Walter Nones

di Marco Berti
(pubblicato su LoZaino n. 12, autunno 2020)
LoZaino n. 12 è scaricabile qui.

«La montagna è sopra di noi, bella come non mai, tranquilla, sembra stia riposando. La notte sta per arrivare».
È l’ultima riflessione sul diario di Walter Nones dopo aver parlato con sua moglie, Manuela. Era la sera del 29 settembre del 2010 e Walter si trovava in una tendina a 7000 metri sul versante sud-ovest del Cho Oyu.

L’alpinismo che pratichiamo riflette quello che siamo e nel ricordare di Manuela c’è la storia di un uomo che viveva la montagna con uno stile fanciullesco, pulito e istintivo, a volte ingenuo, sincero e semplice. Se si tratta di vera passione, incondizionato trasporto a volte difficile da spiegare, la montagna svela e narra.

Walter Nones

Dalla via nuova sul Lobuche Peak fino al sogno Cho Oyu, passando per il K2 e il Nanga Parbat. «Non era un collezionista di vette, amava l’esplorazione, riteneva che ci fossero vasti spazi per svolgere un’ampia attività di ricerca, scoprire qualcosa di nuovo, originale. I portatori e l’uso delle bombole con l’ossigeno non rientravano nel suo modo di praticare l’alpinismo d’alta quota. Amava il mondo dell’aria sottile e accettava serenamente i propri limiti fisici e psicologici, elementi che facevano parte del conto da pagare in un ambiente così impegnativo, ma li considerava strumenti per capire come migliorarsi, sia come uomo che come sportivo. Li accettava, ma non li subiva».

Erano te 14.36 dell’8 novembre del 1995 quando Walter raggiunse la cima del Lobuche Peak con altri tre compagni: Nicola Cemin, Erwin Maier e Federico Santuari. Una via nuova, Nei Secoli Fedele, quattro carabinieri in cordata. Era alla sua prima esperienza tra le cime della catena himalayana.

Alcuni giorni prima, lì nella valle del Khumbu, ai piedi dell’Everest, si era scatenato l’inferno. Molti alpinisti e trekker furono sorpresi da una terribile tempesta di neve; Walter e i suoi compagni si impegnarono duramente per aiutare nepalesi e turisti in difficoltà; inizialmente per spontanea e generosa reazione, poi su richiesta del Ministero degli Affari Esteri italiano, si prodigarono in condizioni ambientali estremamente difficili nell’attività di ricerca, soccorso ed assistenza. Il Governo Italiano li premiò con la medaglia d’argento al valore dell’esercito e un encomio solenne.

K2, 2004

Era con Erwin Maier, suo grande amico e compagno di cordata nell’apertura della via nuova sul Lobuche Peak in Nepal. Si trovavano nei pressi della traversata Hinterstoisser quando un sasso colpì la testa del suo amico, uccidendolo. Dopo quell’incidente Walter si pose delle domande «Quell’anno ho voluto smettere di arrampicare per un periodo. Mi dicevo che forse non ero portato per la montagna, che forse non era il mio mondo. Dopo un mese, però, è stato più forte di me: ho dovuto ricominciare. Smettere sarebbe stato come rinunciare ad essere me stesso».

Qualche anno dopo, nel 1999, Walter salì il West Buttress del McKinley: nella sua memoria rimase più per la bellezza del luogo e il freddo patito che per la scalata in sé. Nel 2003 fu la volta dell’Aconcagua, dove andò per salire la Via dei Polacchi. A causa di un meteo non favorevole dovette però rinunciare all’iniziale progetto e deviare su un itinerario meno pericoloso, raggiungendo la vetta il 25 gennaio.

K2, 2004
Walter Nones in vetta al K2, 2004

Ormai aveva deciso di dedicarsi alle spedizioni e l’anno dopo andò sul K2, la Montagna degli Italiani, che raggiunse senza far uso delle bombole con l’ossigeno. È poi in discesa trovò la forza, con Silvio Gnaro Mondinelli, di aiutare un gruppo di alpinisti spagnoli in difficoltà.

Nel 2008 ci fu la spedizione al Nanga Parbat, sul versante che racconta la leggendaria avventura di Hermann Buhl, quello Nord. Walter, Karl Unterkircher e Simon Kehrer volevano aprire una nuova via, diretta, in stile alpino. Fu una scalata che lo segnò profondamente. Il 14 luglio erano partiti dal campo base e il 15 erano già alti, oltre i maggiori pericoli della via, a 6400 metri. Racconta Simon che era un po’ sopra di Karl, mentre Walter un po’ più indietro «… ha provato col piede a calpestare, a spingere via un po’ di neve per vedere quant’era larga la fenditura. Era già a metà. In quel momento, senza un rumore, senza un grido, mi è sparito davanti agli occhi. Un attimo prima Karl era lì, un attimo dopo non c’era più. Al suo posto c’era una voragine oscura larga tre metri, coperta da un ponte di neve, che gli si era aperta sotto i piedi».

Walter spunta da dietro un costone e subito chiede all’amico cosa è successo, chiede dov’è Karl. E’ ancora Simon a raccontare parlando di Walter «Lui non si perde in chiacchiere e comincia subito a preparare una sosta per tentare il soccorso. Siccome Karl aveva la corda con sé, dagli zaini prendiamo tutti i cordini e le fettucce per gli ancoraggi, due metri e quaranta l’uno, li tagliamo e annodiamo come nelle evasioni che si vedono nei film. Ne abbiamo in tutto neanche venti metri, ma dovrebbero bastare». Simon, assicurato da Walter, si calò nel crepaccio e trovò Karl. Non c’era più nulla da fare. Costretti ad abbandonare sul posto il corpo dell’amico per l’impossibilità di trasportarlo a valle, scelsero l’unica strada possibile: continuare affrontando un difficile sperone roccioso.

2008, Nanga Parbat

Erano in grado di salire in autonomia, mezzi e risorse alimentari non mancavano e avevano ben reagito allo shock della perdita dell’amico anche se per Walter, in quei lunghi primi momenti, è un penoso ricordare, un ritornare al 2000, quando era andato sulla Nord dell’Eiger per affrontare la storica parete.

Il 16, all’alba, con il telefono satellitare chiamarono in Italia, Simon informò un amico di Karl dell’accaduto, Walter parlò con Manuela, sua moglie «lo e Simon stiamo bene. Dobbiamo arrivare fino a quota 7200 per uscire dalla

via e collegarci alla Buhl per scendere. Non possiamo tornare indietro, è troppo pericoloso. Preferiamo andare avanti. Ci sentiamo fra quattro o cinque giorni, quando saremo giù al campo base».

Walter e Simon, il 18 si trovavano a 6950 metri, erano in forma, concentrati sui loro obiettivi, continuare a superare la parete e poi scendere, non sapevano che in Italia c’era molta attenzione sulla loro scalata e che c’era un impegno per andare a soccorrerli, la batteria del loro telefono satellitare era completamente scarica. Non vivevano la mancanza di comunicazione come un problema, una volta al campo base sapevano che avrebbero potuto riprendere contatto con il mondo. Nel frattempo c’era chi si prodigava in un’azione di soccorso. Venne tentata una prima ricognizione in elicottero, ma la nebbia era troppo fitta.

2008, Nanga Parbat

Il 19 mattina sentirono un rombo lontano, si guardarono in faccia, stupiti: il rotore di un elicottero. Guardarono a valle, gli elicotteri erano due. Pensarono che fossero venuti per vedere dov’era caduto il loro compagno, forse l’amico di Karl che avevano chiamato, si era attivato in tal senso. I due elicotteri si avvicinarono e Walter si preoccupò «Ehi, non è che questi fanno scaricare le valanghe qua sopra?» Da uno degli elicotteri venne lanciato un sacco nero che atterrò 500 metri sotto di loro e scivolò come un bob per altri 2000. Si domandarono cosa ci fosse dentro. Poco dopo assistettero ad un secondo lancio, più preciso che piombò nella neve a circa 100 metri sotto di loro,

Simon volle andare a prenderlo, Walter no, non avevano bisogno di niente. Vinse Simon e Walter seguì brontolando. Dentro il sacco trovarono due bottiglie d’acqua, pane, tonno, del gas e un telefono satellitare. Del mangiare non avevano bisogno, ma gradirono la presenza del telefono. Il sacco portava anche un biglietto di Gnaro Mondinelli «Tenete duro!». Pensarono che le loro famiglie avessero chiesto a Gnaro, che sapevano in partenza per il K2, di mandare quel pacco. Tornarono alla tenda solo con il telefono, il gradito biglietto e una scatoletta di tonno di cui Simon è ghiotto.

2008, Nanga Parbat

Il giorno 20 provarono ad accendere il telefono e poco dopo risuonò un segnale acustico. Era di un messaggio che li invitava a contattare dei numeri di telefono. Walter telefonò per curiosità e subito ricevette risposta: era Agostino Da Polenza. Gli spiegarono che avevano terminato la parete e che volevano scollinare per poi iniziare la discesa.

Agostino li informò di aver attivato una squadra capeggiata da Silvio Mondinelli e Maurizio Gallo, e chiese di chiamarlo un paio di volte al giorno per tenerlo informato. Rimasero stupiti della richiesta finale e che una persona così influente come Agostino si fosse interessata alla loro scalata.

Le riflessioni tra Walter e Simon portarono a questa conclusione «chi va in Himalaya deve assumersi le sue responsabilità. Lo sa che può andare incontro anche alla morte. E noi abbiamo ben chiara una cosa: intendiamo farcela da soli».

Molti temevano in un loro cedimento psico-fisico, ma Simon e Walter non subirono né l’uno, né l’altro.

Il 21 iniziarono la discesa lungo la via Buhl, ma vennero bloccati dalla tormenta. Il 22, tra non poche difficoltà, scarsa visibilità e parete non attrezzata, riuscirono a scendere fino a 6600 m.

Il 23 doveva essere la giornata risolutiva, ma c’era troppa nebbia e restarono in attesa di condizioni più favorevoli, stavano bene.

Il 24 arrivò il bel tempo; scesero con gli sci, qualche corda doppia, finché giunsero a quota 5700 m; le gambe andavano, pronte per proseguire verso il campo base, ormai era fatta, ma li raggiunse l’elicottero ingaggiato per i soccorsi, loro non sapevano del clamore che si era creato attorno alla loro avventura.

2008, Nanga Parbat

Accettarono di montare sul velivolo nell’illusione di poter tentare un recupero del corpo del loro amico, perché durante la discesa il loro costante pensiero era «… prima arriviamo giù, prima possiamo tornare da Karl in elicottero».

Secondo gli esperti, la linea tracciata è quella più diretta, ma le discussioni che sono seguite hanno cancellato il valore di quanto fatto.

Due anni dopo il Nanga Parbat, Walter andò al Cho Oyu: «La sera mi aveva telefonato e stava bene, era sereno – racconta Manuela Nones – Mi disse che il giorno dopo voleva salire ancora un po’ per filmare e scattare delle foto della parete, per poi decidere con i compagni, Giovanni Macaluso e Manuel Nocker, dove sarebbe stato meglio passare. Poi, era sua intenzione scendere. Ci salutammo dandoci appuntamento per la sera dopo».

«Il 3 ottobre squillò il telefono di casa, era Giovanni e capii subito che Walter non sarebbe più tornato. Lì in alto era da solo, un forte vento o chissà cosa, lo portò via. I compagni erano più giù, ad un campo più in basso».

Di Walter ci resta l’incancellabile ricordo, ravvivato dalle sue parole: «Scalare una montagna non è solo un’esperienza alpinistica, è un’esperienza umana, fatta di alti valori che a volte si perdono, scavalcati, ma restano le emozioni, il sorriso dei compagni nella bufera o in una giornata illuminata dal sole, una mano amica nei momenti di difficoltà e la forza regalata dal pensiero di Manuela, mia moglie, di Patrick e di Erik, i miei figli».

Walter Nones: Cavalese, 5 novembre 1971 – Cho Oyu, 3 ottobre 2010

Fonti
– Diari Walter Nones
È la montagna che chiama di Simon Kehrer e Walter Nones (2009, Mondadori)
– Manuela Sparapani Nones

Fotografie
Archivio famiglia Sparapani Nones

 

 

 

 

 

 

 

 

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