Piero Fornelli

Piero Fornelli
di Lino Fornelli

Era uno di quei giovani i che alla fine della seconda guerra mondiale, scoperta la montagna, ma senza mezzi, senza una scuola, senza conoscenze, cercavano di praticare l’alpinismo con la passione e l’entusiasmo dell’età. L’amico e scrittore di montagna Giuseppe Garimoldi scriverà in seguito: “… Un esiguo gruppetto cospirativo: con Piero e suo fratello, altri quattro, forse cinque, non di più, tutti poveri di anni, ma ricchi di quell’orgoglio giovanile che impone una scontrosa volontà di fare da soli proprio quando la ragione vorrebbe il contrario. Piero è il più giovane del gruppo ed anche il più agguerrito, quello che spicca per qualità e sin dall’inizio è evidente che il suo modo di muoversi sulla roccia è animato da un’eleganza istintiva che permette un’efficace soluzione dei passaggi più scabrosi“.

Era nato a Viù, in Val di Lanzo, il 1° settembre 1931, il secondo di due figli, il più vecchio ero io, cui se ne aggiungeranno altri due. Nel 1934 la famiglia si trasferisce a Torino e qui, dopo peripezie varie, papà entrò nella grande fabbrica come operaio. Infine, venne la guerra a complicare le cose, furono anni di povertà.

Successivamente, verso la fine della guerra, avvenne la nostra scoperta della montagna e, paradossalmente, è stato proprio il conflitto a favorire quella scoperta. Si era verso la primavera del 1943, le cose sui vari fronti andavano sempre peggio e a Torino i bombardamenti aerei si andavano intensificando. La Fiat pensò di evacuare i bambini dei suoi operai a Marina di Massa, nella grande torre bianca, allora proprio a ridosso della spiaggia.

Nell’estate dello stesso anno, gli Alleati sbarcarono in Sicilia e cominciarono la risalita dello stivale. Per sicurezza, la Fiat decise di trasferire i bambini dalla colonia di Marina di Massa a quella di Sauze d’Oulx, in Val di Susa. L’arrivo a Sauze, mi pare fosse l’8 di maggio, fu per noi un piccolo shock. A differenza dell’ambiente marino, morbido e ovattato, dove tutto veniva svolto senza entusiasmo e senza troppo impegno, lì i miei nuovi “camerati balilla” erano equipaggiati con una divisa di tipo quasi miliare, ma soprattutto calzavano scarponi chiodati, che producevano un grande effetto acustico nei movimenti dei vari esercizi: impressione di efficienza e forza. Il mattino seguente, l’impatto fu ancora maggiore: nella notte il maltempo aveva portato un po’ di neve fresca.

Nei giorni successivi si fecero delle passeggiate nelle pinete circostanti, stavamo scoprendo la natura alpina! Ma il bello doveva ancora venire: qualche giorno dopo, un gruppetto di tre o quattro delle ragazze che ci assistevano, un bel mattino sono partite, equipaggiate di tutto punto, per una traversata scialpinistica nella zona di Etiache-Galambra, con una guida. Noi le vedemmo partire senza capire un granché. Tornarono dopo qualche giorno, abbronzatissime ed entusiaste per la riuscita dell’impresa. Piero ed io siamo rimasti quasi fulminati nel vedere la felicità di quelle ragazze: era la scoperta di un mondo di cui ignoravamo l’esistenza, quasi come se vi avessimo partecipato anche noi. Era la scoperta di un modo diverso di interpretare la vita. Non sapevamo niente di montagna, di scialpinismo, di alpinismo. Ma da quell’episodio la montagna ci entrerà nel sangue, definitivamente. Sul Bollettino GEAT 2008, Garimoldi scriverà: “Piero è un ragazzino quando il suo percorso incrocia la montagna e, nel maggio 1946, dopo una gita sociale ai Picchi del Pagliaio, scrive sul suo quaderno di appunti: ‘per la prima volta arrampico in cordata e mi diverto moltissimo, malgrado la pioggia e la neve'”.

Non avevamo nessuna scuola, ma provammo ad affrontare comunque le prime arrampicatine: Lunelle di Traves, Picchi del Pagliaio, ecc… La nostra corda era costituita da un moncone di canapa di Manila lunga 10 o 12 metri e del diametro di 12 millimetri, raccattata non so più dove, e da un altro moncone di canapa normale del diametro di 8 millimetri e lunga una quindicina di metri. La canapa di Manila aveva il pregio di non irrigidirsi se bagnata, veniva usata di preferenza su ghiacciaio, ma aveva una resistenza inferiore alla canapa nostrana. Comunque noi abbiamo preso la manila semplice e la canapa doppia e le abbiamo unite con un bel nodo monumentale (allora non usavamo chiodi)!

Si era verso la fine degli anni ’40, la cerchia delle amicizie si allargava, grazie anche all’iscrizione al CAI, con altri ragazzi che amavano l’arrampicata come noi. Ricordo Giuseppe Marmori, Giorgio Viano, ma soprattutto Giuseppe Garimoldi, futuro scrittore ed esperto di fotografia di montagna, oltre che di pittura, che conoscevamo già da prima della guerra, ed altri ancora, coi quali formavamo saltuariamente cordata cercando di aumentare gradatamente le difficoltà.

Ricordo anche che ad agosto del 1946 si era con la famiglia in ferie a Viù. Piero ed io siamo saliti ad Usseglio con la corriera, poi di qui al rifugio Cibrario al Peraciaval 2616 m. Il mattino dopo il tempo era bello, ma nella notte la tormenta aveva spruzzato un po’ di neve fresca fin più in basso del rifugio ed aveva abbassato parecchio la temperatura, mentre il vento continuava a soffiare con una certa violenza. Al rifugio (allora incustodito, bisognava portarsi tutto) abbiamo incontrato due alpinisti non più giovani, che avevano salito la Croce Rossa il giorno del nostro arrivo: ci diedero alcuni consigli poi, indossato tutto quello che avevamo, siamo partiti per la Croce Rossa, la più alta vetta della val di Viù, 3566 m. Era la quota più alta che avessimo mai raggiunto prima. Fino al Colle della Valletta 3207 m il percorso sale con tracce di sentiero e qualche placca di neve, poi si segue le cresta facile di roccette sino ad un breve salto di roccia inclinato, forse un centinaio di metri sotto la vetta. Il vento aveva spazzato la neve dalla roccia che si presentava così pulita e asciutta. Quel passaggio non aveva affatto l’aspetto arcigno, ma ci trovavamo in alta montagna, non avevamo mai superato difficoltà a quella quota, col freddo e il vento che non dava tregua, abbiamo ripassato mentalmente quel poco che avevamo letto sino allora sull’alpinismo: in roccia bisogna sempre essere sicuri di poter fare in discesa quello che si fa in salita! Ho iniziato a salire con circospezione, lentamente, quando sono stato a poco più di metà altezza del passaggio ho invertito la marcia e ho iniziato a scendere; pochi metri poi, visto che non vi erano problemi, ho ripreso la salita e infine, con percorso facile, siamo arrivati in vetta. È stato quello un momento magico: l’arrivo in vetta con una luce abbagliante, col sole alto, un cielo di un azzurro così intenso come non avevamo mai visto, e in lontananza tra un mare di vette innevate l’inconfondibile sagoma del Monte Bianco. Avevamo entrambi gli occhi lucidi, non solo per il vento gelido.

Negli anni successivi Piero, gradino dopo gradino, salirà parecchio nella scala che porta in alto. Nel 1949 compie la salita del Dente del Gigante da nord, una salita non lunga, con difficoltà tecniche non molto elevate, ma molto seria per la difficoltà di assicurazione e l’ambiente veramente severo.

Nella seconda metà degli anni ’40 si comincia a percorrere le più classiche salite nei dintorni di Torino: i Denti d’Ambin, la Nord dell’Orsiera, l’Uja di Mondrone; oltre alle classiche in palestra: Denti di Cumiana, Rocca Sella, Sbarua, Monte Plu, ecc.

Mario De Albertis. uno di noi, è stato lui il primo a rompere con il timore del passato compiendo nel 1948 la prima ripetizione della via Gervasutti di destra sulla Parete dei Militi in Valle Stretta. La sua cordata impiegò una decina di ore, mentre la prima ascensione ne aveva richieste tre o quattro. Questo provocherà un rimbrotto da parte di Michele Rivero su Scandere 1949, che però concluderà che: “… la presunzione giovanile è peccato veniale”. Ma provocherà anche una benefica reazione nel nostro ambiente: “Se lo ha fatto lui, allora si può fare!”. Ecco, è stato proprio questo episodio che ha dato l’avvio a quella che, con un’espressione piuttosto enfatica, potremmo chiamare la “rinascita” dell’alpinismo torinese. Si cominciarono ad affrontare itinerari via via più impegnativi, fino all’estate del 1951.

E’ stato in quell’estate che Piero, con l’amico Gianni Mauro, decide di rompere gli indugi: dopo aver compiuto, tra l’altro, la prima ripetizione della via Castiglioni-Bramani sullo spigolo sud-est della Torre Castello in Val Maira, partono il 28 giugno da Torino con la moto (125 cc) di Gianni alla volta di Courmayeur; salgono in funivia al rifugio Torino a pernottare. Il mattino dopo, di buon’ora, si recano alla base del pilastro est del Mont Blanc du Tacul, quello su cui perse la vita Giusto Gervasutti cinque anni prima, ed attaccano con decisione. La progressione è dura, difficile, anche se non estrema, la roccia è eccezionale e solida (allora si arrampicava in scarponi, con corde di canapa, chiodi e moschettoni in acciaio, i cellulari non erano ancora stati inventati). Sono allenati e preparati, procedono bene, ma sono costretti al bivacco. Il mattino seguente continuano la salita sino in vetta. Sono emozionati. Hanno realizzato un’impresa importante e bella. Ecco come la definisce la guida Vallot, vol. I-1973: “… L’une des plus belles escalades libres de la Chaîne du Mont Blanc… maintenant una grande classique“.

Quell’avventura provocherà una profonda emozione nell’ambiente alpinistico, non solo a Torino, e quella salita è stata sicuramente la più bella della carriera alpinistica di Piero, ma non la più grande. Questa arriverà due anni più tardi, sulla cresta sud dell’Aiguille Noire, ma voglio lasciarla raccontare da lui stesso, scritta a caldo dopo l’avventura:

Ottantasette ore sulla cresta sud dell’Aiguille Noire, 20-21-22-23 agosto 1953 con il mag. Oreste Gastone, Firmino Palozzi, Carlo e Franco Bo, Giovanni Mauro e Anna Maria Crocetti.

Avevamo raggiunto la sommità del classico passaggio “mezza luna”, allorché ci accorgemmo che non avremmo fatto in tempo ad arrivare alla sommità della quarta torre; a malincuore ci sistemammo su di una cengia sul versante del Frêney. Su quella cengia furono fatti tutti i preparativi per passare il più comodamente possibile la notte e, dopo un buon lavoro, potemmo sistemarci, chi più chi meno bene. Preparammo una bevanda calda, poi mangiammo qualcosa: così passarono allegramente le prime ore del bivacco che doveva poi durare trentasei ore. È forse una delle cose più belle per un alpinista fare un bivacco in alta montagna: si ha tutto il tempo di pensare a ciò che si vuole e, strano a dirsi, in quel momenti si pensano le cose più belle (a meno che il tempo sia brutto). Come vorrei essere capace di descrivere la bellezza di quei momenti! Vorrei poter dire cosa si prova a trovarsi lassù in quelle notti stupende, quasi irreali e credo non ci siano attimi più belli, più commoventi di quelli.

Un rumore assordante mi sveglia bruscamente: è il vento che urla in modo spaventoso. Non voglio credere ai miei occhi; spero ancora di sognare, ma purtroppo è la realtà. La luna non c’è più e un gran nuvolone ha già coperto completamente il Monte Bianco. Dal Colle della Seigne avanza con una rapidità impressionante un vero mare di nubi che col suo colore nero cupo farebbe paura anche a chi si trovasse su una strada di fondovalle. Il momento non è dei più allegri, ma purtroppo non c’è niente da fare. Guardo l’orologio, sono appena passate le 24. Mi chiudo nel sacco da bivacco cercando di ripararmi il più possibile dal vento che, violentissimo, arriva da ovest investendoci in pieno sulla nostra cengia. Lentamente passano le ore e dormire è impossibile con quel rumore infernale.

Alfine questa interminabile notte volge al termine e un tenue chiarore segna l’arrivo del nuovo giorno. Finalmente l’alba. Cerchiamo di mantenerci allegri con battute umoristiche e cantando tutto il nostro repertorio di canzoni, ma alla fine siamo stanchi anche di cantare e ritorna la calma: la calma si intende tra di noi e non del tempo! A proposito del tempo sembra ben deciso a mantenersi brutto, il che comincia a preoccuparci. Chiuso nel mio sacco (ormai la neve entra da tutte le parti) penso a che cosa sarà se il tempo non cambierà. Ritornare adesso è assolutamente impossibile con questo vento; anzi, bisogna tenersi bene alle corde di sicurezza per non essere scaraventati via come fuscelli. Speriamo che nel pomeriggio si calmi un po’, così potremmo arrivare almeno sulla quarta torre e trovare un posto migliore per passare la notte. Le ore passano e la tormenta sembra infuriare sempre più. Guardo l’orologio. Sono le 15 e penso che a quest’ora potremmo essere già sulla vetta, invece siamo qui chiusi in questa trappola. Riuscissi almeno a dormire, il tempo passerebbe più in fretta! Arriva così la seconda sera senza che la tormenta accenni a diminuire, anzi aumenta ancora. Cominciano a venirmi in mente le terribili avventure alpinistiche toccate a scalatori famosi: mi rivedo l’articolo di Welzenbach il quale fu costretto a passare ben cinque notti sulla parete nord dei Grands Charmoz. Rabbrividisco al solo pensiero di dover attendere anche noi altrettanti giorni. Mi metto a fare delle ipotesi addirittura assurde, ma poi concludo dicendo: “Non dureranno tutte cinque giorni le tormente!”. Penso a Buhl sull’Eiger, a Lambert sul Diable e a tanti altri ancora e così tra un pensiero e l’altro arriva anche la seconda notte. Bisognerebbe soddisfare lo stomaco che da tutto il giorno aspetta invano, ma d’altronde bisogna pur regolare anche i viveri perché sono molto scarsi: qualche biscotto, un pezzo di cioccolato e poche zollette di zucchero sembrano per noi una elegantissima cena. Terminato il pasto, ci mettiamo nuovamente a cantare cercando di accumulare un po’ di allegria in modo che ci aiuti a passare la seconda notte perché, date le condizioni atmosferiche, si presume che sarà tutt’altro che divertente.

Lente, terribilmente lente passano le ore. Descriverle? Non è nelle mie capacità di scrittore!
Dovrei dire che cominciavo a dubitare di vedere i miei cari? Pensavo che d’altronde non sarebbe poi stata una brutta fine: bastava lasciarsi invadere dalla pigrizia e addormentarsi in un sonno senza risveglio. In quei momenti rividi una ad una le mie più belle scalate. Furono forse quelle immagini meravigliose che mi diedero coraggio e fiducia. Alle prime luci del mattino la tormenta diminuisce per poi cessare completamente verso le sei. Il Monte Bianco non è più avvolto nelle nebbie, ma risplende in un roseo chiarore mattutino. Purtroppo, però, il sole non ha il tempo di arrivare fino a noi perché grossi nuvoloni arrivano ancora dal Colle della Seigne. Alle 7 il tempo è nuovamente pessimo: nebbia e a tratti anche nevischio riprendono a infuriare su di noi. Decidiamo allora sul da farsi: la placca che sta sopra di noi è assolutamente impossibile da superare essendo un lastrone di ghiaccio ricoperto di neve. Tentare di proseguire sarebbe una pazzia: perciò decidiamo unanimemente di ridiscendere e di tentare di risalire la Punta Welzenbach: è questa la sola possibilità di salvezza che ci resta. Dopo aver smontato il bivacco, alle 8 siamo pronti a partire. Le corde sono terribilmente dure, così dure che per slegare i nodi dobbiamo metterle sul fuoco per sciogliere il ghiaccio. Pensavamo con terrore che su di esse avremmo dovuto fare chissà quante corde doppie! Quando dalla cengia mi sposto per preparare la prima corda doppia sopra la “mezza luna” il terrore mi invade. La Punta Welzenbach, che fino ad ora pensavo con grande fiducia di poter risalire, si presenta ai miei occhi come qualcosa di spettrale: la sua parete vista così dall’alto è addirittura repulsiva, ricoperta com’è da una crosta nevosa. Al solo pensare che dovremo tentare a tutti i costi di passare su quel muro mi sento demoralizzato: vorrei dire ai miei compagni che ho paura, paura di non riuscire nel nostro disperato tentativo di evasione, ma mi vergogno della mia stessa paura e non voglio farlo capire.

Eccomi solo, 40 metri più in basso dei miei compagni. Urlo disperatamente per farmi sentire: è forse questo urlare rabbioso che risveglia in me l’istinto di lottare! Come d’incanto, la paura che mi aveva completamente schiacciato sparisce e ritorna in me la fiducia. Ad uno ad uno scendono tutti, mentre già preparo la seconda corda doppia. Discendiamo il secondo tratto e Mauro cerca di ritirare le corde, ma queste non vengono: provano e riprovano lui e Carlo in tutti i modi per circa un’ora, ma inutilmente. Allora Mauro sale fino alla sommità della corda col sistema Prusik, la libera dai nodi che aveva poi ritorna alla base. Le corde non vengono di nuovo, tutto è inutile. È la volta che sale Carlo col solito sistema Prusik. Anche lui ripete il lavoro di Mauro, ma di ritorno alla base deve convincersi che non c’è proprio nulla da fare. Sono quasi tre ore che siamo fermi per queste maledette corde e dobbiamo rassegnarci ad abbandonarle per non perdere altro tempo prezioso. Con altre due corde doppie siamo alla forcella. Tira un vento terribile su questo intaglio e si avvicina il momento più brutto di tutta la ritirata. Recupero tutto il materiale rimasto: per fortuna abbiamo con noi una staffa a scaletta che avevamo portato dicendo ‘non si sa mai’.

Dopo essermi unto ben bene le mani di grasso anticongelante, inizio la scalata cercando di non pensare a che cosa sarà più sopra. Salgo prima sulla destra della parete, in un diedro che termina dopo pochi metri. Questo è ottimamente appigliato, ma tremendamente scivoloso e devo ripulire ogni appiglio dalla neve per trovarvi sotto uno spesso strato di ghiaccio. Al termine del diedro. attraverso a sinistra per raggiungere la spaccatura che sale fino alla sommità della torre. Eseguo questa traversata tutta su chiodi che danno però una sicurezza solo morale. Quando raggiungo la fessura, trovo un sasso incastrato e posso fermarmi a studiare bene il passaggio finale: questo, che in buone condizioni non presenterebbe difficoltà speciali, è ora terribilmente rischioso; Indubbiamente è tra i più pericolosi che abbia incontrato sino ad ora nella mia breve carriera alpinistica. Salgo qualche centimetro nella spaccatura leggermente strapiombante, ma scivolo in modo incredibile e ritorno sul masso incastrato. Guardo nuovamente il passaggio e debbo convincermi che di chiodi non se ne possono proprio mettere, forse potrei mettere dei cunei di legno, ma non ne sono provvisto. Perciò mi convinco a ritentare il passaggio. Con il piede destro nella fessura piena di ghiaccio e neve e con il sinistro che annaspa inutilmente sulla placca esterna, mi innalzo lentamente centimetro per centimetro, finché la mano destra trova un sasso appena al di sopra del rigonfiamento. Provo a tirare: tiene! Forse è solo il ghiaccio che lo tiene fermo, ma d’altronde è l’unica mia speranza per poter superare l’ostacolo. Penso che potrebbe essermi fatale ciò che sto per fare, ma non voglio più ritornare. So che se supererò questo passo, la via della salvezza sarò aperta. Do ancora uno sguardo alla forcella dove sono i miei compagni, quasi per implorare il loro perdono se dovessi sbagliare; poi, con uno scatto rabbioso, mi affido al destino. È un attimo: in quell’istante ho visto sotto di me sprofondarsi in un abisso senza fine l’orrido colatoio percorso da velocissime folate di nebbia, che gli conferivano un aspetto infernale; per fortuna è stato un attimo solo. Subito i piedi hanno trovato un’asperità su cui posarsi e gli occhi non hanno visto l’abisso ripugnante, ma un canalino nevoso. Il passaggio è vinto, ancora pochi passi nella neve e raggiungo il masso della corda doppia dove mi posso assicurare. Ben sapendo che ci saranno ancora da superare altre enormi difficoltà, mi sento felice, avendo ormai piena fiducia nella nostra salvezza. Ad uno ad uno i miei compagni superano il passaggio e, alle 17, siamo tutti riuniti in punta alla Welzenbach. Subito iniziamo la discesa e verso sera arriviamo al termine della grande traversata. Ancora una corda doppia, che gli ultimi fanno nel buio e ci fermiamo su di un lastrone inclinato sul versante Fauteuil. Mentre ci prepariamo per il terzo bivacco, la neve ricomincia a cadere lenta e copiosa: sembra di essere in pieno inverno, che strano effetto! È così calmo l’ambiente che quasi mi dà un senso di piacere. Vedere la neve cadere, così lenta, mi ricorda una di quelle tante sere invernali passate nei rifugi in allegra compagnia, allora quasi sempre eravamo contenti di veder nevicare. Ora però è ben diverso: non siamo in un caldo rifugio ad aspettare tra un canto e l’altro che il sonno ci vinca, ma su di un inclinato lastrone bagnati fino alle ossa. Sistematici più o meno bene, cerco in fondo al sacco se c’è ancora qualcosa da mettere sotto i denti: tra la neve e il ghiaccio trovo un limone, due prugne e due caramelle.

Questi sono i viveri che ci divideremo fraternamente Franco ed io. Terminata la ‘succulenta’ cena, ci infiliamo in quelle croste ghiacciate che dovrebbero chiamarsi sacchi da bivacco. Ha così inizio la terza notte che sarà per tutti noi la più terribile, sia per la fame che per il freddo e la stanchezza.

Ben presto gli abiti che sono completamente bagnati diventano anch’essi gelati ed ha così inizio la danza dei denti. Una notte terribile. Spero che nella mia carriera alpinistica non abbia più occasione di passarne un’altra simile. Io e Franco, accovacciati uno contro l’altro, abbiamo atteso l’alba come il più bel giorno della nostra vita. Le corde con le quali eravamo assicurati ci hanno dato dei dolori acutissimi per tutta la notte. Al mattino, quando Franco mi chiamò per dirmi che il cielo era sereno, non ho quasi più la forza di muovermi talmente sono irrigidito: al pensiero che tra un’ora ci sarà il sole trovo la forza di reagire. Il sole. Sembra incredibile! Da tre giorni non vediamo che neve e nebbia e oggi invece ci sarà il sole. Dopo circa un’ora, intuisco dalla luce che il tanto sospirato sole deve averci raggiunti e la conferma me la dà Franco con un grido di gioia. Vorrei uscire, ma sono pigro, non ho voglia di muovermi: però dopo qualche minuto mi decido. Lo spettacolo che si presenta ai miei occhi è addirittura fiabesco: almeno trenta centimetri di neve caduta nella notte hanno coperto ogni asperità fin sotto la capanna Borelli. Dal lago del Miage allo Chêtif è tutto bianco, spettacolo in verità poco incoraggiante, se si pensa alla nostra posizione. Bisognerebbe far scaldare qualcosa, anche solo far sciogliere della neve e bere così un po’ di acqua calda. Ma non avendo più né meta né fiammiferi non ci resta altro che rassegnarci. Alle otto siamo pronti a partire, una prima corda doppia sul Fauteuil ci porta su di una cengia poi una traversata alla Dülfer ci permette di girare un torrione e infine con una corda doppia ci portiamo all’intaglio della Torre Bifida. La sete e la fame si fanno ormai sentire seriamente: non avendo nulla di che soddisfare i nostri desideri è ormai per noi quasi una tortura la discesa. A poco a poco i ghiaioni del Fauteuil si avvicinano, ormai alla base della cresta individuiamo degli amici che ci sono venuti incontro con delle provviste. Sapendo che alla base ci sono viveri e bevande, il nostro morale va alle stelle. Nuovo coraggio ed energia che ci permettono di percorrere abbastanza di buon umore l’ultimo tratto. Quando arrivo all’ultima corda doppia, la ventunesima per la cronaca, sono quasi sfinito. Quella ultima discesa è stata lunghissima: 45 metri, e ce l’hanno preparata due alpinisti svizzeri venutici incontro in questo tratto. Scivolo per ultimo lungo la corda che brucia tremendamente (è un piccolo cordino di nylon) e quando arrivo in fondo mi trovo di fronte ad uno degli svizzeri che gentilmente e premurosamente mi fa capire che vuole recuperare lui le corde. Al termine del suo lavoro mi chiede: ‘Tu es fatigué?’ La mia risposta è un gesto quasi incomprensibile che approva in pieno la sua domanda. Scendo pian piano l’ultimo gradone e quando passo davanti alle lapidi degli alpinisti scomparsi, mi fermo un attimo in contemplazione. Su queste lapidi è inciso anche questo nome: Angelo Lingua. Leggendolo, mi sento invadere da un’angoscia terribile. Me lo rivedo davanti con quel suo sorriso quasi infantile mentre mi parlava di ascensioni compiute o da compiere, mi son visto la sua figura durante questi quattro giorni di lotta, a Lui ho chiesto aiuto ed Egli me lo ha dato. Qui, su queste nude rocce, ha terminato la sua carriera breve, ma splendida. Barcollando e inciampando ad ogni asperità, mi avvicino lentamente alla tanto sospirata capanna.

Ci voltiamo ancora una volta per osservare il monte che, avvolto nella luce del tramonto, pare deriderci beffardamente, quasi volesse dire: ‘Ancora una volta ho vinto’. Questa volta credo si sbagli: oserei piuttosto dire che abbiamo vinto noi, essendo riusciti a fuggire da quella trappola mortale”.

Questo è quanto scritto da Piero dopo quell’avventura. Pur non essendo uno scrittore, ha saputo descrivere magnificamente la drammaticità di quei momenti. Qualche tempo dopo, al matrimonio di Piero con Giuliana, il Maggiore degli Alpini Oreste Gastone, che faceva parte di quel gruppo, commentando l’ansia per il superamento della Punta Welzenbach, mai tentata prima, e in quelle condizioni, disse davanti al gruppo dei presenti:… “Tu ci riuscisti e ci portasti in salvo!”. Mai complimento fu così sincero!

Giuseppe Garimoldi scriverà sul Bollettino GEAT 2008: “A tutti gli effetti, Piero fu all’inizio del decennio Cinquanta la figura di punta del giovane alpinismo torinese“. E stato anche accademico del CAI e istruttore della Scuola Gervasutti, nonché membro del Gruppo Alta Montagna. Ha partecipato a operazioni di soccorso e ha diretto parecchie gite sodali in alta montagna.

Le salite che effettuava erano sempre di livello elevato, ma soprattutto belle, lui dava più valore ad un’ascensione “bella e difficile” piuttosto che ad un’altra “difficile, ma meno bella”. Voglio qui ricordarne alcune: oltre al già citato Tacul, la cresta sud dell’Aiguille Noire senza bivacco, cosa molto rara a quel tempo: il Mont Maudit, cresta sud-est; Aiguilles du Diable, traversata: Grivola, parete nord-est, via Crétier; Breithorn Occidentale, Triftjigrat; Monviso, parete nord; Rocce Nere (gruppo Monte Rosa), spigolo sud-est, via Carrel; Aiguille Croux, via Ottoz; Aiguille de la Brenva, via Donvito; Castore, cresta sud; Rocca Castello, spigolo sud, 1a ascensione; Corno Stella, parete nord, via Rabbi; Becca di Moncorvé, parete ovest-sud-ovest, 3a ascensione; Rocca Provenzale, parete est, 1a ascensione; Punte Garelli e Armusso (Marguareis), pareti nord, 1a ascensione; Punta De Cessole, spigolo nord-ovest, 1a ascensione; Canalone Lourousa, invernale; Parete dei Militi (Valle Stretta), Spigolo Grigio, 1a ascensione; Monte Plu, Sperone Grigio, 1a ascensione.

In Dolomiti: Punta Frida, via Comici; Piccolissima di Lavaredo, via Preuss; Campanil Basso, via Fehrmann; Cima della Madonna, Spigolo del Velo. Questa l’attività principale, ma Piero ha partecipato anche a due spedizioni nelle Ande: la prima, nel 1958, con la salita del Nevado Ranrapalca di oltre 6000 metri ed altre tre dme verini di oltre 5000 metri, organizzata dal CAAI Occidentale: la seconda, organizzata daOe sezione di Torino, in occasione di ‘Italia 61″. al Nevado Pucahirca di oltre 6000 metri ed altre vette minori della zona. Negli anni, finché il “Male” non lo fermerà, Piero continuerà nell’attività alpinistica di medio livello, per lo più con la moglie Giuliana, nelle Alpi occidentali, ma con frequenti puntate nelle Dolomiti.

Voglio ricordare che Piero da piccolo ha avuto qualche incidente: aveva pochi anni quando cadde da una scala nella casa dei nonni materni alla Mondrezza. vicino a Viù, con frattura di una gamba. Pochi anni dopo si era alla sede della mutua Fiat, lui seduto su di un basso gradino, le gambe distese, mentre altri ragazzini giocano su una di quelle pesanti scale/porta che si allungavano manualmente per raggiungere i piani alti delle case. Ad un certo punto del gioco la scala cade pesantemente sulla gamba di Piero: frattura esposta! Mamma diceva spesso: “Piero è sfortunato”. Questo mi è tornato in mente molte volte quando il Male lo aveva reso quasi immobile su di una sedia: solo la sfortuna lo aveva fermato.

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2 Comments

  1. says: Ugo Manera

    Bravo Lino. Tuo fratello è stato un personaggio che il mondo dell’alpinismo non deve dimenticare.
    Complimenti!

  2. Tanti anni fa, fuggii da Roma in cerca di quel respiro che solo le montagne sanno regalare. Fuggii verso la Valgrisanche. Alla stazione di Aosta mi vidi con Barrell, il gestore del rifugio Bezzi per salire insieme. Era primavera. Splendide giornate piene di sole. Al rifugio c’erano pochi clienti oltre a me. Un paio di francesi, un valdostano, Remo Spataro, uno svizzero, Alcide Albieri, e quelli che ai miei occhi di ragazzo sembravano due vecchietti con un amico di poco più giovane: Piero Fornelli, Luciano Ratto e Ennio Cristiano. Cenai al tavolo dei tre di Torino. Non conoscevo nulla di loro, chi fossero lo scoprii solo al ritorno a casa. Ricordo la cena con loro, piena di ricordi e racconti. Vicende in cui non c’era mai un “io ho fatto questo”, ma il pudore che riempie le narrazioni piene di vera passione. Il giorno seguente salimmo insieme alla Truc Blanc. Si fece traccia a turno ed ero felice di condividere neve e sci con loro. Era il semplice godere di belle persone. In vetta ci regalammo un sorriso, una foto e iniziammo a scendere verso il rifugio. L’ultimo tratto verso il rifugio lo feci da solo: loro avevano tagliato per tornare a valle e a Torino. Con Luciano Ratto ci scrivemmo qualche lettera (allora non c’erano le email) e rimanemmo in contatto per diverso tempo. Nelle sue lettere e in qualche rara telefonata mi raccontò anche del proseguo della vita dei suoi amici. Fui felice di quei momenti di amicizia.

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