepacce comincia a farsi esasperante: la mia niente si distoglie, vola verso altre fantasie…
Più tardi, smetto anche di pensare. Avanzo come un automa, stupidamente, in quell’oceano di ghiaccio che pare non aver fine…
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La fatica per oggi è terminata. Mi sono riunito coi compagni ed ora ce ne stiamo seduti fuori del rifugio, a goderci il sole ed il panorama.
Un’immensa visione di candore si presenta al nostro sguardo: visione che forse noti ha riscontro nelle Alpi. Di fronte a lini, oltre il vasto anfiteatro della Konkordiaplatz, l’Aletschfirn prosegue con lieve pendenza sin ad un colle sito tra due contrafforti di ghiaccio. Non ci si vede oltre: sembra la porta dell’Aldilà.
E’ la Lötschenlücke: la finestra del Lötschenthal.
Ci prende il desiderio di fare una capatina lassù, per vedere. Per soddisfare la nostra curiosità. Si dice che, nei pressi di quella sella, si trovi una capanna… Il guaio è che i nostri comuni progetti son ben altri: qualche puntata ai 4000 qui attorno, indi attraverso il breve e facile itinerario della Grünhornlücke alla capanna del Finsteeraarhorn e infine, il ritorno dal Grimselpass.
Cosi la Lötschenlücke continuerà a rimanere, per noi, la porta del mistero. Ora si sta illuminando nel tramonto. Ghiaccio, cielo e luce: tre elementi che si confondono in una sola visione d’incanto: ecco, è davvero la porta di un regno di magia e di sogno…
Laggiù. Lontano, sull’Aletsch avanzano due puntini: forse sono Beppe e Maurizio. Altre cordate scendono lungo la pista del Jungfraujoch. Qua sotto, tra ciuffi d’erba e massi sporgenti, alcuni coniglietti neri giocano a rimpiattino con le marmotte…
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I nostri amici sono giunti. A tempo per fare, onore alla invitante zuppa preparata dal Custode.
Alla Konkordia è sufficiente portarsi viveri a secco: minestre, bevande calde, pane si possono ottenere a volontà e con poca spesa.
Adesso bisogna pensare al programma per domani: io propongo il Mönch. Umberto la Jungfrau: Maurizio è già stato su entrambe: potrebbe riposarsi dalla faticaccia di oggi.
A proposito di fatiche: anche Umberto, unitamente ai componenti la sua famigliola, ha avuto il suo daffare in un’avventura di cui è stato un po’ spettatore e un po’ protagonista. Un milanese solitario, incontrato sul ghiacciaio e aggregatosi alla piccola comitiva, è caduto in un crepaccio. Un saltino da niente, però c’è andata di mezzo una spalla: naturalmente il trasporto al Rifugio non è stato semplice. Stamane è venuto a prelevarlo Geiger, il pilota delle nevi. L’incidente ha avuto conseguenze più pubblicitarie che preoccupanti, dando modo alla stampa, specie quella estera, di sbizzarrirsi in un cumulo di amenità.
Intanto, dopo qualche discussione, siamo riusciti a metterci d’accordo sulla gita di domani: il Grünhorn, un 4000 non difficile, che s’innalza di fronte al Finsteeraarhorn. Tra l’altro siamo avvantaggiati dal fatto che saremo preceduti da alcune cordate, capeggiate da una guida famosa: Fritz Steuri di Grindenwald.
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Venerdì, 12 agosto
Finalmente! Un soffice lettino, acqua corrente, suono della radio, profumo di pino. Era ora di trovarsi, almeno per un po’ tra le comodità.
Fafleralp è una località deliziosa: due alberghi, una bella pineta, un laghetto, un gruppo di baite e, soprattutto, niente carrozzabile: solo una mulattiera che sale da Blatten. Per il momento, la civiltà ha in parte risparmiato quest’angolo di paradiso.
Il tempo, però, non è per nulla promettente…
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Sino alla spalla del Grünegghorn, tutto era andato nel migliore dei modi. La giornata s’era annunciata ottima: il percorso fino a quel momento, relativamente facile. Avanti a noi, gli svizzeri armeggiavano sulle roccette. Più in là, una crestina nevosa sovrastante il ripido pendio della parete di ghiaccio: poi, ancora facili rocce e la vetta. Ormai il Grünegghorn era lì, a portata di mano: il gioco era fatto…
Quel giorno non abbiamo proseguito oltre. Fritz Steuri è scivolato dal pendio ghiacciato coi compagni di cordata…
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Nello splendore del sole calante, la vita trionfava. La Jungfrau era cinta da un’aureola di gloria e tutto il cielo era un tripudio di gioia nella luce del vespero.
Scendevano, stanchi e delusi, gli uomini della montagna. Nello sguardo recavano una visione di morte: la visione di un volto insanguinato, di corpi esanimi rimasti sulla neve… per un momento avevano sperato di strappare almeno una vita dalle profondità della voragine di ghiaccio.
Invano…
Sono scesi, stanchi e delusi, senza speranza. Ma, domani stesso, riprenderanno a salire, verso nuove altezze. Muoveranno verso nuove conquiste, sempre e dovunque, spinti da un assurdo ideale, nella continua disperata ricerca di una irraggiungibile felicità
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Abbiamo lasciato la Konkordia, diretti verso la Lötschenlücke. E’ stata un’incantevole passeggiata su facile ghiacciaio, ove domina costante l’imponente parete nord dell’Aletschhorn.
Dopo tre ore, o poco più, di cammino siamo giunti al colle. Sulla destra, più in alto, appollaiata su uno sperone roccioso lambito dalle nevi eterne, era una capanna: la Hollandia. Qui ci siamo trovati in un ambiente più intimo, più famigliare che non la Konkordia. Non è molto frequentata, pur essendo situata in un punto panoramico di prim’ordine.
Esiste una difficoltà in questo rifugio: non si distribuiscono viveri di sorta, per cui bisogna avere l’accortezza di arrivarci provvisti di tutto. L’unica cosa elargita in abbondanza è acqua calda, il che non è molto.
Abbiamo subito stretto amicizia con un tizio, dotato di una loquacità esuberante, però molto simpatico. In un primo tempo l’ho scambiato per una guida: in seguito ho saputo che fa il rappresentante di non so che cosa. E’ di Zurigo, si chiama Albert…
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La salita alla Ebnefluh è breve e facile.
Dalla Hollandia vi si arriva in due o tre ore. Il percorso sarebbe molto indicato per una escursione con gli sci, anzi vi si potrebbe accedere sino in vetta senza togliere gli stessi dai piedi.
Di lassù si ha un’ottima visuale sulla parete ovest della Jungfrau, proprio di fronte, e più addietro, sulle tozze sagome del Mönch e dell’Eiger.
Il versante nord del monte piomba verticale sulla valle del Lauterbrunnen e laggiù, nel basso, brilla al sole Interlaken.
Ci siamo diretti verso il Mittaghorn: le due salite si possono conciliare benissimo in giornata.
Sulla cresta terminale sono a “partito” assieme ad un vasto tratto di cornice. La corda si è tesa, ma Umberto ha tenuto sodo. Per qualche istante ho avuta netta la sensazione del vuoto, poi tutto è rientrato nella normalità. In effetti le cornici rappresentano l’unico pericolo obbiettivo sul Mittaghorn: questo, s’intende, solo in annate particolarmente sfavorevoli.
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L’ultima parte del programma, ideatore Maurizio, è stata approvata all’unanimità. Scenderemo il Langgletscher: ove esso termina prenderemo un sentiero che sale ripido il costone e va a raggiungere il Beichpass. Da qui, per facile ghiacciaio alla capanna dell’Oberaletsch. Dopo non avremo che l’imbarazzo della scelta: Aletschhorn, Nesthorn, Breithorn del Lötschental…
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Cosi, stamane siamo scesi, ma il Beichpass l’abbiamo mirato di sotto… Certi nuvoloni cupi stagliavano là in alto…
Qualcuno ci ha detto di un certo rifugio che deve trovarsi a nord della valle: la Mutthornhütte. Ci si potrebbe andare: è sempre un piccolo pezzo di mondo da scoprire. Da quella parte due cime si possono mettere nel preventivo delle nostre aspirazioni: il Breithorn del Laterbrunnen e lo Tschingelhorn.
Abbiamo ritrovato Albert. E’ rimasto solo e avrebbe desiderio di aggregarsi alla nostra compagnia. Tanto meglio! Prenderà il posto di Maurizio il quale è più che mai deciso a tornarsene a casa.
Intanto, al momento piove…
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Lunedì, 15 agosto
La Lötschental è una valle meravigliosa! Almeno una volta bisogna percorrerla a piedi, per gustarne appieno le sue mutevoli e pur sempre suggestive bellezze.
Stiamo oltrepassando Blatten: a sinistra della valle un sentiero sale verso una capanna. Più su s’erge maestosa una delle più belle cime dell’Oberland: il Bietschhorn. No, non pensiamoci… domani… forse. Per ora la nostra meta è la ferrovia.
L’avventura si sta avviando verso la sua conclusione…
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Siamo arrivati alla Mutthornütte nella nebbia: per fortuna c’erano delle provvidenziali piste sul ghiacciaio. Credevamo di giungere ad un rifugio insignificante, invece ci siamo trovati di fronte ad uno dei più bei rifugi delle Alpi Svizzere.
Costruzione solida, moderna, dotata d’ogni comodità, compatibilmente con l’ambiente. E’ sorta appena da qualche anno. Stando al libro del rifugio, dovremmo essere i primi italiani a mettere piede qua dentro. Due grandi ghiacciai convergono quassù: il Kanderfirn e lo Tschingelfirn. Entrambi poco inclinati e pochissimo crepacciati, ideali per gite sci-alpinistiche. A settentrione s’erge una poderosa barriera rocciosa: la Blümisalp. Dal lato opposto sovrasta isolato lo Tschingelhorn.
E’ un vero peccato aver lasciato della roba a Fafleralp: altrimenti avremmo potuto scendere nella valle di Mürren o, meglio ancora, nella poco conosciuta Gasthenthal.
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Entriamo nel ridente villaggio di Wilser. In basso la Lonza scende cantando a valle, tra un duplice filare d’alberi che quasi vanno a lambire le sue acque. Mi accorgo che anche Benne sta lasciando qui una parte del suo cuore… gli altri sono ancora indietro…
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E’ stata una serata indimenticabile quella alla Mutthornütte. Canti, schiamazzi, allegria: pure i custodi del rifugio han preso parte al nostro quarto d’ora di felicità. In un cantuccio, alcuni svizzeri giocavano a carte: d’altri non v’era nessuno.
Albert è stato come sempre inesauribile. E’ buon conoscitore della musica classica e leggera, specie quella viennese. Possiede una voce discreta e poi è socievole al massimo: è stato lui il vero animatore della comitiva…
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Anche il villaggio di Kippel è alle nostre spalle. La montagna si va facendo più dolce: dal ciglia della strada si leva di continuo un profumo di fiori e un canto di colori…
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La salita dello Tschingelhorn è stata più dura del previsto. La neve caduta nella notte ha complicato le cose, specie nei tratti rocciosi. In compenso nel ripido canale nevoso siamo proseguiti sicuri. Gino è andato benissimo. Albert ha avuto un po’ di timore, ma poi, alla fine, ha messo piede pure lui sulla vetta del “Cingolani”. Così è stato ribattezzato da Beppe, il quale ne trovava il nome piuttosto ostico da pronunciare. Questo nomignolo è piaciuto pure ad Albert, il quale se n’è appropriato…
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Prendemmo la via del ritorno nel pomeriggio. Venne qualche schiarita e sulla Petersgrat tornò il sole. A tratti si udivano i richiami che ci venivano lanciati dai rimasti al rifugio: la piccola Coca si volse agitando le braccia. Era soddisfatta ed a ragione: aveva compiuto bravamente la traversata dell’Oberland, a passeggio per i ghiacciai. Sempre sorridente e instancabile, con quel suo strano copricapo che la faceva assomigliare ad una cinesina…
Ancora un saluto al “Cingolani”, prima che sparisse definitivamente al nostro sguardo, e giù, verso l’ultima discesa…
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A Ferden la valle svolta bruscamente. Mi volto a rimirare ancora una volta la Lötschenlücke, il ghiacciaio, la cresta ove sorge l’Hollandia, la Petersgrat… poi tutto scompare.
Un piccolo chalet solitario, adorno di fiori, posto su un promontorio sopra il torrente, attira la nostra attenzione e, con essa, i nostri desideri…
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L’ultima sera siamo stati ospiti di Albert. Per l’occasione, la baita ove alloggia è divenuta l’Hotel Cingolani, il traballante tavolo una lussuosa “salle a manger”, il mozzicone di candela un magnifico e splendente lampadario. Le portate si sono susseguite servite in modo inappuntabile dal re dei cuochi: zuppa, latte e caffè amaro. Già, perchè Cingolani era anche rimasto sprovvisto di zucchero.
Là dentro si respirava fumo, ma si respirava pure un soffio d’umanità e un soffio di poesia. S’udiva all’esterno, proveniente dalle vicine balie, un dolce canto di voci femminili: in cielo erano tornate a brillare le stelle…
Albert doveva partire all’alba: poi ha preferito attendere qualche ara per compiere assieme a noi l’ultimo tragitto.
* * *
Siamo giunti a Goppenstein. Il momento di separarsi è prossimo. Albert ora resterà proprio solo: in un determinato punto dell’esistenza le nostre vie si sono incrociate: adesso stanno per riprendere opposte direzioni, ognuna verso un proprio destino e, forse, non si incontreranno più…
Il treno sbuca dalla galleria: presto, in vettura! Mi affaccio ancora al finestrino per cogliere l’ultima visione dell’Oberland. Vedo solo Albert, fermo sulla pensilina, il braccio levato in un estremo addio, dietro a lui, il nero della galleria…
“Auf wiedersehen, Cingolani”.
Pensiero Acutis, uomo e alpinista d’altri tempi
di Carlo Crovella
“Non restare chiuso qui, pensiero
Riempiti di sole e vai, nel cielo
Cerca la sua casa e poi, sul muro
Scrivi tutto ciò che sai, che è vero… (da Pensiero, in Opera prima, Pooh, 1971)”.
A fine novembre 2020 è mancato, all’età di 96 anni, Pensiero Acutis. Negli ultimi decenni è stato il più anziano socio del CAI Torino ed anche della GEAT, storica sottosezione torinese. Mi fa piacere parlare di lui per vari motivi che emergeranno progressivamente.
Non è sicuramente stato un personaggio dell’alpinismo impegnato e impegnativo, ma proprio questo è il tassello chiave su cui si incentra il suo ricordo. Uomo schivo, apparentemente timido e di poche parole, in realtà si dovette irrobustire per fronteggiare le avversità della vita. Esponente di un modo “minore” dell’andar in montagna, cioè senza clamorose imprese, ripropose nella sua passione le stesse caratteristiche esistenziali: semplicità, determinazione, serietà, profondità d’animo.
Si racconta che il nome proprio, molto particolare, gli fu volutamente dato dal padre che, di fede anarchica, per tutti i figli creò delle assonanze fonetiche con il cognome Acutis: il risultato è particolarmente azzeccato per Pensiero.
Al fine di inquadrare il personaggio, al di là del suo andare in montagna, è utile riportare il bel ritratto che è apparsa sul blog di Romano Borrelli (www.romanoborrelli.com) nel 2014, in occasione dei 90 anni di Pensiero.
“Pensiero Acutis è nato a Torino nel 1924 da genitori anarchici. La madre è Rosa Giuliano (1886-1947), il papà si chiama Anselmo Acutis (1879-1967), che è eclettico, innamorato della vita in tutte le sue forme: pittura, fotografia, arte. Avendo questi amori inscritti nella pelle, il padre non può che frequentare l’Accademia di Belle Arti. Anselmo è anche ricordato tra i promotori degli scioperi contro l’intervento dell’Italia nella prima guerra mondiale, manifestazioni che termineranno solo nel 1917. Verrà arrestato, processato e assolto, ma costretto ad andar via nel 1925, in epoca fascista, per le sue idee libertarie.
“Papà che non è più tornato. Andato via a 45 anni, è morto all’età di 88 anni. Quando l’ho conosciuto, io avevo 22 anni” ricorda Pensiero.
Il fratello maggiore, lui stesso anarchico, si chiama Libero, anche lui è emigrato in Francia, dove rimase vittima in un incidente stradale a 25 anni, all’uscita dal lavoro.
Una sorella, Vera, “cattolica proprio come me”, è stata impiegata presso una fabbrica di sapone, la Filippi di Cascine Vica, alle porte di Torino. Sarà sindacalista nei chimici della Cisl e segretaria di Carlo Donat Cattin, storico esponente dell’ala sociale della DC. Vera darà anche il suo contributo alla Resistenza confezionando pacchi per i prigionieri.
Insomma, in tre in famiglia. Mamma, sorella e Pensiero.
Ricordo di sua mamma: “Mamma Rosa, quando il padre e il fratello erano andati via e la sorella si trovava in convitto, era una lavoratrice in casa, sarta e cravattaia, e finì poi per andare a fare le pulizie all’officina Viberti. Morì giovane a causa di una lunga malattia durata quattro anni.”
Nel nostro incontro (sta scrivendo Borrelli, NdR), Pensiero mi indica la struttura dei Salesiani alla Maria Ausiliatrice, e ricorda. “Sono un Ex allievo. Mia sorella frequentava le scuole dai salesiani e tramite loro c’era stato un interessamento anche per me. Mi son ritrovato sui banchi di scuola, o meglio, nei laboratori dei Salesiani per diventare un rilegatore. Dopo cinque anni lo diventai davvero e nel 1943 presi il diploma. Dopo la guerra, ai primi di febbraio del 1946, entrai a lavorare alla SEI, la Società Editrice Internazionale.”
Commenta Borrelli: I suoi occhi si illuminano. Sono certo che si intravede in quell’edificio dietro ai macchinari, al lavoro, con i colleghi e amici di una vita.
“In quel periodo, in corso Regina, tra operai e impiegati eravamo circa quattrocento. Alla SEIi, appena entravi, eri amico di tutti. C’era molto cameratismo tra operai e impiegati. Era una specie di famiglia. C’erano i turni, ma solo per certi tipi di lavori. Così era il clima lavorativo, e non solo in quegli anni, dalle nostre parti. Alla SEI si stampavano Bollettini Salesiani, dizionari, grammatiche, libri e anche lettura amena. Sono andato in pensione nel 1984”.
Sul substrato sopra descritto, va ricordato che Acutis fu internato in Germania dopo l’8 settembre. Sempre da Borrelli apprendiamo il racconto diretto di Pensiero su quel terribile periodo: “Il 10 settembre 1943 ero in Liguria, al centro reclute di Diano Marina. Un periodo in cui ci hanno tolto molto, quasi tutto. Stenti e fame erano all’ordine del giorno. Un giorno ci fecero prendere la strada che va verso il Colle di Nava e fummo accolti, da due camionette di tedeschi, armati fino ai denti, che han cominciato a sparare, a noi disarmati. Uno dei nostri che conosceva il tedesco parlò con la pattuglia chiedendo spiegazioni. L’ordine era di proseguire fino ad Ormea e da lì una tradotta ci avrebbe condotti ad Alessandria dove, gli dissero, era stato allestito un grande campo di smistamento. Non era il caso di scappare: perché farsi fucilare se tanto poi avremmo riacquistato la libertà? Una volta arrivati ad Alessandria, ci chiedevamo dove fosse quel “benedetto” campo. La nostra domanda ottenne una risposta: il campo non era ad Alessandria. A Verona ne avremmo trovato uno più capiente. Ci caricarono su un treno. Era una giornata uggiosa, pioveva, ci chiusero ermeticamente nei vagoni. Alcune infermiere ci porsero foglietti di carta e matita dove avremmo dovuto scrivere il nostro indirizzo. Ma quando il portellone si riaprì, eravamo in Austria. Il viaggio continuò per una decina di giorni e quando era ora di scendere eravamo giunti “al Nord”, nei pressi di Sandbostel, cittadina vicino a Brema, dove era stato allestito un campo di smistamento. Gli storici dissero che eravamo quattromila. A Sandbostel trovammo un palco dove si precipitò a parlarci un gerarca fascista che tenne un breve discorso: era stata costituita la Repubblica Sociale alla quale quanti si trovavano lì, nel campo, a Sandbostel, dovevano aderire e ritornare a combattere con l’alleato tedesco, diversamente saremmo stati considerati traditori e come tali trattati. Una cosa poco simpatica a mille, millecinquecento km da casa nostra. Ma dove era, casa nostra, in quel momento? Si faccia avanti chi vuole firmare, disse quel gerarca. La condizione: o di qua o di là. Di quelle migliaia, pochi si fecero avanti. Fummo “sguinzagliati” qua e là in vari campi per lavorare. In più di seicentomila militari finirono da queste parti. Venni spedito ad Amburgo ove restai fino al giorno del rimpatrio. Lavoro: scavare macerie prima e finito in un deposito di legname poi, fino al settembre del 44. Da internati militari diventammo internati civili come lavoratori normali, sorvegliati 24 ore, pagati, però, in marchi.”
Il diciotto settembre del 1944 Pensiero subì un infortunio al polso: “Venivo collocato a riposo. Giravo la città di Amburgo: era una città giovane, un po’ anarcoide. Erano repubbliche militari con un senso di indipendenza. Si sentivano repubbliche marinare. Non tanto tedeschi. Con la popolazione mi son sempre trovato bene. Andavo in giro, facevo commercio con i buoni tessera. Al campo poi, si divideva tutto. Dopo lunghi mesi di disperazione, arrivarono le truppe anglo-canadesi a liberarci.”
Ma chi sono “gli internati”? Ce lo spiega Pensiero: “La storia degli internati militari è poco conosciuta. Fin dagli inizi, in diversi ambienti, sono stati considerati come imboscati quasi come avessero scelto, non come nella realtà tra prigionia o SS, ma come scelta identificata come un quieto vivere, collocandosi in una zona grigia. Erano circa 650 mila gli internati: se passavano tutti con la Repubblica Sociale in massa, forse l’esito della guerra in Italia sarebbe stato un altro, chissà. Per quanto mi riguarda, in venti mesi, l’ultima comunicazione con la famiglia era riconducibile a una lettera del novembre del quarantaquattro, speditami da mia sorella attraverso la Croce Rossa. Cosa troverò? Questa era la domanda che mi accompagnava costantemente.”
Pensiero si batté a lungo nel dopoguerra fino ai giorni nostri per la riabilitazione della figura dell’internato: partecipò a molte manifestazioni dell’Anei (Associazione nazionale ex internati nei lager nazisti, www.anei.it), di cui era Presidente onorario della sezione torinese, e spesso si recò presso le scuole ordinarie per raccontare la sua esperienza alle giovani generazioni, ammonendole a non ricadere nei pericoli che caratterizzarono il Ventesimo Secolo.
“Gli allievi più interessanti – commentava Pensiero – sono quelli delle elementari, specie gli stranieri. Mi fissano con gli occhi spalancati e mi sento fiero di non trascurare niente, di donare la mia esperienza come fossi il loro nonno. E’ fondamentale tramandare la nostra memoria e spiegare che il coraggio di opporsi è un valore immenso che va coltivato”.
E’ tempo di spiegare, a chi ha seguito la descrizione della vita dura di Pensiero, sia a Torino che in Germania, come mai mi sto dilungando così a fondo su tale personaggio e quali connessioni egli abbia con la montagna, con l’ambiente torinese dei relativi appassionati e, non ultimo, con la famiglia Crovella.
L’integerrimo stile di vita di Pensiero caratterizzò il suo approccio alla montagna. Nessun strombazzamento, molta concretezza al fine di vivere in piena armonia giornate “semplici” anche in alta montagna. Il quadro severo del dopoguerra contribuiva non poco a rendere ogni cosa complicata e difficile da ottenere, specie se confrontata con i giorni nostri, ma questo ne faceva assaporare maggiormente il valore profondo. Il tutto è particolarmente accentuato per Pensiero, considerata la sua dura esperienza da internato: una calorosa serata in rifugio, con tanto di zuppa fumante, assumeva un valore eccezionale, dopo gli stenti della Germania.
E’ probabile che la conoscenza fra la famiglia Crovella e Pensiero Acutis sia iniziata nell’ambito delle gite sociali che il CAI Torino riprese ad organizzare sul finire degli anni Quaranta. Si trattava di occasioni dalla logistica molto spartana, in linea con il clima post bellico: basti pensare che i trasferimenti verso i monti avvenivano per lo più utilizzando dei camion (forse ex militari), i cui cassoni erano attrezzati con semplici panche in legno e coperti dal classico telone.
E’ certo, invece, che nel decennio dei Cinquanta Pensiero Acutis condivise alcune estati alpinistiche con i miei genitori e i miei fratelli, allora adolescenti. Anagraficamente Pensiero si inseriva a metà fra genitori e fratelli e assicurava una dote alpinistica in più per l’attraversamento dei ghiacciai e i gli tratti tecnicamente più impegnativi.
In quel periodo la famiglia Crovella organizzò alcune vacanze in Svizzera, sia nell’Oberland che ne Vallese, partendo sulla Seicento di mio padre caricata all’inverosimile: due adulti (tre se si aggiungeva Pensiero) e due ragazzi, con rispettivi bagagli e attrezzatura alpinistica per lunghi periodi in quota. Le leggende di famiglia narrano di piccozze (allora tutte dotate di lunghissimo manico in legno) infilate in basso fra i sedili e gli sportelli dell’auto, immaginiamoci il resto.
Si tratta di un approccio spartano e a suo modo pionieristico dall’alta montagna, ancora sensibilmente condizionata dall’onda lunga della guerra con difficoltà e ristrettezze di ogni genere. Si tirava la cinghia sotto ogni punto di vista. Da tempo però la famiglia Crovella frequentava con assiduità le alte vette anche con i figli poco più che bambini.
E’ chiaro che i miei familiari non si impegnavano in itinerari di rilevante difficoltà, ma nel caso delle estati “svizzere” si trattava pur sempre di lunghe haute route in quota, attraversando ghiacciai e percorrendo affilate creste, avendo con sé due ragazzi al tempo sui 12-15 anni. L’attrezzatura tecnica era quella del momento: corde in nylon, ramponi con le cinghie in cuoio, zaini militari o quasi, gran parte dell’abbigliamento prodotto in casa o riciclato artigianalmente. Mia madre era molto brava a lavorare a maglia con i ferri: berretti, guanti, maglioni per tutta la famiglia uscivano dalle sue lunghe serate invernali.
Un andar in montagna d’altri tempi, di cui è piacevole lasciare un ricordo a dimostrazione che, anche allora, la montagna non era solo la ricerca dell’impegno e del limite.
Pensiero Acutis, per i suoi trascorsi esistenziali così provanti, si inseriva molto bene in questo approccio rude e poco appariscente. Pensiero, allora trentenne, istituì una particolare confidenza con mio fratello Luigi (quindicenne) da lui abitualmente chiamato Gino.
Nei decenni successivi intervennero, nelle rispettive esistenze, vari eventi che rallentarono fisiologicamente la frequentazione con Pensiero, che nel frattempo si era costruito una sua famiglia. Io stesso, nato nel’61, l’ho incontrato più che altro in occasioni istituzionali al Monte dei Cappuccini, ma non ricordo di aver mai condiviso delle giornate sul terreno. Lo conosco quindi più che altro per i racconti famigliari sulle estati di metà anni ’50.
Tuttavia Pensiero non interruppe l’attività alpinistica, svolgendola spesso in seno al CAI Torino e, anzi, la arricchì con pregevoli scritti, confezionando anche due libri di montagna (Dal Monte Soglio alla Levanna e L’estate di Geremia Gaspard), cui ne aggiunse un altro che costituisce di fatto la sua autobiografia del periodo da internato (Stalag XA – Storia di una recluta)
Pensiero maneggiava la penna con una certa abilità e ne aveva dato prova anche in precedenza, con una serie di articoli pubblicati, a partire da metà anni Cinquanta, su Scàndere, il prestigioso annuario del CAI Torino.
Pensiero scrisse un articolo per ciascuna delle tre estati alpinistiche in Svizzera con la famiglia Crovella, pubblicando questi testi (insieme ad altri di sua composizione) su Scàndere. Anche lo stile riverbera i connotati del personaggio: pochi fronzoli, apparente semplicità che maschera invece una profondità d’animo e di sentimenti. Tratti molto torinesi: esageruma nen e riservatezza estrema.
Per esigenze di spazio ho scelto di riproporre in calce uno solo dei tre articoli “svizzeri”, quello sull’Oberland. Nel testo, tratto da Scàndere 1955, vengono citati tre componenti su quattro della “famigliola” Crovella: mio padre Umberto, Gino (mio fratello Luigi) e la Coca (mio sorella Giuliana, scomparsa nel 1991).
Manca un accenno a mia madre Rita e mi pare strano che non ci fossero aneddoti a lei riferiti, considerata la sua personalità così trafficoira, come si dice in piemontese. Sicuramente la traversata dell’Oberland sarà stata caratterizzata da mille episodi, anche spiccioli, che avranno visto mia madre come protagonista, ma quella volta rimasero nella penna di Pensiero.
A tal fine supplisce un altro articolo di Pensiero, questa volta pubblicato su Scàndere 1957-58 (che in quell’occasione assemblava un biennio), e riferito ad un’altra vacanza svizzera con i Crovella, nella Valle di Arolla. Pensiero descrive con arguzia un frangente molto particolare, indice anche di come si andava in montagna allora:
“Facemmo la loro conoscenza in un pomeriggio apocalittico, mentre salivamo alla Cabane du Bertol. Erano gli otto componenti di una famiglia fiamminga: genitori e sei figli, quasi tutte femmine tranne l’ultimo, un maschietto dei sei o sette anni. Li accompagnava Maurice Follonier, guida di Arolla.
L’incontro avvenne in una baracca situata al Plan de Bertol. Per caso avevamo trovato riparo da una bufera di vento e neve che quasi ci impediva di muovere passo. Quella che credevamo fosse solo una baita abbandonata era in realtà qualcosa di più: fornita di stufa, legna, viveri come the, caffè, zucchero, non mancava una cassetta di spaghetti e una lattina colma di strutto. La signora Rita, naturalmente, approfittò di quel ben di Dio per cucinare una pastasciutta a dovere e, allo stesso tempo, occupare l’imprevisto intermezzo”.
In quel “naturalmente” dell’ultima frase c’è tutta mia madre: me la vedo che, scrollatasi la neve da testa e spalle, si tira su le maniche e annuncia: “Veh, faccio una bella pastasciutta per tutti, che ci scalda bene e toglie la fame” e monopolizza la stufa, per poi distribuire gli spaghetti come un sergente con il rancio per la truppa.
Non si poteva certo limitare a stare semplicemente con le mani in mano, aspettando che la bufera si placasse! In più univa l’utile (sfamare una folta combriccola, con tanti gagni infreddoliti e tremanti) e il dilettevole (spignattare sulla stufa). Per combinazione del destino scrivo queste righe l’8 dicembre 2020, giorno del compleanno di mia madre: il cerchio si chiude. Le caratteristiche di mia madre non si attenuarono neppure con l’età e lei si manifestò battagliera fino ai suoi ultimi giorni, molti decenni dopo quella pastasciutta.
Ora smetto, che una lacrimuccia inizia a spuntarmi, anche se negli anni ‘50 io non esistevo neppure. Ma l’impostazione Crovella è rimasta e si è estesa anche nei decenni successivi, quelli che mi hanno coinvolto direttamente.
Però mi piace concentrarmi sul quadretto intuibile dalle righe di Pensiero: una pastasciutta improvvisata, il tepore della stufa che tira a meraviglia, un allegro vociare, la bufera che imperversava fuori. Una montagna solo apparentemente “minore” che racchiude in sé tutto un modo di essere e di gustare le piccole gioie dell’esistenza, dopo il duro periodo bellico. Anche Pensiero ne fu portavoce, con le sue esperienze giovanili e il suo agire sempre coerente, giorno dopo giorno.
La vita si srotola e ci allontana inesorabilmente dai primi anni di cui restano i ricordi e un velo di nostalgia. Pensiero Acutis è stato spesso collegato, nei racconti dell’epopea crovelliana, a quei periodi iniziali quando si è coagulato tutto ciò da cui è poi derivato il nostro successivo sviluppo, familiare ed individuale.
Pensiero è sempre stato descritto come fosse un eroe omerico che contribuì all’epica originaria.
Pensiero ora ci ha lasciati, ma non ci lascerà mai il suo pensiero.