1905 – 1997, neurologo, psichiatra e filosofo austriaco, co-fondatore dell’analisi esistenziale e della logoterapia; alpinista. I suoi 32 libri sono stati tradotti in 28 lingue. Considerato il terzo maggior psicologo austriaco, dopo Freud e Adler. Dal 1942 al 1945 in campo di concentramento.
Questo suo scritto – probabilmente una conferenza – è del 1987, nel 125° del Club Alpino Austriaco, ripubblicato nel 2002 e poi nel 2013 da Tyrolia Verlag, con foto, prefazione e postfazione di Christian Handl (qui omesse).
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Esperienza di montagna ed esperienza di significato
(Bergerlebnis und Sinnerfahrung)
di Viktor Emil Frankl
Traduzione di Lorenzo Dotti
Cosa mi ha spinto ad arrampicare? Detto francamente è la paura che mi crea. Ma quante volte chiedo ai miei pazienti, quando si rivolgono a me con la loro nevrosi ansiosa: bisogna accontentarsi di tutto? Non si può essere più forti della paura?
Non ha già posto la domanda Johann Nestroy nella sua opera teatrale Giuditta e Oloferne? “Ora sono curioso di vedere chi è più forte: io o io?”. E così anch’io mi sono chiesto, quando avevo paura dell’arrampicata: chi è più forte, io o la canaglia che è in me? Posso ben sfidarla, io. C’è qualcosa nell’uomo, che una volta ho chiamato “la resistenza dello spirito”, contro le paure e le debolezze dell’anima.
L’arte marziale conosce concorrenti e rivali, ma l’alpinista concorre e rivaleggia solo con uno, cioè se stesso. Pretende qualcosa da se stesso, chiede qualcosa a se stesso, una prestazione – possibilmente – ma anche la capacità di rinunciare, se necessario. E questo ci porta esattamente dove l’alpinismo si confronta con lo spirito del tempo, o meglio, dove parla dello spirito del tempo. Chi chiede più oggigiorno qualcosa a se stesso, addirittura una prestazione? E oggi non ci si sente tutti sopraffatti?
Oggi non si lamentano tutti dello stress? Dimenticano che Hans Selye, pur sempre il fondatore della dottrina dello stress, distingue esplicitamente tra “distress” ed “eustress”, cioè uno stress che fa ammalare e uno che invece mantiene sani; e non si addice al secondo il termine “the salt of life”, cioè il sale della vita, o “the spice of life” il sapore della vita?
Ciascuno sa che un organo che non viene impiegato diventa vittima dell’atrofia, e la medicina odierna sa che non è solo il sovraccarico ad avere un effetto patogeno, causando una malattia, ma che anche il rilassamento lo può provocare. Ma l’educazione di oggi non può fare a meno di mettere in guardia unilateralmente contro l’audacia di mettere i giovani di fronte a delle sfide, così che si finisce per creargli tensione. Ma tale pedagogia si basa palesemente su una teoria motivazionale superata da tempo, quella che dice che l’uomo vuole profondamente e definitivamente niente altro che “tension reduction”; cioè prevenzione e riduzione della tensione attraverso la liberazione dal bisogno.
Ma l’uomo ha bisogno anche di tensione, e quello di cui ha più bisogno, quello che gli è più utile, è la tensione che si instaura nel campo di forze polare tra la persona da una parte e, dall’altra un obiettivo che si prefigge, un compito che sceglie, o – per dirlo con Karl Jaspers – una “cosa che fa sua”.
E credete a un neurologo esperto, se c’è qualcosa che potrebbe aiutare l’uomo a superare le difficoltà, è proprio la conoscenza di qualcosa come un significato che aspetta, per così dire, di essere adempiuto.
Si dà il caso che io conosca molto bene la letteratura internazionale sulla psicologia dei campi di prigionia, e posso dirvi che i risultati della ricerca scientifica sono concordi: in ultima analisi, le probabilità di sopravvivenza dipendevano da questo: l’orientamento verso il futuro, verso un compito da svolgere nel futuro, nella libertà.
E come si pone oggi? In tutto il mondo gli uomini – e specialmente i giovani – soffrono di un senso di inutilità. Possiedono il cibo, i mezzi per vivere ma sono privi di uno scopo per cui vivere, per cui valga la pena di continuare a vivere.
John Glenn, l’astronauta americano della prima ora, disse una volta: “Ideals are the very stuff of survival” [Gli ideali sono la vera essenza della sopravvivenza]. Senza l’orientamento verso un ideale, l’uomo, l’umanità, non può sopravvivere: ma questo crea stress, l’uomo deve saper combattere, deve saper aspettare, in una parola è necessaria la cosiddetta tolleranza della frustrazione, e per questo l’uomo deve essere addestrato. Ma l’educazione di oggi, preoccupata soprattutto di ridurre al minimo le tensioni, tende a un’intolleranza delle frustrazioni, a una sorta di immunodeficienza psichica, se così posso dire. I giovani sono così incapaci di sopportare le frustrazioni, di aspettare la realizzazione dei loro desideri, sono incapaci di fare affidamento su qualcosa che non hanno ancora o di sacrificare qualcosa che hanno già.
Nella loro intolleranza per le frustrazioni i giovani non sono più capaci di evitare le sofferenze evitabili e di sopportare quelle inevitabili; figurarsi a provare pietà per qualcun altro: la pietà l’hanno solo per se stessi.
Ma l’uomo sa come aiutarsi – l’ha sempre saputo. Fu il poeta Friedrich Hölderlin ad esprimere questo stato di cose con la bella espressione: “dove c’è il pericolo, là cresce anche la salvezza”. E come pensa l’uomo di scongiurare il pericolo di una tendenza all’indebolimento e all’infiacchimento provocato da una società industriale tecnologicamente perfezionata e da una società consumistica orientata al soddisfacimento totale dei bisogni? Diamo un’occhiata alla vita di tutti i giorni: l’uomo d’oggi non ha più bisogno di camminare. Semplicemente siede nella sua auto e guida. Per non parlare del fatto che doveva correre.
Ma cosa è successo? Ha inventato il jogging. Oppure l’uomo d’oggi non ha bisogno di scalare,
nemmeno di superare salite. E cosa succede? Si mette in testa di salire le montagne, di scalare le pareti. In una parola “la scimmia nuda”, come l’apostrofa il titolo di un bestseller, imita i suoi antenati, che dovevano arrampicarsi sugli alberi per procurarsi il cibo o sfuggire ai nemici, tutte cose necessarie per le scimmie, ma non più per lui.
Ma questo è il punto: l’uomo biologicamente sottodimensionato produce volontariamente, artisticamente e deliberatamente bisogni di questo genere, esigendo qualcosa da se stesso,
privandosi di qualcosa, rinunciando a qualcosa. Nella prosperità crea situazioni di emergenza; nel bel mezzo di una società opulenta, comincia a creare isole di ascesi – ed è in questo che vedo la funzione, se non la missione, dello sport in generale e dell’alpinismo in particolare : sono la moderna, secolarizzata forma di ascesi.
Ma torniamo alla scalata. A differenza dell’uomo biologicamente in stasi, lo scalatore in montagna non sceglie “la via di minor resistenza”, ma preferisce scegliere l’itinerario più difficile.
Questo naturalmente porta non solo a imitare le scimmie, come dicevo prima, ma anche a
superarle; perché non riesco a immaginare che le scimmie abbiano mai superato il terzo grado – io l’ho superato solo eccezionalmente – ma ricordiamoci che il sesto grado veniva definito (almeno decenni fa) come “difficile al limite delle possibilità umane”.
In altre parole l’arrampicatore non si occupa solo di bisogni creati artificialmente, ma anche delle possibilità, in particolare nel senso che vuole scoprire dove si trova quel limite delle possibilità umane – vuole esplorare quel limite. Ed ecco che gli succede come con l’orizzonte, perché ad ogni passo che fa verso di lui, l’orizzonte gli si allontana davanti, e mentre ci si avvicina, lo si spinge già davanti a sé, – lo spinge sempre più lontano, proprio come lo scalatore, nella storia dell’arrampicata “estrema” e “libera”, ha spinto oltre i limiti delle possibilità umane.
Ma spingendo sempre più in avanti questo limite, egli cresce anche al di là di se stesso… .
Quando noi, i “vecchi” che abbiamo varcato la soglia del nono decennio, guardiamo indietro alle esperienze che dobbiamo a tutte le montagne, alle pareti e alle creste, possiamo essere tristi in cuore, ma c’è un proverbio confortante che dice: “Quello che hai vissuto, nessun potere del mondo può rubartelo”.
Io stesso direi che lo abbiamo salvato nel passato, e che il passato è una forma dell’essere, forse addirittura la più sicura, perché niente e nessuno può farla ritornare, né annullarlo, né espellerlo dal mondo – nel suo essere nel passato è nascosto, è conservato e preservato dal dissolvimento.
È vero che di solito vediamo, se posso dirlo, solo i campi di stoppie della fugacità, ma in un istante – troppo spesso solo in quello – scorgiamo i granai pieni del passato, nei quali abbiamo accumulato da tempo il raccolto della nostra vita: le opere che abbiamo creato, le azioni che abbiamo fatto, i cari che abbiamo amato, e le sofferenze che abbiamo sofferto con dignità e coraggio .
A Ortisei in Val di Gardena una volta ho acquistato una targa con un proverbio che esprime tutto ciò che ho detto, ma con parole molto più belle:
“Non piangere i giorni luminosi che sono passati, ma sorridi perché sono stati”.
La salvezza di cui parla Viktor Emil Frankl, citando a sproposito Friedrich Hölderlin, non è affatto alternativa alla società dei consumi. Piuttosto la favorisce perché l’eroismo in generale e lo sport in particolare vogliono educare i giovani alla sopravvivenza nella società moderna che impone la lotta per la vita e il successo. Non tutti possono sopravvivere alle sfide della società e molti soccombono consegnando ai più forti la ricchezza e il potere. Il potere di produrre e consumare a vantaggio dei pochi che sono in grado di escludere gli altri concorrenti dai benefici del progresso tecnico e scientifico.