di Paolo Crosa Lenz
(pubblicato su Lepontica 34, settembre 2023)
Furono quattro i “mestieri” degli uomini di montagna che permisero loro di sopravvivere nei secoli in un ambiente povero e severo: l’alpigiano (contadino – allevatore), il boscaiolo, il minatore, il someggiatore (il trasporto di merci a dorso d’animale attraverso i valichi alpini, a volte sconfinando con il contrabbando a “spalle”). Vi parlerò in questi mesi dei boscaioli.
Prima dell’introduzione della motosega (ultimi vent’anni del Novecento) tutto veniva tagliato a sega e scure. Poi la legna doveva essere portata a valle. All’inizio del Novecento arrivarono i fili a sbalzo (le corde nei nostri dialetti).
C’era un linguaggio segreto per “far parlare” i fili a sbalzo (il motore era la gravità). Battendo con un legno sul filo, le onde di risonanza, registrate appoggiando una mano sul filo, trasmettevano il messaggio dalla stazione di partenza a quella di arrivo.
Un colpo “ferma”, due colpi “riprendi”, tre colpi “aspetta, c’è un problema” e così via. L’ultimo carico era segnalato con un mazzetto di rami verdi: la giornata era finita.
Gli uomini che lavoravano ai turni in stabilimento, prima o dopo il lavoro, “lavoravano” portando con le caule (cadole) corde (le cubiette) e ronzelle (le rotelle di ferro che scorrevano sul filo e a cui si appendevano i carichi di legna o di fieno).
Quelle in ferro venivano usate per le pendenze lievi per il loro maggiore scorrimento, ma dovevano essere riportate a monte. Riportare alle stazioni di monte cubiette e ronzelle era spesso lavoro da donne. Carichi pesanti su sentieri impervi per guadagnare “il soldo”.
Per le pendenze maggiori si usavano i rampit, un tronchetto con un moncone di ramo a cui appendere la carica. Era materiale a perdere che non doveva essere riportato a monte.
Noi bambini all’alpe, facevamo colazione osservando le cariche scendere e i boscaioli ci lasciavano “rubare” i rampit per giocare. Poi le mamme li bruciavano.
Spiegazioni molto interessanti, grazie.