di Beppe Leyduan, pubblicato su I Camosci Bianchi in data 10 gennaio 2020
Ho guardato il bellissimo documentario “Le Temps d’une Vie” che il Gran Paradiso Film Festival ha concesso gentilmente in visione gratuita.
È la storia a ritroso di uno stambecco del Parco Nazionale del Gran Paradiso. Si chiama Becco e i suoi geni sono sopravvissuti alle ere glaciali fino a quando non ha incontrato Homo sapiens, rischiando così l’estinzione. Ma poi ha incrociato un Re e dei guardaparco e così la sua traiettoria è cambiata. Il film narra del tempo di una vita: quando hai imparato il segreto dell’infinito, è tempo di morire.
Se ci fosse stato il guardaparco Anacleto Verrecchia avrebbe sicuramente applaudito alle straordinarie immagini prodotte da Véronique, Anne e Erik Lapied, alpinisti e cineasti di montagna autodidatti (chapeau!), innamorati del selvatico che ancora alberga nel Gran Paradiso. Avrebbe certamente gioito nel vedere condensato in un’ora tutto quello che lui ha potuto osservare e raccontare sul Re delle Alpi.

Questo film non ti spiega solo la vita d’uno stambecco e della natura in cui lotta per sopravvivere. Questo film ti spiega la vita.
Mi ha molto commosso ed impressionato vedere l’estrema lotta dello stambecco per superare in quota i durissimi inverni delle Alpi Graie. Freddo glaciale, tormente, valanghe… Pensate che il suo pelo lo protegge fino a meno venti gradi! Ma come fa a nutrirsi nei lunghi mesi che lo separano dal disgelo? Aspetta le valanghe e le bufere di vento che scoprono qualche misero fazzoletto di terra, aggrappato ai salti di roccia. Oppure zappetta la neve con gli zoccoli per stanare qualche ciuffetto d’erba secca, mentre tutt’intorno l’inverno si mette in scena.
In quelle immagini ho visto tradurre magnificamente quanto scrisse Verrecchia nel libro “Diario del Gran Paradiso”, ovvero che quando urla la tempesta, apportando onde minacciose di vento e neve, essi restano immobili come se niente fosse e non si curano minimamente della furia degli elementi.
È arrivato il Generale Inverno nelle Valli di Lanzo. Neve e freddo a gennaio come non capitava da tempo. Negli ultimi anni, percorrendo i tiepidi sentieri di costipati inverni, mi sono ritrovato spesso a fare i conti con inquietanti interrogativi sulle sorti dell’umanità e sulla salute degli ecosistemi, fondamentali per la nostra vita.
In alta Val d’Ala, sentire a buon mercato neve e freddo vuol dire fare il pellegrinaggio ai circa 1900 metri del Rifugio Città di Cirié, partendo da Balme. L’altro giorno, alle 10 circa, il sensore registrava la bellezza di – 17 °C (!), come da tempo non mi capitava di percepire.

Non sono più abituato a preparare le escursioni con questo freddo e così mi accorgo che rischio di sbagliare qualcosa quando organizzo attrezzatura, abbigliamento e zaino. In genere ho sempre ampi margini, ma questa volta ho sentito intorpidirsi le gambe, sebbene indossassi ben tre strati.
Mani e piedi indolenziti la prima mezz’ora di marcia. Poi le salite prima del Piano della Mussa hanno rimesso in moto il tutto.
Adattarsi in ambiente è sempre più complicato. Chi deve programmare un’uscita in montagna ormai l’ha capito molto bene: stiamo perdendo la “memoria” sulla pelle di cosa vuol dire freddo intenso, assolutamente normale fino a qualche tempo fa. Oppure passiamo dall’inverno all’estate di colpo, senza poterci abituare gradatamente alle variazioni di temperatura.
È tutto più difficile da prevedere a tavolino, soprattutto le condizioni della montagna.
Ad ogni modo per me, in fin dei conti, non è arduo divertirmi in ambiente, “sopravvivendo” ai rigori dell’inverno alpino. Un po’ di esperienza, un ciuffo di tecnologia nel vestiario e nell’attrezzatura, magari sapendo poi che c’è anche un rifugio da qualche parte ad accoglierti con calore, cibo e bevande, oppure un elicottero che ti viene a raccattare se qualcosa va storto (e c’è anche l’opzione squadre a terra del Soccorso Alpino, in caso di volo impossibile). E poi che dire del fondovalle, che ti attende con la sua comfort zone, dopo aver socializzato panorami mozzafiato?
L’altro giorno mi sono allontanato dal Rifugio Città di Cirié dopo essermi nutrito e goduto il sole che faceva capolino nel gelido azzurro alpino del Pian della Mussa, ad oltre 1800 metri di quota. È ora di rientrare nella opulenta comfort zone, dove tutto è apparecchiato, immediato e scontato. Dove non sembrerebbe che ci sia bisogno di lottare per la sopravvivenza, come fa Becco: tutto è a tua disposizione, senza riuscire a percepirne i costi reali.

A dieci minuti di cammino, rientrando verso Balme, noto, alla mia sinistra e in lontananza, uno grosso stambecco con lunghe corna, sprofondato nella neve, che pare sostare immobile sotto a delle balze rocciose. Potrebbe essere tranquillamente il nostro Becco del film Le temps d’une vie. Lo inquadro con lo zoom della fotocamera e mi rendo conto che sta faticosamente annaspando su di un ripido pendio, abbondantemente innevato. Si trova proprio dove finisce la neve e iniziano le pareti. Fa due passi e sprofonda. Con estrema flemma si rialza, altri due passi e poi le sue zampe cedono nuovamente. Ogni tanto il muso si immerge alla ricerca di qualche mazzettino di erba secca, emerso grazie agli scavi dei suoi zoccoli.
Non è più un film e comprendo molto bene quella sensazione di cedimento delle gambe. Mi è successo più di una volta nelle escursioni in ambiente innevato. Il modo di dire “sentirsi mancare la terra sotto i piedi” credo renda molto bene l’idea. Riesco a percepire la fatica dello stambecco, le sue difficoltà. La mia mente sintetizza in un nanosecondo il contesto che sto vivendo: prende Becco, le Alpi, i meno diciassette, lo spessa coltre di neve, la mancanza esasperante di cibo, come mi ha riferito 1000 metri più in basso il merlo che bussa alla porta di casa, il rischio valanghe… Allo stesso tempo sento la rassicurante e desiderabile cascata della comfort zone del rifugio Cirié, che si trova alla medesima quota dello stambecco, ma solo qualche centinaio di metri più indietro. Un tempo sospeso, brulicante di divertimento.
Ecco il cortocircuito.
Non riesco a mettere in comunicazione il mio svago, protetto dalla comfort zone della tecnologia che mi veste, con la lotta per la sopravvivenza dello stambecco. Cultura e natura sono separate da un muro invalicabile. I fotogrammi del documentario emergono come bolle da un oceano profondo ed oscuro. Ma qui non è più un film che sto osservando. È la realtà a due passi da un imbiancato tassello del divertimento alpino di noi sapiens.
Non riesco a costruire un “ponte” che possa collegare questi due ambienti, così diversi: Becco affamato, che vuole sopravvivere con tutte le sue forze all’inverno, per avere ancora una chance di trasmettere i suoi geni al futuro, e questo spazio di svago del Pian della Mussa.
Io non mi diverto sembra dirmi lo stambecco, mentre ci osserva impassibile. Sembra quasi vergognarsi di fronte a noi che ci godiamo spensieratamente lo spettacolo dell’inverno.

Una lezione durissima, come forse solo un rigido inverno poteva darmi. Sono trascorsi una decina di giorni dalla visione di Le Temps d’une Vie e adesso qui è tutto in diretta.
Chi è stato in India mi ha raccontato che morte e vita, miseria e ricchezza convivono a due passi gli uni dagli altri. Contesti culturali. Stessa minestra in cui sguazzano i sapiens.
Qui però il confronto è ad un altro livello: si tratta di “spazi vitali”. Ad esempio, per stare sul pezzo, quello dello stambecco – severo e quasi insopportabile a noi umani – è per caso compromesso dai nostri spazi di divertimento? Dalle nostre comfort zone?
Adesso, forse, vi aspettate il pippone finale sull’impatto delle attività umane sugli ecosistemi, sui cambiamenti climatici, sull’Antropocene e via discorrendo.
No.
Così non mi diverto più.