A cura di Marrano

Salvare vite è un istinto umano secondo qualcuno, ben più forte dell’istinto di uccidere e di uccidersi, umano anch’esso, purtroppo, in molti casi. Salvare vite è un’azione grandiosa e chi lo fa merita rispetto e gratitudine. Senza se e senza ma. Da lungo tempo, quest’anno per la precisione sono 70 anni, il Corpo Nazionale (italiano) del Soccorso Alpino e Speleologico opera al servizio della società civile, tutta, con un occhio di particolare riguardo ai molti frequentatori della montagna, più o meno esperti, alla ricerca di emozioni nel mondo verticale. Il loro lavoro, fatto di passione autentica e, in grandissima parte, di puro volontariato, rappresenta una delle tante eccellenze del nostro bizzarro Paese. Senza di loro la montagna sarebbe di certo un luogo meno sicuro. Così, nel corso di questi sette decenni di attività, le straordinarie gesta dei soccorritori in casacca rossa e gialla hanno determinato la nascita di un mito che seduce e appassiona. I giornali locali, specie della regione alpina, ma spesso anche le testate nazionali, la radio e la televisione, vanno a nozze quando si tratta di raccontare le loro frequenti imprese.

Frequenti… appunto, forse un po’ troppo a giudicare dai numeri che ogni anno ci vengono proposti come bilancio di fine stagione. Numeri che devono stimolare una riflessione, perché l’altra faccia di questa medaglia al valor civile è il costo, non irrilevante, pagato dalla comunità per mantenere vivo questo mito. Sia chiaro, non è colpa del CNSAS se la montagna sta richiamando verso di sé un numero sempre crescente di persone e con esse, statisticamente, un numero sempre maggiore di chiamate per il soccorso. E non è infatti una questione di colpe ciò di cui si discute, ma piuttosto di principi attorno ai quali sarebbe opportuno, questo sì, modulare qualche pensiero. Tipo: è un obbligo garantire, per tutti, la sicurezza in montagna? Qui la strada, finora dritta come un fuso, arriva a un bivio che da una parte conduce alla dimensione del mito, e dall’altro verso un luogo in cui si consolida la consapevolezza che frequentare la montagna in determinate condizioni per prima cosa non è una vera necessità, e in secondo luogo non è sempre un esercizio alla portata di tutti.
Quello che le statistiche non dicono, almeno nella loro lettura generale, è quanti siano gli interventi generati da situazioni banali, frutto dell’inesperienza o, all’opposto, per la discutibile volontà di sfidare il limite delle proprie capacità, sottovalutando i rischi ai quali ci si espone e a cui saranno esposti quelli che chiameremo per salvarci il culo. Da una parte l’elicottero come un taxi, dall’altro i soccorritori come garanzia di salvezza rispetto alla presunzione di immortalità. Imbecilli vs arroganti. Sui sentieri e sulle rocce di montagna arriva di tutto e va bene così, ma allora deve anche andare bene che da quei sentieri e da quelle rocce qualcuno possa anche non tornare a casa. Salvo un’eccezione, che riguarda chi nella montagna trova il proprio luogo di lavoro, spesso per garantire la sicurezza o benessere dei tanti che la frequentano con superficialità o arroganza. L’elenco da fare sarebbe lungo, ma forse andrebbe comunque ricordato che per raccogliere un povero escursionista affaticato o un alpinista esaltato dai social network, l’elicottero potrebbe dover lasciare a terra un boscaiolo travolto da una pianta, un operaio rocciatore intento a posizionare una rete paramassi per proteggere una strada o un allevatore di montagna che cerca di salvare un vitello caduto in un dirupo… e l’elenco potrebbe continuare. Perché per organizzare questo tipo di servizio e garantirlo a tanti costa molto e sono pochi quelli che pagano di tasca propria il prezzo della propria “gitaiola” imprudenza. Anche qui i numeri aiutano a riflettere e sono quelli che riguardano le somme impressionanti dei crediti inesigibili che le regioni alpine rendono noto insieme al numero di interventi.
Mantenere il mito costa dunque ed è come giocare con una moneta a testa o croce. Da una parte la testa, spesso rimasta a casa sul comodino, dei molti avventurieri dell’inutile, e dall’altro la croce che campeggia nello stemma del soccorso alpino, come simbolo di un lavoro eroico ed encomiabile, a vantaggio di tutti, anche di quelli che, a ben vedere, forse non se lo meritano.

Leggo giusto oggi l’ equilibratissimo intervento sul Soccorso Alpino e Speleologico, qualche ora dopo avere appreso della notizia del ritrovamento dei corpi dei due alpinisti dispersi da 5 giorni nel Canalone dell’Inferno sul Gran Sasso d’Italia. Mi chiedevo appunto perchè due persone esperte di montagna abbiano voluto affrontare una impresa non priva di pericoli quando era noto a tutti, anche ai non specialisti, l’imminenza di una forte ondata di maltempo da nordest, quindi le condizioni peggiori in assoluto che si possano avere sulla più alta cima dell’Appennino. Con l’arrivo di forte maltempo invernale, qualunque contrattempo, un incidente anche di piccola o media entità, avrebbero potuto bloccare gli escursionisti in quota; e le pessime condizioni meteorologiche avrebbero impedito poi al Soccorso Alpino di intervenire, esattamente come è accaduto. In giornate terse, pulite, di tempo stabile e buona visibilità, l’incidente ai due alpinisti non avrebbe avuto alcuna conseguenza; nel giro di poche ore li avrebbero recuperati e portati al sicuro. Nel chiedermi perchè sono partiti, domenica 22 dicembre, con il maltempo già previsto e annunciato, mi è venuto di pensare che ci sono momenti in cui, pur conoscendo bene la salvifica opzione della rinuncia, quando le condizioni sono sfavorevoli, tuttavia sentiamo di avere un appuntamento al quale non possiamo rinunciare o mancare. Non sono un alpinista, ma conosco le leggi della montagna. Una montagna appenninica di 3000 metri non è l’Himalaya, certo, dove i mutamenti del tempo possono essere imprevedibili e repentini, letteralmente; ma in questo caso si sono verificate, semplicemente, e nei tempi previsti, le condizioni meteo già annunciate. Duole dirlo, ma c’è stato un pizzico di imprudenza, da parte dei due alpinisti. E la sfortuna, come succede in simili casi, ha fatto il resto. Scrivo tutto questo con sincera partecipazione al lutto e al dolore dei familiari e degli amici. Non fosse stato per quella banale e sfortunata scivolata sul ghiaccio, l’appuntamento fatale con il Destino sarebbe andato deserto.
Hanno sbagliato…ma quale è la linea di demarcazione tra errare e non errare ? Chi è il giudice ? Io mi domando se è stato fatto il possibile o se ci siamo trincerati dietro un “gli sta bene, se la sono cercata” sempre buona per l’opinione pubblica.
Perdona Mirko, ma il punto è un altro. Solo gli sciocchi – che per inciso sono i più pericolosi – potrebbero avere in animo di dire che se la sono cercata. Anche il minimo sindacale di sensibilità umana ci salva da simili affermazioni. La questione, ripeto, è che il forte maltempo era ampiamente previsto. Io, che non sono un alpinista, sapevo, come tanti meteorofili, che da domenica 22 era in arrivo una corrente di cattivo tempo freddo, da nord est, quindi dai Balcani, quindi il peggior maltempo che si possa avere sui versanti centro orientali dell’Appennino, e che avrebbe sicuramente portato un guasto importante del tempo sull’Appennino centrale. Era solo questione di ore. E dunque, non potendo prevedere esattamente quale può essere la gravità del maltempo in arrivo, nè il momento preciso in cui gli elementi si scatenano, e considerando che parliamo del Gran Sasso d’Italia, la prudenza avrebbe suggerito di rimandare l’escursione in alta quota. I due poverini hanno pagato il prezzo più alto per la loro piccola imprudenza; ma la montagna, come sappiamo e come so anche io, che sono un semplice escursionista estivo, è indifferente e non perdona.
Oggi leggo che il fratello di uno dei due alpinisti ha presentato un esposto in Procura, sostenendo che l’accesso alla montagna andava chiuso, considerato il maltempo in arrivo. Non entro nel merito, ma penso che escursionisti e alpinisti debbano sapersi regolare da soli, con i propri mezzi, esperienza, e capacità; la decisione di QUANTI rischi assumersi, e SE assumerli – la rinuncia è notoriamente salvifica, ed è assai lodata e tenuta in alta considerazione dai grandi scalatori, a cominciare da Messner e via via tutti gli altri – quella decisione spettava a loro, non alla Prot Civile o al Ministero del Turismo o degli Interni. Sennò poi si arriva al paradosso che ha dato motivo a Gogna di scrivere il suo articolo, e cioè chiunque e comunque si arrischia, tanto c’è sempre una squadra di soccorritori che arriva a tirarti fuori dai guai. E può andarmi anche bene, che ci sia sempre qualcuno pronto a soccorrere con cani, sci, elicotteri e quant’altro; ma stavolta nemmeno loro hanno potuto fare nulla, e non serve dire che da trenta anni non si vedeva un tempo così crudele lassù. Se non si è mai visto, è solo perchè non ci si è mai stati, sul Gran Sasso. Il maltempo era previsto, e in alta quota, su quella montagna, con il maltempo in arrivo da nordest, il peggioramento può essere repentino, imprevedibile, e assai crudele. Per inciso, si può morire di freddo anche d’estate, in montagna – è accaduto sul Rocciamelone, 3000 mt, in Piemonte, un po’ di anni fa. Piena estate, escursionista stanco, si siede su un masso a poca distanza dal rifugio di arrivo, arriva un po’ di cattivo tempo, la stanchezza, il freddo… ed è rimasto lì, seduto, è morto così, semplicemente. Per concludere: alpinisti o escursionisti esperti e consapevoli dei rischi e delle dinamiche meteorologiche in quota, in quell’ area dell’Appennino, sarebbero rimasti a casa. Ma tante volte si agisce d’istinto, d’impulso; magari l’agenda degli impegni di lavoro e di famiglia preme, un’altra finestra temporale per effettuare l’escursione non c’è, ed è così che alla fine ci si presenta all’appuntamento con il Destino e la Fatalità.