Tra le Vette Feltrine e i Monti del Sole, un viaggio nella storia di una valle dimenticata, il Canale del Mis. Un mondo segnato da eventi tragici, fatica, miseria, ma anche da tradizioni antiche, come quella dei conthe, i seggiolai.
“Galiverna” a California
di Ugo Baccini, Maresa Funes e Gabriele Marcon
(pubblicato su Rivista della Montagna n. 116, marzo 1990)
Foto degli stessi
Canale del Mis? Il toponimo non è dei più noti tra quanti bazzicano le vallate alpine. Per capirci, diciamo subito che si sta parlando di una zona del Bellunese, e precisamente di quel profondo solco vallivo che separa i Monti del Sole dalle ultime propaggini del Pizzocco, la sommità più orientale delle Vette Feltrine. Si tratta di una zona che è rimasta fuori dai grandi flussi turistici, incanalatisi altrove, di una valle dove la vita è sempre stata dura, con stenti e miserie, estati trascorse all’insegna della fatica e di un lavoro senza tregua, inverni gelidi, emigrazione. California, il nome di uno dei suoi paesi, il più tragicamente segnato, ormai abbandonato del tutto, non deve trarre in inganno. Qualcuno ritiene che il curioso toponimo, così particolare per una vallata del Bellunese, faccia riecheggiare la California del “nuovo mondo” per via di un legittimo e sacrosanto desiderio di ricchezza e di benessere. Ma la verità – come sempre capita tra le pieghe delle montagne fuori mano – è molto più prosaica, e l’ipotesi più credibile sull’etimo del nome sembra quella avanzata da alcuni glottologi. California – dicono questi signori – deriverebbe semplicemente da “galiverna”, termine dialettale che indica un luogo freddo e unico.
Certo, la scoperta di un giacimento di cinabro (minerale da cui si ricava il mercurio) sull’altopiano di Vallata, nel 1880, sembrò in un primo momento giustificare un nome così altisonante, ma la ricchezza che uscì dalla terra fu talmente poca cosa, che alla fin fine la miniera regalò ai montanari più dolori che gioie. Lo sfruttamento della vena durò un secolo, con lunghi periodi di interruzione, fino alla chiusura definitiva. Chiusura che ebbe luogo nel gennaio 1962 quando, a causa di un allagamento dei pozzi, morirono tre minatori. In ogni caso, miniera a parte, le risorse della valle dovevano essere piuttosto modeste: un po’ d’agricoltura, scarso allevamento, un discreto sfruttamento del legname e l’emigrazione. E si può dire che queste ultime due attività fossero strettamente congiunte, perché l’abilità dei valligiani nel lavorare il legno era tale che in breve divenne una risorsa da esportare. Anzi, col tempo, si creò un vero e proprio movimento di seggiolai itineranti che scendevano in pianura per costruire e impagliare sedie. Questo tipo di migrazione aveva caratteri stagionali, e veniva praticata d’inverno, quando in montagna tutto era sotto la neve. Nella stagione fredda rimanevano in paese solo le donne e i bimbi più piccoli; ma d’estate, quando gli uomini ritornavano per la fienagione, venivano puliti i boschi e falciati i prati, anche quelli più alti, a ridosso delle pareti rocciose. Si sfruttava ogni fazzoletto di terra produttiva: per raccogliere un fascio d’erba dove questa cresceva solo per pochi centimetri – ricorda qualcuno – si falciava anche tre-quattro ore di fila. La vita non era facile, ma fatiche, stenti, lavori massacranti se non altro conservavano intatto l’equilibrio idrogeologico di questa terra non prodiga di frutti; frane, valanghe e alluvioni erano più rare, meno disastrose. Le cose continuarono in questo modo fin quando il miraggio di un guadagno sicuro nelle industrie e nei cantieri della pianura assunse contorni definiti. Allora molti montanari scesero a valle definitivamente. Invece di essere sostenuti – come accadeva un po’ ovunque sull’altro versante delle Alpi – e incoraggiati a rimanere, i valligiani vennero invogliati ad andarsene. La loro indispensabile opera di difesa e manutenzione della natura montana fu gravemente sottovalutata da parte delle istituzioni. (E a posteriori possiamo ben affermare che quello fu un errore gravissimo).
Ma il problema non è solo di oggi. Qualcuno racconta che durante la prima guerra mondiale gli abitanti di Sagron, allora austriaci, avevano costruito un cavallo di legno. Sotto campeggiava un cartello che diceva: «quando questo mangerà il fieno, italiani diventeremo». Già allora, evidentemente, la gente di questi luoghi avvertiva la differente politica per la montagna attuata dall’Austria rispetto all’Italia. Nell’ultimo dopoguerra, in pochi anni la valle fu abbandonata. Eppure, per evitare lo spopolamento, qualcosa si sarebbe potuto escogitare. Magari rivalutando e mettendo al passo con i tempi quella stupenda tradizione artigianale che i seggiolai gosaldini avevano saputo crearsi…
L’ultimo atto e poi la fine
Per la valle il colpo di grazia arrivò il 4 novembre 1966, l’anno dell’alluvione dell’Agordino. Se la montagna non fosse rimasta abbandonata a se stessa, probabilmente gli effetti sarebbero stati contenuti, ma quel giorno i torrenti Mis e Gosalda, che confluiscono proprio a California, strariparono rovinosamente. Migliaia di metri cubi di acqua e di ghiaia invasero il fondovalle, spazzarono case e fienili lasciandosi dietro un paesaggio lunare. L’alluvione colpì anche altri centri dell’Agordino ma, mentre questi risorsero, per California e gli altri insediamenti del Canale del Mis fu la fine.
Vittime non ce ne furono, ma centinaia di persone rimasero padrone solo dei vestiti che avevano indosso. E se non capitò una tragedia, lo si deve solo al buon senso degli abitanti della zona che, vedendo i corsi d’acqua ingrossarsi, costituirono una sorta di servizio di guardia permanente.
La maggior parte dei valligiani abbandonò la casa solo tre quarti d’ora prima dello straripamento. Erano le 15.45 e a quell’ora, a novembre (e con quel tempo), era già buio. Rifugiatisi nelle case più alte, da parenti e amici, i fuggiaschi ebbero ancora una notte per sperare. Ma invano. La mattina successiva, quella che alle prime luci sembrava solo nebbia, era in realtà un enorme sudario di pietre.
Per la verità la natura qualche avvertimento lo aveva già dato: da tre autunni il Mis si ingrossava più del solito (l’anno precedente si era ingoiato una casa), e la Gosalda da un paio d’anni asportava sempre più terra nelle sue piene stagionali. Pare che le strutture pubbliche non abbiano prestato ascolto a quei segnali, e tale latitanza fu ancora più grave nei giorni che seguirono l’alluvione quando, per il ritardo degli aiuti, le famiglie della zona dovettero far fronte alla situazione in maniera autonoma.
Qualcuno se ne andò subito, facendo ricorso alle risorse individuali, ma la maggior parte si costituì in comitato alla ricerca di un posto per ricostruire il paese. Venne accettata l’offerta del comune di Sedico, che mise in vendita ad un prezzo discreto una parte del proprio territorio: nacque così Nuova California, dove col tempo si trasferì una settantina di famiglie.
L’alluvione si mangiò anche la strada di fondovalle, unico collegamento diretto con la Val Belluna. Per molti anni nessuno pensò di ripristinarla, così la zona rimase sempre più isolata e si incrementò lo spopolamento anche delle località non direttamente danneggiate. Solo di recente sono iniziati i lavori di ricostruzione, che ancora continuano. Ma c’è un particolare. La strada, che ventidue anni fa la gente reclamava a gran voce perché necessaria, oggi rischia di non servire a nessuno, e anzi potrebbe diventare un possibile strumento di rapina da parte di un certo turismo…
Oggi, pur tra mille difficoltà, qualcuno continua a vivere a California: nonostante le case sventrate, le passerelle sul torrente e le distese di ghiaia, nella frazione di Pattine una ventina di persone non ha voluto abbandonare la propria terra. Solo tre, però, Maria e i suoi figli, hanno la volontà e il coraggio di resistere anche d’inverno. Lei, la Maria, la chiamano “Meri”: è nata negli Stati Uniti, il suo nome è una contrazione di “Merica”.
I Conthe, seggiolai impagliatori
Fino a qualche anno fa, i ragazzi del Canale del Mis erano votati al mestiere nomade del contha, il seggiolaio. Spinti dalle necessità, partivano molto giovani, a 8-9 anni, come gaburi, per imparare a impagliare e poi a costruire le sedie. Se l’inverno era duro per un adulto, figurarsi per un bambino. Di norma, per un contha, il letto era un lusso: qualcuno mangiava e dormiva presso la famiglia del committente, ma nella maggior parte dei casi occorreva provvedere autonomamente a vitto e alloggio. Quando andava bene, i conthe passavano la notte nei fienili e nelle stalle; quando andava male, si stendevano sui mannelli di paglia, sotto i ponti o lungo i porticati delle piazze.
I gaburi aiutavano il padrone: andavano a sbatociar in cerca di lavoro bussando di casa in casa; bagnavano la paglia nelle fontane; impagliavano, squadravano il legno con l’accetta. Il tirocinio per diventare contha era duro, e guai a chi aveva a che fare con un padrone avaro e violento: se i gaburi non erano veloci nel lavoro, o se chiacchieravano troppo, venivano picchiati sulle dita con il fuset, un piccolo attrezzo di legno utilizzato per infittire i cordoncini di paglia. La domenica, poi, dopo una settimana di lavoro dall’alba a notte inoltrata, i ragazzini venivano spediti a raccogliere paglia, con la crath sulle spalle, lungo corsi d’acqua distanti anche decine di chilometri.
Comunque, anche se duro e malpagato, l’apprendistato era necessario per imparare l’arte: per riuscire a impagliare con destrezza una sedia erano necessari mesi di pratica; e prima di costruirla bene, ci volevano degli anni. La costruzione vera e propria della seggiola richiedeva abilità, accorgimenti particolari e il sapiente uso della caora, una specie di cavalletto di legno. Prima che entrasse in uso la caora tutto era ancora più difficile, perché si lavoravano i vari elementi della sedia premendo le estremità del pezzo da un lato contro un muro e dall’altro contro una tavola di legno che il contha teneva appesa al collo.
Il legno da trasformare in sedie veniva reperito sul posto, e non era raro che i committenti stessi affidassero ai seggiolai il compito di abbattere nel loro podere la pianta più adatta. Per impagliare una seggiola, un contha esperto impiegava un’ora, e in un giorno riusciva a costruirne da solo quattro nuove, che diventavano sei con l’aiuto di un gaburo.
Negli ultimi tempi della professione furono introdotte alcune varianti nell’impagliatura: in parecchi casi la paglia era sostituita da sedili di compensato decorato, di fabbricazione russa. E cominciò pure a prendere piede l’impagliatura “a lucido”, dove i cordoncini di paglia palustre venivano ricoperti con paglia di segale colorata. Quest’ultima lavorazione richiedeva più tempo, ma il prodotto finito era molto resistente e, soprattutto, alla fine veniva pagato tre volte di più. Il costo di una sedia era uniforme e noto, però talvolta succedeva che qualche committente, a lavoro ultimato, mercanteggiasse sul prezzo. Quando la trattativa, protratta per ore, non si risolveva, al seggiolaio non restava che accettare l’offerta. Ma spesso l’ingiustizia veniva ripagata immediatamente. Raccogliendo gli attrezzi e badando a non farsi vedere, con un coltello lungo e affilato il contha tagliava i cordoncini interni e nascosti dell’impagliatura che, in breve, si sarebbe sfondata. Un altro metodo consisteva nell’inserire nell’impagliatura pezzi di lardo o una fetta di salame in modo che i gatti, sentendone l’odore, graffiassero la paglia fino a rovinarla.
La fine di una professione
Se negli anni ’20 del secolo XX el contha guadagnava poco, nel decennio successivo, con la miseria che regnava dovunque, le cose peggiorarono ancora: trovare lavoro, e soprattutto gente in grado di retribuirlo, diventava sempre più difficile. Dopo la seconda guerra mondiale ci fu una grossa ripresa e il lavoro veniva pagato discretamente, ma ormai era tardi. Molti artigiani abbandonarono la professione per lavori più stabili in Italia o all’estero. Parecchi seggiolai divennero minatori in Belgio, operai nelle fabbriche, muratori nei cantieri edili. Pian piano, il mestiere cominciò a perdersi.
Sono rimasti in pochi, oggi, i depositari di quell’antica arte. E quei pochi che, ormai solo per soddisfazione personale, riprendono in mano la caora e la feratha, rimangono di stucco nello scoprire che la loro abilità interessa ancora qualcuno. Sono stati fatti dei tentativi per far rivivere l’artigianato del bel tempo antico, però gli esiti concreti si sono mostrati scarsi e deludenti. Qualcuno è dell’idea di lasciar perdere. Una sorta di vergogna per le miserie e i sacrifici di un passato da dimenticare? Probabilmente sì. Ma la memoria storica delle fatiche e delle umiliazioni fa parte della cultura e dell’identità di una società, dell’energia che un popolo ha impiegato per darsi una dignità. E i racconti del passato sono un omaggio a quanti hanno sacrificato la propria esistenza nel tentativo di migliorare le condizioni delle generazioni successive.
Lo scapelament
Il mestiere del contha ebbe inizio nel ‘700. Sui suoi 250 anni di vita non esistono documenti scritti e scarsissime sono le notizie storiche. Fu il glottologo Ugo Pellis che per primo, intorno al 1930, si interessò alla Valle del Mis e alla sua gente. Le attenzioni dello studioso erano state attirate dallo scapelament, lo strano gergo usato dai seggiolai per comunicare tra loro.
Pellis ebbe la fortuna di conoscere Don Mosè Selle, allora parroco di Gosaldo. Nato a Selle, una frazione di Tiser, nel 1870, Don Mosè fu in grado di ricostruire i dialoghi e i racconti dei vecchi seggiolai e risalire alla storia della valle fino al 1700 quando, appunto, nacquero i conthe. Il religioso, che come molti suoi compaesani in gioventù aveva esercitato il mestiere di seggiolaio, sosteneva che i conthe erano nati proprio nella zona di Tiser e che solo in seguito il mestiere si era esteso a tutto il comune di Gosaldo e al basso Agordino.
Nessuno oggi può spiegare con esattezza il perché dello scapelament. Sta di fatto che il gergo si sviluppò e prese forme diverse da paese a paese, al punto che i vari gruppi di seggiolai quasi non si capivano tra loro. La strana parlata, che inizialmente riguardava solo il mestiere ed era dunque puramente tecnica, arrivò pian piano a configurarsi come una vera e propria lingua parallela con la quale si parlava di tutto. Alcuni termini sopravvivono ancora oggi nel dialetto locale. Ecco qualche esempio che riguarda termini di uso comune: mis (acqua), sborth (vino), crucol (pane), scech (formaggio).
Nei due secoli in cui visse il gergo, vi fu una produzione continua di parole nuove la cui origine andava dall’invenzione pura e semplice (chi coniava un termine lo traeva da suoni o immagini della propria esperienza personale) alla dialettizzazione di parole straniere, francesi in particolare.
Lo scopo dello scapelament? Le ipotesi sono diverse. C’è chi pensa che quel gergo furbesco servisse ai seggiolai per non farsi capire nelle contrade lontane quando parlavano tra di loro, di confabulare col gaburo senza svelarsi al saepa, il committente. Qualcuno ritiene che tra i suoi fini ci fosse anche quello di difendere i segreti del mestiere e, di conseguenza, i guadagni.
Lo scapelament rimase in auge per moltissimo tempo finché, ad un certo punto, alcuni seggiolai cominciarono a rigettarne l’uso. Fu quello, forse, il primo segnale del declino della professione. Il linguaggio, si sa, è legato alla dinamica sociale, e ad un certo punto la professione del seggiolaio potrebbe non essere più stata ritenuta bella, onorevole e vantaggiosa di fronte a modelli sociali diversi e provenienti dall’esterno. Non solo: in definitiva potrebbe essere stata proprio la vergogna per un lavoro non più appetibile, la molla che ha contribuito a far scomparire per sempre l’antico gergo… In fondo il fenomeno è assai simile alle ben note situazioni in cui i genitori, pur di non utilizzare la lingua della campagna, della povertà, di un mondo senza luce elettrica, acqua calda e televisione, preferiscono comunicare coi figli in una lingua importante, che puntualmente storpiano perché non è la loro.
A seconda delle stagioni
Si narra che i conthe, i seggiolai, nelle loro campagne invernali si siano spinti fino in Abruzzo e che molti siano giunti addirittura in Francia. Gli artigiani del Canale del Mis partivano ogni anno verso la fine d’agosto portando con sé pochi stracci e gli attrezzi indispensabili.
Sulla data di partenza esistono due proverbi. Il primo recita: «Da San Roch le nosèle le va de scroch e par i careghète l’è ora de far fagòt» (a San Rocco – 16 agosto – le nocciole si possono facilmente sgusciare con le dita e per i seggiolai è il momento di preparare i bagagli). E il secondo, «San Bartolamio l’è el sant dei fagòt», sta a significare che il giorno di San Bartolomeo, il 24 agosto, per i seggiolai è ora di far fagotto. Gli ultimi giorni prima di partire erano dedicati alla messa a punto dell’attrezzatura, la feratha. Gli strumenti dei seggiolai erano veramente ridotti all’essenziale per poter essere trasportati sulla crath (bastino in legno) durante gli spostamenti a piedi. E, mentre le parti in legno degli utensili venivano costruite dagli stessi conthe, le parti in ferro erano commissionate ai fabbri locali. Un particolare curioso è che, per mettere assieme le sedie, non venivano utilizzati chiodi: i vari elementi in legno dovevano rimanere uniti solo con l’incastro.
Il rientro a casa dei seggiolai aveva luogo a primavera, in tempo per la raccolta del fieno. Non rientravano invece a primavera i conthe che si recavano in posti lontani, perché là la campagna poteva durare anche quattro o cinque anni. E si sa che buona parte dei seggiolai preferiva la Francia all’Italia, perché Oltralpe c’erano maggiori possibilità di guadagno e più considerazione per il loro lavoro.
Note
In alcune parole presenti nell’articolo (contha, crath, feratha, ecc.) compare la coppia di lettere “th”: quest’ultimo è stato usato per rendere una pronuncia che in italiano non esiste ed è simile al “th” sordo dell’inglese.
Per la gentilezza e il tempo dedicato, gli autori ringraziano Lidia Giovanna Zanin e il prof. Giampietro Zanin di Gosaldo, Daniele Masoch di Nuova California, “Meri” e Beppino Masoch di Pattine.