Il grande libro del ghiaccio

Ghiaccio delle nostre brame: era un incubo ora è oggetto di attrazione fisica ed estetica: Enrico Camanni lo racconta in un libro, tra storia, letteratura, arte, scienza ed ecologia.

Recensione di Carlo Grande a
Il grande libro del ghiaccio, di Enrico Camanni
(pubblicata su La Stampa del 22 giugno 2020)

Incanto e caducità azzurro-smeraldo, note di cristallo che riverberano i suoni (a differenza della neve, che li inghiotte), dimensioni gigantesche o microscopiche: il mondo del ghiaccio ha riflessi e consistenze storiche, ecologiche, letterarie, artistiche. Enrico Camanni, in Il grande libro del ghiaccio (Laterza, pp. 384, € 22), lo racconta muovendosi tra contemporaneità e passato: «Ondate di freddo, bufere di neve e terreno gelato hanno deviato le rotte delle invasioni e condizionato le sorti delle guerre, fin dai tempi di Alessandro Magno, tre secoli prima di Cristo, quando storia e mito narrano che una nevicata frenò la marcia del capo macedone verso l’India. Nell’inverno del 1572 il gran gelo aiutò gli archibugieri olandesi a beffare con i pattini da ghiaccio l’esercito spagnolo. A metà maggio del 1800 la neve e il ghiaccio ostacolarono seriamente la discesa di Napoleone in Italia attraverso il Colle del Gran San Bernardo, costringendo il generale Marmont a impiegare slitte e tronchi d’albero per trasportare i pezzi dei cannoni, e l’armata a marciare di notte per evitare le valanghe».

Nelle due guerre mondiali
L’effetto del libro è incantato come la prigione di Merlino, vario come le forme del ghiaccio e le configurazioni della neve, inquietante come i ghiacciai che svaniscono a causa dell’effetto serra. Neve, ghiaccio e basse temperature hanno condizionato le rotte dei commerci navali dall’estremo Nord al più selvaggio Sud del pianeta, durante la Prima guerra mondiale hanno trasformato il fronte alpino in una frontiera himalayana. È «la Guerra Bianca», Gebirgskrieg in tedesco, che fra seracchi, tormente di neve e valanghe costringe gli alpini a fronteggiare, prima ancora che gli austro-ungarici e le loro armi, i rigori della montagna. Così sarà nella Seconda guerra mondiale: la ritirata di Russia è fatta di tormente, fame e gelo siberiano, annienta la resistenza dei giovani militari allo sbaraglio raccontati da Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern.

Il ghiaccio è una delle materie più effimere e volubili al mondo, è forziere possente, prezioso e naturale, il più affidabile frigorifero del pianeta, insostituibile archivio dell’evoluzione terrestre. Contiene acqua, luce e storia, come nel caso di Ötzi, «il piccolo montanaro», scrive Camanni, «scomparso sopra i tremila metri, simile a noi, con il suo berretto di pelliccia, i reumatismi, il fumo nero nei polmoni e i denti consumati dallo stress».

Il ghiaccio conserva e spettacolarizza, viene da aggiungere, le astronavi e i mostri alieni di John Carpenter (La cosa), gli straordinari personaggi di Werner Herzog nella base antartica di McMurdo (Encounters at the end of the World), le fortunate serie tv The Terror, con Jared Harris, star di Chernobyl, e Fortitude, ambientata in una cittadina artica norvegese.

Il ghiaccio ha voce angelica, dice l’artista americano Tim Linhart, il ghiaccio ha voce tragica e lo sanno gli esploratori Amundsen, Shackleton e Scott, i passeggeri del Titanic e gli artisti dell’infatuazione romantica: Mary Shelley, madre del mostro Frankenstein che fugge tra i ghiacci, e Caspar David Friedrich con Il mare di ghiaccio. E tanti altri, da Alexandre Dumas a Charles Dickens, da Jack London a Mario Rigoni Stern e Dino Buzzati.

Il ghiaccio è vario e ambiguo, è incanto e caducità, è acqua sotto gli zero gradi che genera solidi dalle infinite forme. È il «Hielo Patagonico» di padre Alberto De Agostini, ed è il sogno contronatura di chi con i cannoni sparaneve vuol sciare a ogni costo e scambia le montagne per piani inclinati e fabbriche di adrenalina.

Caspar David Friedrich, Il mare di ghiaccio (o Il naufragio della speranza, 1823-1824), conservato alla Hamburger Kunsthalle di Amburgo.

Ammirazione e distruzione
I ghiacciai sono risorsa ecologica e turistica che i nipoti forse vedranno a malapena in cartolina. Nella schizofrenica corsa al cosiddetto progresso dell’Homo industrialis, il ghiaccio fonde a tremila metri con la rapidità di un sorbetto e accoglie la macchia scarlatta di inquinamento che in queste settimane dalla Russia si dirige verso l’Artico.

«Sono circa due secoli che abbiamo convertito la repulsione per il ghiaccio in attrazione fisica ed estetica» commenta Camanni. «Da due secoli contempliamo la bellezza dei ghiacciai e ne celebriamo la purezza, li dipingiamo, li narriamo, li sogniamo, li scaliamo, li sciamo, li decantiamo e li mortifichiamo con i gas serra. L’ammirazione e la distruzione vanno di pari passo, in un evidente cortocircuito sociale, economico e culturale, perché l’uomo romantico che ama e rimpiange i ghiacciai è lo stesso uomo industriale che lo umilia». Lo stesso che osserva gli orsi polari alla deriva sulle zattere di ghiaccio, senza immaginare che con loro siamo anche noi, Aguirre circondati da scimmie e inghiottiti dalle rapide.

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