Berna

Se pensi che l’avventura sia pericolosa, prova la routine. E’ letale (Paulo Coelho)”.

Matteo Bernasconi

Matteo Berna Bernasconi, nato a Como il 15 gennaio 1982, comincia a frequentare la montagna nel 1993, ma solo nel 2001 inizia a sciare. Ragno di Lecco dal 2003, aspirante guida alpina nel 2009, guida alpina dal 2011, muore il 12 maggio 2020 travolto da una valanga mentre sale da solo il Canale della Malgina (Pizzo del Diavolo), in Valtellina. Lasciando così una compagna, Marta, e una piccola di due anni.

Nei primi giorni di giugno del 2005 con Simone Pedeferri, Alberto Marazzi e assieme allo svizzero Lorenzo Lanfranchi completa una delle più lunghe e ambite maratone verticali del Masino: 3500 metri di scalata dalla Val di Mello fino alla cime del Pizzo del Torrone Orientale, la prima salita integrale della Cresta del Cameraccio.

Nel 2006 si fa notare per l’apertura, con Giovanni Ongaro, di una nuova cascata di ghiaccio sulla parete sud-est del Baratro in Val di Mello; poi, sempre nel 2006, 28 marzo, con Hervé Barmasse, Lorenzo Lanfranchi e Giovanni Ongaro apre una nuova via in Patagonia sull’allora inviolata parete nord-ovest del Cerro San Lorenzo, Caffè Cortado, in stile alpino (1200 m, ED): per questa salita di ghiaccio e misto gli è riconosciuto il premio Paolo Consiglio del 2006.

In anni di attività, gira parecchio: Marocco, Grecia, Sardegna, Spagna. Ma alla fine è sempre la Patagonia che lo attrae di più. Nel 2007 tenta una nuova via di 600 m sul Cerro Piergiorgio, che verrà salita solo l’anno dopo da Cristian Brenna, Hervé Barmasse e Giovanni Ongaro; il 2 dicembre 2008, con il valtellinese Fabio Salini, compie la prima ripetizione italiana – e settima assoluta – della leggendaria via dei Ragni sul Cerro Torre, aperta nel 1974.

Prima salita integrale della Cresta del Cameraccio. Disegno di Simone Pedererri.

In Turchia, nel 2011, apre una nuova via sul Kazilin Basi (gruppo dell’Ala Daglar) 2944 m con Davide Spini senza riuscire a liberarla: Cose Turche, 300 m, 7a/8c? L’anno dopo vi provano la libera anche gli specialisti Arnaud Petit e Stephanie Bodet, senza successo.

Nella stagione patagonica 2011-2012 sull’Aguja Innominata ripete la Via Anglo Americana, 400 m, 6c; altra ripetizione importante, nel 2013, quella della via Festerville, 400 m, 6c, 90°, sull’Aguja Standhardt.

Tra il 2010 e il 2013 effettua tre tentativi di salire l’ultima grande parete ancora inviolata nel massiccio del Cerro Torre, ovvero la Ovest della Torre Egger (950 m, 7a, A2), risolta infine dai compagni Matteo della Bordella e Luca Schiera nel marzo 2013 pochi giorni dopo il rientro in Italia di Bernasconi per impegni lavorativi. Nel 2017, sempre in Patagonia, dal 4 al 5 febbraio con Matteo Della Bordella e David Bacci apre una nuova via sulla parete est del Cerro Murallón, El Valor del Miedo. Nel febbraio 2020, ancora nell’amata Patagonia, con Matteo Della Bordella e Matteo Pasquetto ha aperto Il dado è tratto sulla Nord dell’Aguja Standhardt, poco prima di ripetere la Via del 40esimo dei Ragni di Lecco sulla parete nord dell’Aguja Poincenot.

Tentativo al Cerro Piergiorgio, 2007

Dunque aveva 38 anni. Quando non era impegnato a scalare in montagna, trascorreva il suo tempo ad arrampicarsi in palestra, o allenandosi o lavorando. Nel 2019, assieme ad altri amici anche loro Guide alpine, aveva creato Milano Adventure.

Era molto conosciuto, e un aiuto per cercare di scoprire chi era veramente Matteo Bernasconi lo si può avere andando a cercare i post sui suoi profili social che lui alimentava regolarmente e con generosità.

Berna e Fabio Salini, dicembre 2008

Per Berna 1
di Federico Bernardi
(pubblicato su montagnamagica.com il 13 maggio 2020)

Ho già avuto modo di accennare alla parte più buia della mia passione nel raccontare Storie di Montagna, il confronto con la morte di donne, uomini, amiche, amici, famigliari; la scarsa attitudine di confrontarsi col mistero della scomparsa fisica, l’ineluttabilità degli eventi che in montagna travolgono anche i più prudenti.

Non si è mai preparati quando muore un giovane padre, una figura così amata come quella di Berna: con i suoi riccioli, il suo sorriso e la sua simpatia travolgente, la sua disponibilità umile e professionale di alpinista e guida alpina.

Stamattina, mentre sorseggiavo il caffè, ho visto un post muto sulla bacheca di Riky Felderer, c’era una foto del Berna. Un pugno nello stomaco.

Nel 2013 ho cominciato a scrivere grazie a una serie di messaggi scambiati con Matteo Bernasconi, che l’anno prima aveva sfiorato la clamorosa impresa sulla parete ovest della Torre Egger assieme a Matteo Della Bordella, quando i due rimasero appesi alla vita “with a Little Help from… a friend” dopo una caduta, appesi entrambi a un microfriend (l’incidente è avvenuto il 21 gennaio 2012, quasi alla fine dell’itinerario che per quel motivo chiameranno Die another day, vedi il preciso diario del Berna in http://ragnilecco.com/patagonia-2011-2012/, NdR).

Fabio Salini e Berna al Circo de Los Altares, dicembre 2008, dopo la settima salita e prima ripetizione italiana della via dei Ragni al Cerro Torre.

Così è cominciata la mia personale vicenda di modesto scrittore e cronista di cose di montagna: per la simpatia travolgente, per la professionalità, la passione che Matteo Bernasconi mi trasmise immediatamente – e lo stesso vale per l’attuale Presidente dei Ragni di Lecco, il suo grande amico Matteo Della Bordella.

Il fatto che anche il suo soprannome sia anche un po’ il mio, Berna, sembra buffo e sciocco, contava qualcosa di speciale per me. Non lo scrivo per retorica, lo penso davvero: senza di te, probabilmente, non avrei trovato il coraggio di scrivere ad alpinisti famosi, esperti, per cominciare il mio cammino in questa passione per persone straordinarie, capaci di imprese straordinarie, come te. Grazie Berna. Matteo, sei andato avanti troppo presto.

Un immenso abbraccio alla tua piccola, alla tua compagna, ai Ragni di Lecco e a tutti gli amici.

Davide Spini e Berna dopo la salita di Cose Turche al Kazilin Basi, Turchia, 2011.

Per Berna 2
di Matteo Della Bordella
(dal suo profilo facebook, 13 maggio 2020)

Chissà quante volte rivedrò la tua faccia disegnata sulle montagne che più amavi, su quelle montagne siamo cresciuti insieme e i tuoi sogni sono sempre stati anche i miei, amico mio.
Se penso a quante ne abbiamo passate assieme, tutto questo mi sembra ancora più insensato, la rabbia e il vuoto dei ricordi si fanno ancora più grandi.
L’amicizia non si può spiegare a parole, si declina in diversi modi, si cementa con il tempo trascorso condividendo parte del nostro percorso di vita.
Penso in realtà tu sia stato in grado di darmi più di quanto pensassi e più di quanto ti abbia mai dato io. Ricordo la prima volta che andammo in Patagonia insieme, la prima volta sotto la Torre Egger me la feci sotto, ero impacciato come un pulcino, persi addirittura una delle tue piccozze nella crepaccia terminale e tu non ti arrabbiasti ma cercasti di tranquillizzarmi, eri la mia sicurezza, eri tutto. Eravamo solo io e te e non so nemmeno cosa ti avesse spinto a scegliere me come compagno, ma da lì è nato tutto. La tua determinazione era forte quanto la mia, ma la esprimevi con la maturità dei grandi.

Berna e Matteo Della Bordella dopo la salita di Festerville, Aguja Standhardt, gennaio 2013

Chissà se in quei terribili istanti di questo 12 maggio 2020, avrai provato le stesse sensazioni di quel giorno sulla Torre Egger quando ti piombai in testa e per un attimo pensai che tutto fosse finito. Quell’esperienza ci aveva segnati entrambi, ci aveva fatto maturare e resi più responsabili, soprattutto tu eri diventato un vero uomo. Dei due eri tu quello con la testa sulle spalle, quello capace di ragionare e mettermi un freno quando le mie idee e le mie ambizioni dilagavano in zone pericolose. Già allora avevi quell’equilibrio nella vita tra passione, lavoro e affetti che guardavo con grande ammirazione e faticavo a trovare, eri un esempio e continui ad esserlo.

Berna e Giovanni Ongaro

Quando scalammo insieme il Cerro Murallón ero la persona più felice del mondo, grazie anche al fatto che potevo leggere la stessa felicità nei tuoi occhi; l’amicizia è il motore di tante cose, di molte salite, e sicuramente lo è stato di questa, che anche tu ricordavi come una delle tue esperienze più belle. Il fatto che mi avesse permesso di recuperare un rapporto così importante, dopo un periodo in cui ci eravamo allontanati, era una soddisfazione ben più grande della via stessa e avrei voluto urlare questo al mondo, al posto dell’ennesimo racconto di una salita.
Ricordo quel giorno che arrivasti a casa mia con le birre per comunicarmi che saresti diventato papà, il tuo sorriso era più sincero e largo del solito e la tua gioia era incontenibile, quel giorno ci stavamo preparando ad andare insieme in Perù: quella spedizione non fu un successo, ma quando mi chiedesti di rinunciare per i pericoli legati all’avvicinamento sul ghiacciaio lo capii e mandai giù il boccone amaro senza dire nulla. Probabilmente non avrei reagito allo stesso modo se fosse successo con qualcun altro, ma dato che eri tu a chiedermelo non lo misi in discussione, di te mi fidavo ciecamente.

Berna, durante il tentativo 2010-2011 alla Ovest della Torre Egger

Siamo partiti pochi mesi fa per quella che è stata la nostra ultima avventura insieme, so che per te non è stata una spedizione facile, ci siamo resi contro entrambi di quante cose fossero cambiate dalla nostra prima volta, 10 anni fa, e di quanta strada avessimo fatto. Averti al mio fianco era per me già una sicurezza, mi bastava e non avrei barattato la nostra cordata per il miglior alpinista al mondo. E dopo 35 giorni di spedizione, questa volta credevo di essere stato io ad averti insegnato qualcosa su queste montagne e su come scalarle e invece, di nuovo, sei stato ancora tu che, come un fratello maggiore, con la tua spontaneità mi hai trasmesso il messaggio più importante in poche parole. Avevo appena risposto a Matteo Pasquetto “quando torno starò un po’ a casa a riposare” e tu mi hai subito corretto “Quando torni starai un po’ a casa a fare il papà”.
Grazie Berna per tutto quello che mi hai dato in questi dieci anni di amicizia vera.

Berna, Torre Egger, tentativo 2011-2012

Avventura sullo spigolo nord del Pizzo Badile in inverno
di Matteo Bernasconi
(pubblicato sul numero 0 di Stile Alpino del 1 giugno 2005)

Era il 15 gennaio del 2000: auguri Berna!!! Mi chiedevo: come posso festeggiare il mio compleanno??? Era da tempo che mi sarebbe piaciuto fare una via in inverno, una così detta invernale, quando decisi di proporre l’idea a quel “fulminato” del mio amico Alby.
“Oh Alby!! Ti va di andare a fare lo spigolo nord del Badile?”. E lui subito: “fig***”!! Ok Berna andiamo!”.

Berna, Torre Egger, tentativo 2011-2012. La famosa scala allungabile a 8 metri.

Le previsioni del tempo davano bello, c’è da dire che da mesi non si vedeva in giro una nuvola; decidiamo così di partire nel week-end. Ci ritroviamo due giorni prima della partenza al “covo”, che altro non è che il garage dell’Alby e qui iniziamo a pensare a come organizzarci per la salita e subito vediamo che non siamo molto attrezzati. Rimediamo con un paio di telefonate ad altri nostri amici: Ale ci presti il fornello… Lele, il sacco da bivacco… Tambo, hai un paio di chiodi da ghiaccio… Luis, ci presti il sacco a pelo… ok, il materiale siamo riusciti a racimolarlo. Altro problema: Berna: “Cosa cavolo ci portiamo d’abbigliamento per non crepare di freddo??? Io mi porto due paia di calza a maglia, pantaloni, sovra-pantaloni, due magliette intime, pile, micropile, goretex, guanti di scorta, berretto, maschera in capilene. E Tu Alby cosa porti…?”. Alby: “Eeeeh Bernaaa… io non ho questo materiale… come farò? Va beh, Berna, mi porto la mia tuta intera da sci, sotto metto una calzamaglia e visto che non ho il goretex sopra metto il “promatech” (giubbetto senza maniche gadget di una fiera tessile)”.

Berna e Matteo Della Bordella, Torre Egger, tentativo 2011-2012

Ah, dimenticavo: io, Berna, esperienza di misto meno che zero e il mio amico Alby era dalla Naia che risale a 15 anni fa che non metteva ai piedi un paio di ramponi!!! Il giorno seguente andiamo nel vicino ipermercato a fare la spesa… cosa portiamo?? Compriamo barrette, biscotti, pasta, sugo, minestre, pane, frutta secca… ok! Ora abbiamo tutto! Prepariamo gli zaini e domani… pronti via si parte!!! E’ il 17 gennaio 2000, venerdì, la sveglia è alle 4, partenza alle 5 da Villa Guardia… dal covo… Tutti e due euforici e un po’ esaltati, nonostante non fossimo sicuri della riuscita dell’impresa, visto che per noi era tutto un’incognita, una novità. La nostra risposta ai problemi e situazioni in cui ci saremmo potuti trovare, era… boh! Speriamo! Vedremo!

Torre Egger, tentativo 2011-2012

Alle 7 siamo a Chiavenna, mega colazione alla pasticceria e alle 8 siamo pronti a partire dal parcheggio della Val Bondasca, verso il Sasc Furä, con l’intenzione di mettere la nostra tenda quasi sotto allo spigolo nord, in prossimità dell’attacco. E’ una giornata bellissima, molto fredda e con entusiasmo ci incamminiamo. Delle vere e proprie colate ghiacciate lungo il sentiero, ci rallentano la salita e dopo tre ore arriviamo al rifugio, facciamo una pausa, beviamo una tazza di tè e fumiamo una sigaretta, ripartiamo e intorno alle 13 ci troviamo a un centinaio di metri sotto al colle, dove decidiamo di bivaccare. Il lavoro di montaggio della tenda dura quasi un’ora viste le pessime condizioni della stessa, aggiustiamo i paletti e riusciamo a mala pena a tenerla in piedi: il telo lo blocchiamo con dei sassi.

E’ buio e in un freddo gelido prepariamo la cena… il menù consiglia: pasta con sugo alla bolognese… prima caz****!! Mangiamo solo due bocconi visto che la pasta è diventata subito fredda e il sugo non è altro che un blocco unico: non è stata una bella idea! Facciamo il tè che sa di pasta bruciata e ci infiliamo nel sacco a pelo: qui ci accorgiamo della seconda enorme caz****: i 5 litri di acqua che ci eravamo portati sono ghiacciati!! Ma va!! Che due co****** che siamo!!! Puntiamo la sveglia per le 5.30 del giorno dopo e in un gran freddo cerchiamo di dormire. Al mattino, nel dormiveglia, ci accorgiamo che sono quasi le 7, con il buio non ci siamo accorti del ritardo… ”Ca*** è tardi!!”… Iniziamo bene!! La tenda la molliamo lì com’è e dov’è e in fretta e furia ci incamminiamo verso l’attacco. Intorno alle 8 iniziamo a scalare, io da primo di cordata… sono teso, sto in cagao, come dice il mio amico Dodo, e cerco di prendere confidenza con la scalata, che in alcuni tratti risulta essere di misto, con neve e ghiaccio. Cerco di prendere confidenza con gli scarponi, visto che era la prima volta che li usavo in arrampicata. Dopo pochi tiri arriviamo sullo spigolo vero e proprio e qui ci troviamo di fronte a un paesaggio e a un mondo che non mi sembra vero.

Teo Della Bordella e Berna, Torre Egger, tentativo 2011-2012

Eravamo lì solo noi, io e l’Alby in un silenzio surreale, con la Nord-est, la Est nord-est, le Sciora, il Céngalo, ovunque ci giravamo montagne, neve, ghiaccio, in un ambiente che d’inverno, secondo me, assume seppure in piccolo il fascino della Patagonia (a dire il vero, secondo Bonatti, anche di più!!). Sulla Est nord-est vidi una linea di salita che mi prese subito, mi dicevo che sarebbe stata una fi**** salire su di lì in inverno, lo dissi anche al mio amico Alby… Era la via del Fratello, salita già nell’inverno del ’70 dai fratelli Rusconi… ma questa è un’altra storia. Riprendiamo a scalare e presa confidenza con gli scarponi, l’arrampicata diventa divertente, la placca rischiosa ci fa perdere un pochino più di tempo nel superarla, rispetto ai tiri precedenti e a quelli successivi. Senza neanche accorgercene, ci ritroviamo sotto la grande frana e in questo punto sbagliamo la linea di salita e ci ritroviamo sulla Nord-est, perdendo quasi un’ora per ritornare sullo spigolo; il tiro di corda è risultato impegnativo… l’adrenalina si è fatta sentire!!

Sono le 16.30 e nonostante il mio amico Alby continuasse a ripetermi di fermarci e di bivaccare, io volevo continuare e andare avanti. Faccio un tiro di corda e ci ritroviamo 50 metri distanti l’uno dall’altro, quando ormai al buio, l’Alby mi dice che lui non continua, si sarebbe fermato là. A questo punto c’è stato un momento di tensione, io volevo continuare e glielo dicevo imprecando, mentre lui mi rispondeva che se continuavamo andava a finire male… Dopo 20 minuti di discussione, Berna: “io continuo, mi slego e vado avanti da solo”; Alby: “no Berna non fare caz***** è buio…”, tirandomi la corda per farmi scendere.

Desisto, faccio la doppia e lo raggiungo. Nel buio troviamo un piccolo posto da bivacco, altro non era che una sorta di piccolo diedrino, rivolto verso la Nord-est e qui attrezziamo la nostra sosta su uno spuntone, dove assicuriamo noi e gli zaini. Ci infiliamo subito nel sacco a pelo… Alby appoggiava appena il sedere e rimaneva in tensione sulla sosta, aiutandosi con i talloni per sorreggersi mentre io appeso completamente, stavo in braccio all’Alby. Risultato un gran male alla vita e alle pal** per me e crampi alle gambe per l’Alby. In aggiunta, il sacco del cibo che appoggiava sul nostro fianco è finito sul ghiacciaio e il guanto che l’Alby gentilmente mi aveva chiesto di tenergli un attimo, ops, mi è caduto. Alby: ”mi tieni il guanto?” Berna: “Sì, Alby passa”; Alby: “Berna mi ripassi il guanto“; Berna: “Alby mi è finito nel sacco a pelo, non riesco a prenderlo, tieni i miei”… (il giorno dopo ho dovuto per forza confessare che mi era sfuggito di mano). Dopo due ore che eravamo appesi…che sembrava un’eternità, accendo il cellulare e mi accorgo che prende; nello stesso momento mi chiama l’amico Ale, “Berna siete arrivati in cima?”. “No, Ale, stiamo bivaccando”. “Non dire caz***** ”, mi risponde. “No, è vero!!”. “Alby, Berna, tenete duro, grandi!!”.Ale era con gli amici in un pub a Como, mentre noi passiamo la notte svegli, a guardare le luci delle macchine che ogni tanto passavano sulla strada per St-Moritz e mi sono dovuto sorbire la storia della vita dell’Alby. Abbiamo passato 14 ore appesi, con un gran vento freddo, abbiamo fumato un pacchetto di sigarette, non riuscivamo a bere, poiché la fiamma del fornello non riusciva a sciogliere la neve, visto il forte vento.

Arriva il mattino, è il 18 gennaio e alle 7 con i muscoli e le ossa un po’ rotte e intorpidite dal freddo, ci organizziamo e ci rimettiamo in moto. Nei primi metri siamo un po’ impacciati, poi riprendiamo il ritmo e in quattro ore e trenta di arrampicata, ci ritroviamo alla cuspide, siamo in cima al Badile ! Alee’!!! Scattiamo una foto di ricordo e ci dirigiamo verso il bivacco Alfredo Redaelli, è la prima volta per tutti e due in cima al Pizzo Badile. Affrontiamo il crestone finale e sotto i nostri piedi, ci troviamo un vuoto esagerato e poco ospitale. Superata la cresta, scendiamo pochi metri fino a arrivare al bivacco, nevischia e l’idea di fare un’altra notte all’aperto ci fa star male e così decidiamo di fermarci e di scendere il giorno seguente, dalla normale, che si svolge dal versante sud verso la Val Masino. Una volta entrato nel bivacco, mi sono levato i ramponi che avevo appesi all’imbrago e così com’ero, mi sono addormentato sul letto. Il mio amico Alby ha invece sistemato il nostro hotel, così l’abbiamo chiamato. Abbiamo passato la sera e la notte a bere neve zuccherata, mangiando i pochi biscotti e le barrette rimaste.

Il giorno seguente, 19 gennaio, ci alziamo alle 7, ci prepariamo e incominciamo a scendere, perdiamo sempre più quota, seguendo la discesa che a noi sembra più sicura e logica e una volta arrivati alla croce, con due doppie siamo arrivati alla base della Sud del Badile. Abbiamo sfilato le corde e con una gioia e una felicità mai provata, ci siamo seduti su un sasso a fumare una meritata sigaretta, stanchi ma contenti; abbiamo iniziato la discesa verso il rifugio Gianetti, dove abbiamo incontrato altre persone e con loro ci siamo diretti verso valle. Arrivati quasi ai Bagni di Masino, la sorpresa… vediamo un elicottero del soccorso dirigersi verso la Gianetti… ho pensato subito a mia mamma… che non sentendomi per 4 giorni ha allertato il soccorso alpino.

Arriviamo ai Bagni di Masino, dove incontriamo il nostro amico Pavaz (Andrea Pavan), che era venuto a fare un giro per vedere se fossimo arrivati. Caricati gli zaini a mala pena sulla sua macchina, visto che era già colma con l’inseparabile crash-pad, con lui andiamo a San Martino, al bar Monica, a festeggiare. Mentre siamo lì, la Monica mi dice: “Berna, c’è il soccorso alpino al telefono, ti stanno cercando i tuoi genitori, ti aspettano al ristorante Miramonti”, ma non faccio in tempo a uscire dal bar, che li incontro sull’incaz**** andante e mi chiedono perché non li avevo avvisati. Io, cerco di spiegargli che ero appena arrivato e che il cellulare non prendeva. Una volta chiariti, il Pavaz ci riporto’ a prendere la macchina in Val Bondasca, dove aveva avuto inizio la nostra avventura. Il giorno seguente, a seguito dell’intervento del soccorso alpino, siamo finiti anche sul giornale e precisamente su La Provincia di Como, il titolo dell’articolo era: “Villa Guardia, paura ieri in val Masino: due giovani partiti per il Badile parevano spariti, erano al bar”.

Settima salita della via dei Ragni al Cerro Torre
di Matteo Bernasconi
(pubblicato su ragnilecco.com il 7 dicembre 2008)

Il tempo è ancora cattivo ma noi siamo decisi, in soli due giorni abbiamo raggiunto “il Circo”. La domenica si apre ai nostri occhi uno scenario grandioso. Siamo in uno dei posti più belli al mondo, in quel momento per noi il più bello! Dopo le prime fasi convulse di foto, riprese e parole urlate, ci assale la paura di non avere approfittato di quella giornata fantastica per salire. Il nostro fisico però non saremmo riusciti a muoverlo, siamo stanchi di brutto, le due giornate precedenti ci hanno segnato. Il primo dicembre alle quattro di mattina stelle a perdita d’occhio sopra lo Hielo Continental e assenza di vento ci fanno ben sperare per il nostro tentativo, intentar si dice da queste parti. L’obiettivo è raggiungere l’Helmo, il fungo di neve posto sopra il colle della Speranza e bivaccare per la notte, ma il troppo caldo scolla ghiaccio dalle pareti e neve dai pendii, decidiamo di fermarci in una zona riparata, trecento metri sotto al colle. L’attesa in mezzo al far west è snervante, pendii che scivolano in continuazione, il Torre che si sbarazza di corazze di ghiaccio e noi che ci caghiamo addosso per paura di dovere abbandonare. Ci proponiamo di partire comunque per il tentativo durante la notte. Niente sole, niente scariche, speriamo… La sera stessa poco prima del tramonto il profilo del Cerro Torre è fissato nella nostra testa in ogni particolare, non fatichiamo a individuare una sagoma che sale l’ultima lunghezza del fungo e poi scompare dentro quello che intuiamo essere uno dei tanti buchi che si formano (o si scavano!) per superare lo strapiombo di neve e ghiaccio sommitale.

Alle due e trenta di mattina non è proprio che tutto taccia, ma i crolli sono di gran lunga diminuiti e in breve ci troviamo all’Helmo, la scalata è rapida e l’intesa perfecta! Ancora un paio di lunghezze e incontriamo Rolando Garibotti che scende. Ci informa che con un gruppo di amici ha salito la Ovest, ci hanno preparato il foro per sbucare dal fungo. Il lavoretto ha richiesto quattro ore di scavi (!) se lo incontriamo a Chalten gli offriamo una cervecita… Grazie Rollo!

Dopo undici ore di scalata indimenticabile siamo nell’unico posto dove vorremmo essere, in cima al Cerro Torre, che festa! Il pensiero va ai Ragni e alla loro salita, visionaria per l’epoca, portata al successo nei primi anni settanta, chapeau! Resta la discesa da gestire con attenzione, siamo inebriati e stanchi, ma consapevoli di questo. Tutto scorre alla perfezione, il tempo rimane stabile, non abbiamo pressioni di alcun genere fatta eccezione per le scariche che ci “impongono” di trascorrere un’altra notte nel nostro accampamento, di scendere dai pendii finali non se ne parla, sarebbe un suicidio e queste giornate ci terremmo a conservarle per un po’ nella memoria… La discesa dai pendii finali la affrontiamo di notte, chiaramente senza vento, oramai ci siamo abituati bene.

Con la prima luce siamo alla tenda, increduli che la Patagonia, terra avara di regali, ci abbia concesso queste giornate di alta pressione e assenza di vento, un sogno! Rientriamo a El Chaltén, partendo dal Circo de Los Altares la notte, dodici ore di cammino con una “mochilla” esagerata, ma il carico è alleggerito dalla cima raggiunta. È fatta, festeggiamo con due Aulin ciascuno e ci lanciamo nella notte di El Chaltén.

(Inseriamo qui due articoli, scritti dal Berna, con lo stesso oggetto, il secondo tentativo alla parete ovest del Cerro Torre per la via Die another day, NdR)

Torre Egger, parete ovest, primo tentativo
di Matteo Bernasconi
(pubblicato su ragnilecco.com il 12 febbraio 2011)

Perché Progetto Egger? Semplicemente perché siamo pronti per ritornare sulla parete e continuare quello che abbiamo iniziato… Torre Egger 1 – Ragni di Lecco 0. Ma la partita non è ancora finita, siamo solo agli inizi! Ecco come è andato il primo round: Siamo io, Matteo Berna Bernasconi e il Teo Matteo Della Bordella che il 25 dicembre 2010 partiamo dall’Italia con l’intenzione di trascorrere 45 giorni in Patagonia per realizzare il nostro sogno, salire la Torre Egger da ovest, una parete ancora inviolata.

Partiamo a Natale, destinazione Buenos Aires e con un volo interno raggiungiamo il 26 dicembre alle 14.00 ora locale il paese di El Calafate dove facciamo spesa di viveri, compriamo gas e benzina per i fornelli e alla sera prendiamo il bus che ci porta a El Chaltén; con noi abbiamo circa 130 kg di bagagli… un trauma tutte le volte spostarli. Il 27 dicembre recuperiamo 8 ragazzi che fanno i porter che ci aiuteranno nel trasporto del materiale fino al Passo Marconi e per fare le ultime spese. Dividiamo il materiale nei vari zaini dei porter, il nostro saccone risulta essere più pesante del previsto, i chili sono tanti, abbiamo con noi 230 kg di materiale da trasportare sulle spalle. Il 28 dicembre alle 4.00 del mattino partiamo da El Chaltén io, il Teo, e gli 8 ragazzi alla volta del ponte per la Piedra del Fraile, punto di partenza per raggiungere il passo marconi che raggiungiamo intorno alle 16.00.

I porter tornano a El Chaltén e ora siamo rimasti io e il Teo con i nostri 230 kg di materiale da trasportare al Circo de los Altares, più precisamente sotto al Filo Rosso; questo sarebbe stato il programma per il giorno successivo. Montiamo la nostra tenda e passiamo la notte al Passo Marconi, il tempo è bello ma nella notte si alza un vento forte.
Il 29 dicembre alla mattina tentiamo con la nostra slitta di trascinare in due più di 100 kg di materiale alla volta del Filo Rosso; il vento è troppo forte, non riusciamo a stare in piedi, la slitta è troppo pesante, il vento fortissimo ci ricaccia indietro. Sistemiamo tutto il materiale al Marconi, il vento solleva piccoli sassi e neve ghiacciata dal terreno, decidiamo in fretta e furia di tornare alla Plagitta, un punto sicuro dove stare con la tenda a 3 ore circa dal passo.

In Plagitta passiamo il 29, il 30 e il 31 di dicembre, tre giorni di vento fortissimo, il 30 è accompagnato anche dalla pioggia, ci siamo solo noi, per tre giorni non incontriamo nessuno, e per tre giorni abbiamo da mangiare solo 1 kg di pasta, 2 scatolette, 3 pacchetti di cerealitas… una fame d’altri tempi! Il vento al Passo Marconi non ci aveva permesso di recuperare altro cibo.

Berna, Torre Egger, tentativo 2011-2012

Il 1 gennaio il tempo è bello, assenza di vento e caldo, partiamo alle 4.00 dalla Plagitta, raggiungiamo il Passo Marconi e trainiamo il primo carico, più di 100 kg, la maggior parte dei chili è sulla slitta che trainiamo in due, gli altri sulle spalle, fino al Filo Rosso che raggiungiamo intorno alle 16.00. Incominciamo a costruire la truna ma alle 22.00 stravolti ci infiliamo nei saccopiuma.

È il 2 gennaio, alle 2.00 di notte ripartiamo di nuovo verso il Passo Marconi per recuperare il resto del materiale; ci carichiamo altri 100 kg circa e ritorniamo al Filo Rosso che raggiungiamo nel primo pomeriggio, il tempo è sempre molto bello. Finiamo di costruire la truna che ci impegna per altre 4 ore, il nostro campo base sotto la parete è pronto; in due giorni abbiamo trasportato tutto il materiale e sistemato il campo base.

Berna, Torre Egger, tentativo 2011-2012

Il 3 di gennaio è sempre bello e caldo ma io e il Teo decidiamo di riposare, dobbiamo recuperare per poter andar in parete. Il 4 di gennaio fa caldo e piove per tutta la giornata. Il 5 di gennaio la sveglia suona molto presto, alle 2.00 partiamo dalla tenda in direzione della parete, è una giornata bellissima. Con noi abbiamo tutto il materiale più 200 m di statiche, insomma abbiamo dei sacconi pesantissimi.

Il ghiacciaio si rivela pericoloso e abbastanza laborioso da attraversare, e di mano in mano che ci avviciniamo, anche lo zoccolo risulterà più laborioso del previsto. Saliamo i primi 250 m di zoccolo, scaliamo 100 m su roccia-misto sul V-VI , poi un nevaio sui 60° di pendenza, fino a raggiungere la base della parete. Scaliamo anche i primi 3 tiri della via, fissiamo le corde fisse ma intorno alle 18.00 iniziamo a scendere perché dobbiamo fissare i primi 100 m di zoccolo prima del nevaio. Il nevaio sarà l’unico tratto non fissato. Alle 23.00 circa siamo di nuovo alla tenda, stanchi ma felici del lavoro fatto, il Teo si è fatto anche un tiro in scarpette! Ogni tanto la parete scaricava, ogni tanto saltavamo per aria! Stavamo imparando a conoscerla…

Berna e Teo Della Bordella, Torre Egger, tentativo 2011-2012

Il 6 di gennaio è brutto, il 7 è stata una giornata difficile da interpretare, la pressione si abbassava, grosse nuvole sullo Hielo Continental, al mattino pioggia e in tarda mattinata tempo bello, ormai era troppo tardi per andare in parete, diventava pericoloso fare l’avvicinamento al sole. La meteo ci dà 3 giorni di bello, prepariamo i sacchi con gli altri 200 m di statiche e cibo per 3 giorni. Avevamo visto che si poteva bivaccare in parete, con noi anche sacchi a pelo e fornello. Alle 3.00 partiamo dalla tenda, il tempo è bello ma fa molto freddo. Risaliamo le fisse fino al punto massimo raggiunto e notiamo che il tempo sta cambiando, si rannuvola e fa sempre molto freddo.

Facciamo 5 tiri di corda, quasi tutti avvolti nelle nuvole, intorno alle 18.00 incomincia a nevischiare e il vento si rinforza. Incominciamo a scendere e a sistemare le fisse, abbandoniamo l’idea di bivaccare in parete, fa troppo freddo, nevica, e il vento aumenta sempre di più e non abbiamo nessun riparo per provare a stare in parete, lasciamo materiale e cibo. Sul nevaio inizia a sbuferare, vento forte e neve… una lozza come dice il Teo! Siamo molto felici della decisione appena presa. Alle 23.00 raggiungiamo in piena bufera la truna.

Berna, Torre Egger, tentativo 2011-2012

È il 9 gennaio, nevica, fuori dalla truna bufera… così come i giorni successivi. Rimaniamo bloccati in truna per il brutto tempo per i 10 giorni consecutivi. Il 15 di gennaio è il mio compleanno, ma fuori è sempre brutto. La meteo continuava a dare brutto tempo, decidiamo di ritornare a El Chaltén, per recuperare un po’ di cibo e per far festa, insomma eravamo stufi di stare sdraiati in tenda nell’umido.

Lasciamo il campo montato e ci rechiamo a El Chaltén in giornata, in 10 ore, scarichi copriamo circa i 45 km che ci distanziano dal paese. Rimaniamo in paese per i due giorni successivi, poi tentiamo di rientrare al campo ma la giornata finirà al Río Electrico, il torrente che dista circa a 1.30 h di cammino da Fraile, sotto una pioggia incessante, ritorniamo a El Chaltén; anche al El Chaltén continua a piovere.

Passiamo altri due giorni in paese, poi tentiamo di rientrare, quel giorno davano vento forte ma ci è andata bene, il Passo Marconi siamo riusciti ad oltrepassarlo, solo nelle ultime ore di cammino nello Hielo ci ritroviamo a combattere con il vento e la neve di una bufera. Dopo 12 ore di cammino, stanchissimi arriviamo alla truna che per metà è distrutta, la tenda sepolta dalla neve e in tenda un sacco d’acqua in cui galleggia il resto della roba. Passiamo la notte come riusciamo e così anche il giorno successivo sotto l’ennesima nevicata, la meteo dava bello… ma non era così!

Berna, Torre Egger, tentativo 2011-2012, verso il grande tetto finale.

È il 25 gennaio, è nuvolo, le pareti non si vedono, fa molto freddo, decidiamo di sistemare la truna visto che il tempo ci regala un momento di tregua; l’idea era quella di salire in parete se ci fossero state le condizioni per il giorno successivo, la meteo dava 4 giorni di bello ma la pressione era ancora bassa, incominciavamo a pensare che le previsioni erano sbagliate. Nel pomeriggio, si apre, tutto azzurro, vediamo le pareti totalmente incrostate di neve, capiamo che la spedizione era finita… due valanghe scese sulla via ci fanno desistere nel provare a salire. Decidiamo di sistemare tutte le nostre cose e nella notte di partire verso El Chaltén, l’aggiornamento meteo prevedeva ancora brutto tempo per i giorni successivi, e così è stato. Un sogno solo rimandato, io e il Teo siamo già pronti per il nuovo tentativo, tutto è già organizzato e pronto per l’anno prossimo, bisogna solo aspettare la nuova stagione patagonica – esperando nel bel tiempo! Esta es la Patagonia! La linea di salita percorre un tentativo fatto da Ermanno Salvaterra nel 1997 con Adriano Cavallaro. Salvaterra in quell’occasione salì 250 m, 7 tiri di corda. Abbiamo trovato le soste, dall’ultima sosta trovata, il 7° tiro, siamo saliti di 50 m. in totale abbiamo salito 8 tiri di corda, 300 m di via.
Ringrazio Ermanno per tutte le info…!

Matteo Della Bordella, Torre Egger, tentativo 2011-2012: sotto al tetto finale.

Torre Egger, parete ovest, secondo tentativo
(Pensieri sparsi)
di Matteo Bernasconi
(pubblicato su ragnilecco.com il 16 febbraio 2012)

Eccomi di ritorno da un altro viaggio in Patagonia, l’obiettivo di questa stagione patagonica 2011-2012 era quello di portare a termine il progetto Egger: The Egger Project, iniziato nell’anno 2010-2011.

Risultato: Egger 2 – Ragni di Lecco 0. Il risultato purtroppo non cambia, ma al progetto Egger abbiamo voluto dargli un nome Die another day, ovvero “morire un altro giorno”.

Perché?
Perché è stata un’avventura talmente grande e importante per noi che non era più un progetto, un’idea, ma è stata una vera e propria avventura con la A maiuscola.

Berna, Torre Egger, tentativo 2011-2012

Era una Patagonia molto impegnativa quest’anno, a causa delle condizioni ambientali. Una Patagonia caratterizzata oltre che da finestre di bel tempo nei mesi di dicembre e gennaio anche da tantissima pioggia e da temperature molto alte che hanno completamente sconvolto ghiacciai, avvicinamenti, pareti.

Una Patagonia dove il bel tempo non è mancato, anche se durante la prima metà di febbraio ho potuto rivivere la Patagonia che conoscevo… insomma il brutto tempo patagonico. La definirei una Patagonia atipica.

Le temperature molto alte abbinate alla pioggia che scendeva fino in alta quota hanno procurato tanti problemi. Avvicinamenti in alcuni casi impraticabili, frane e ghiacciai pericolosi hanno causato tanti incidenti e purtroppo alcuni di questi mortali. Una Patagonia molto calda a detta dalla gente del luogo e dagli alpinisti di El Chaltén.

Il ghiacciaio di avvicinamento alla parete, data la sua impraticabilità, ci ha obbligato a ritornare a El Chaltén per recuperare una scala di alluminio allungabile fino a 8 m.

Parete ovest della Torre Egger, tentativo a Die another day.

A causa delle pessime condizioni del ghiacciaio solo due volte siamo riusciti ad utilizzare la scala; il ghiacciaio non era più percorribile neanche con questo mezzo.

Per tornare alla truna alla base del Filo Rosso, l’ultima volta abbiamo dovuto scalare uno sperone roccioso di circa 200 m per raggiungere la Via dei Ragni al Torre e tornare così alla truna, un percorso molto più lungo e laborioso ma più sicuro. Frane di ghiaccio e sassi rendevano situazioni apparentemente sicure momenti pericolosi e difficilmente controllabili.

Spesso mi sono chiesto come mai pochi alpinisti sono stati interessati a provare a salire la parete ovest della Torre Egger.

Le voci che giravano sono di una parete pericolosa, difficile da trovare in condizioni, isolamento, una Ovest dove le tempeste patagoniche non lasciano scampo.

Questi elementi sono stati quelli che ci hanno motivato a provare, oltre al fatto che è una delle ultime pareti inviolate del gruppo Cerro Torre-Fitz Roy. La Ovest della Egger è la parete più “impegnativa” che ho mai dovuto affrontare.

Purtroppo a un solo tiro di corda dal Colle De Donà-Giongo o Colle Lux si interrompe il nostro tentativo di aprire una via nuova sull’inviolata parete ovest della Torre Egger.

23 lunghezze di corda, per un dislivello di 950 m, per una difficoltà max di 7a/A2.
La parete ovest ha una forma a “pera”. Una parete apparentemente liscia dove si intravedono delle linee d’arrampicata di duro artificiale che obbliga ad una progressione molto lenta e laboriosa. La progressione sarebbe solo ed esclusivamente in artificiale.

Noi però abbiamo scelto una linea molto più scalabile, come piace a noi, sulla sinistra della “pera,” lungo il suo spigolo per poi puntare al colle De Donà-Giongo o Colle Lux, una linea in apparenza più sicura ma che alla fine si è rivelata essere anch’essa pericolosa (voglio ricordare che abbiamo ripreso un tentativo fatto nel 1997 da Ermanno Salvaterra con Cavallaro).

Da qui avremmo dovuto seguire la via degli italiani De-Donà–Giongo oppure la  Huber-Schnarf.

La Ovest della Egger è una parete a mio avviso molto difficile da fare in stile alpino; è una parete molto pericolosa per le continue scariche di neve e ghiaccio che cadono dal colle e dalla parte centrale della via.

Berna sotto alla Nord-est del Pizzo Badile in inverno. Foto: Riky Felderer.

Dalla lunghezza 13 alla L19 la via è quasi sempre soggetta a scariche.

La parete inoltre con il brutto tempo si sporca sempre di neve. Stare in parete in quelle condizioni è estremamente pericoloso, se non mortale; per poter salire in parete a seguito di un periodo di malo tiempo ci vuole sempre un giorno di bello perché si pulisca dal grosso della neve e perché si riducano così i pericoli oggettivi. Noi abbiamo imparato a conoscerla.

Quando arrampichi devi “convivere” con il ghiaccio che cade dalla parete e sulla via (ghiaccio continuo grande al massimo come palline da ping-pong).

Da L13 a L17 si può scalare solo di notte o al mattino molto presto (la via sale all’interno di un grande toboga di roccia che si intasa di neve e ghiaccio); al pomeriggio la via è sotto le scariche che cadono dal colle.

Da L19 a L21 la via è sicura. L22 e L23 dipendono dalle condizioni che si possono trovare, dalle macchie di neve che potrebbero cadere.

È una parete complessa e sicuramente molto difficile da trovare in condizioni ambientali e di meteo per essere salita in stile alpino. Aprirla forse ancora di più.

Berna sale Agony (8a+) e Impact (8b) alla Grotta di Mezzegra, giugno 2010

La nostra salita è stata fatta con l’uso di corde fisse e di bivacchi in parete. Abbiamo piantato due spit a mano in totale, uno alla sosta di L18 e uno di progressione su L18.

L19 è una lunghezza con roccia di cattiva qualità, insomma “marcia”, è un tiro pericoloso, in apertura una parte del tiro che avevo appena scalato è crollato tranciandomi una corda.

L14 e L15 sono due tiri molto difficili da trovare “asciutti” per l‘arrampicata libera, ghiaccio e neve intasano sempre le fessure. L20 e L21 sono superbe cracks in Yosemite style.

Durante l’avvicinamento alla parete siamo finiti due volte in un crepaccio. La caduta entrambe le volte si è arrestata grazie al saccone da big-wall che ci portavamo sulle spalle. Thanks God haul bags!

Il 25 dicembre siamo stati costretti a stare tutto il pomeriggio/sera sotto un tetto di roccia per ripararci dalle enormi scariche che cadevano dalla parete, quel giorno era molto sporca.

In parete puoi “muoverti” solo in certi orari; ogni sezione di parete veniva quindi affrontata in base a questi criteri diciamo “temporali”.

Il 26 dicembre, al mattino molto presto, ancora un po’ assonnato, scalando ho ricevuto la sveglia da una caduta di 8 metri che viene fermata da un buon friend qualche metro sotto di me.

Purtroppo solo 23 tiri di corda, il nostro tentativo viene interrotto non dal brutto tempo come è facile immaginare, ma dal mancato funzionamento del pianta spit.

In parete abbiamo recuperato il materiale abbandonato durante il primo tentativo 2010-2011, i sacconi sono stati riorganizzati e il pianta spit con gli spit erano quelli dell’anno 2010-2011.

La parete est del Cerro Murallón, El Valor del Miedo. Febbraio 2017.

Le soste fino ad allora, a parte una, sono state costruite con chiodi e nut, ma su L23 probabilmente uno spit di sosta ci voleva e, dopo l’”incidente” del 21 gennaio, senza uno spit di sosta non ce la siamo più sentita di andare avanti.

Il fantomatico “incidente” ci ha messo a dura prova. Teo parte per il tiro, il chiodo a lama corto che aveva precedentemente caricato al nuovo carico esce, il friend 0,5 per il forte strappo esce, Teo si trova 3 m sotto di me, io sputo sangue dalla bocca, cadendo Teo mi ha fatto perdere la telecamera da casco e sbattere violentemente la bocca su un fittone da ghiaccio che si trovava all’interno del saccone, ma fortunatamente lo 0,3 camalot regge il colpo e non ci fa cadere dalla parete, siamo appesi su quel che resta della sosta sopra un tetto di 5 metri, a soli 20 m dal colle.

Rimaniamo appesi in due nel vuoto su un unico friend. Lo 0,3 è diventato il nostro idolo da allora! Ma Teo preferisce ancora il C3 rosso…

Volevamo fare una sosta sicura come tutte le altre che avevamo fatto fino ad allora. Il pianta spit si è inchiodato, non riusciamo ad utilizzarlo, il bussolotto è completamente rovinato e ossidato al dado, non riusciamo a piantare spit; cerchiamo diverse soluzioni ma non ci resta altro che bivaccare e prendere la decisione di scendere.

Posso dire di avere vissuto proprio quello che cercavo, anche se in alcuni momenti sapevamo che stavamo spingendo sull’acceleratore.

Esperienze che sono solo mie, che mi hanno dato tanto come alpinista e come persona. Non è mia intenzione dipingermi né come un eroe né come un’incosciente. Semplicemente ho raccontato i fatti; per me solo tantissimi ricordi ed esperienze che mi porto nel cuore.

Sulla parete est del Cerro Murallón, El Valor del Miedo. Febbraio 2017.

Sono orgoglioso e felicissimo di quello che abbiamo fatto io e Teo; poi ognuno potrà pensarla come vuole, trarre le proprie conclusioni, io so solo che posso ringraziare la Torre Egger per avermi regalato cosi tante emozioni e che sa benissimo che è soltanto un arrivederci al prossimo anno.

Noi eravamo solo in due, molte volte pensavo che un incidente se pur banale sarebbe potuto diventare un grosso problema.

Spesso ci siamo trovati in situazioni difficili da valutare e da risolvere, ma forse è questo il bello dell’alpinismo, del vivere la montagna in due come abbiamo fatto noi in un ambiente difficile come questo.

Il fatto di essere in due è stimolante perché sai che non puoi fare affidamento su nessun altro ma solo su te stesso e sul tuo compagno d’avventura.

L’isolamento della Ovest della Egger, i giorni interi vissuti al Circo de los Altares, sotto al Filo Rosso, o in parete, nel bello e nel brutto tempo, le ritirate dalla parete sotto la bufera o la pioggia, i tramonti, l’alba sullo Hielo Continental, le stelle, la luna piena che illumina a giorno le pareti, i momenti di felicità nel salire sulla Egger, e perché no anche le varie discussioni che ci sono state fra di noi, i bivacchi in parete, sono troppi i momenti indimenticabili che ho potuto vivere grazie alla mia passione e con il mio amico.

L’alpinismo fortunatamente non è fatto solo di numeri ma soprattutto di esperienze e persone.

Matteo Della Bordella, Berna e David Bacci in vetta al Cerro Murallón, dopo la salita di El Valor del Miedo. 5 febbraio 2017.

La Ovest della Egger la voglio, la vogliamo salire, ma credo anche che “la vita sia qualcosa di molto prezioso, che non va trattata stupidamente”.

La Patagonia mi ha fatto conoscere nuovi amici, sono molto felice di aver conosciuto i ragazzi del bar dei porter, con le loro birre, cene, fieste, falesia, boulder, insomma amici con cui passare le lunghe giornate di malo tiempo a El Chaltén.

Anche tanti errori sono stati fatti, dagli errori si impara molto, ma l’insegnamento più importante me l’ha dato un caro amico… ma questo è un nostro segreto e tale rimarrà!

La Patagonia ci ha regalato la cumbre della Aguja Innominata per la Via Anglo-Americana, salita il 18 dicembre 2011 e questo tentativo alla Egger. Un regalo che non ci saremmo mai aspettati. Buona Montagna.

In discesa dal Cerro Murallón. Febbraio 2017.

Aguja Standhardt – Festerville
di Matteo Bernasconi
(pubblicato su ragnilecco.com il 28 gennaio 2013)

Per il 24 e il 25 gennaio 2013 la meteo preannuncia una breve finestra di bel tempo, cosi decidiamo di salire l’Aguja Standhardt per la via Festerville.

Il nostro progetto alla Torre Egger è solo rimandato ad una finestra di bel tempo più lunga; i “soli” due giorni a nostra disposizione non sarebbero sufficienti per “terminare” la salita sulla parete ovest della Torre Egger.

Il 24 gennaio alle 3.30 partiamo dal Niponino e con un lungo avvicinamento raggiungiamo il Colle Standhardt; intorno alle 18.00 troviamo un buon posto da bivacco lungo la parete e decidiamo di fermarci per la notte. Il 25 gennaio alle 14.30 circa raggiungiamo la cima di questa bellissima montagna.

Scendiamo per Exocet, nel “canale” c’è pochissimo ghiaccio, ma numerosi blocchi di roccia instabile e le alte temperature creano un vero e proprio fiume d’acqua; risultato siamo completamente bagnati. Dopo le prime doppie abbastanza “danger” alle 22.00 siamo alla tenda. Felicissimi di questa salita ora aspettiamo il bel tempo per dirigerci alla Torre Egger…

Torre Egger, terzo tentativo, 2013
di Matteo Bernasconi
(pubblicato su ragnilecco.com il 10 febbraio 2013)

Martedì 5 febbraio 2013
Meteo del 5 febbraio: precipitazioni dalle ore 15.00 e vento forte nel tardo pomeriggio, dalle 18.00 circa.

Decidiamo di entrare al Circo de los Altares; riposare mercoledì 6 (avrebbe fatto ancora brutto tempo con vento forte); mentre giovedì, venerdì e sabato tentare la Torre Egger: nonostante la pressione fosse bassa la meteo prevedeva tempo stabile.

Ore 5.30 partiamo dal ponte del Rio Eléctrico in direzione del Passo Marconi per poi raggiungere il Circo de los Altares nel primo pomeriggio.

Ore 9.00, piove sempre di più e soffia un vento forte, siamo a circa due ore e mezza dal Passo Marconi.

Intorno alle ore 12.00 superiamo il passo, sullo Hielo Continental è bufera. Alle 15.30 circa siamo al Circo: è da circa 12 ore che siamo sotto l’acqua e il vento. Ci troviamo quasi in prossimità del Filo Rosso quando il vento e la bufera aumentano rendendoci le “cose” ancora più difficili.

Il tempo è veramente pessimo, siamo completamente bagnati e a fatica riusciamo a guardarci in faccia per la neve soffiata dal vento; cerchiamo di montare la tenda ma non ci riusciamo.

Abbandoniamo tutto il superfluo e torniamo indietro alla ricerca di un posto più riparato. Sulla morena del Circo le raffiche del vento sono meno violente e riusciamo a montarla, la tenda è completamente bagnata, come i nostri vestiti, fortunatamente il saccopiuma e il ricambio sono asciutti.

Mangiamo un boccone e ci addormentiamo. Dopo un’ora ci sveglia il vento sempre più violento, la tenda continua a piegarsi su se stessa, su ogni lato e la pioggia non da un attimo di tregua.

Esco per rinforzare il telo della tenda, ma non basta, ci sistemiamo ognuno su di un lato e passiamo la notte a “tenerla” e a guardarci in faccia sperando che non ci abbandoni proprio ora.

Mercoledì 6 febbraio
Il vento cala, riusciamo a chiudere occhio e a riposare, quando ci svegliamo il tempo è bello e il vento è notevolmente calato.

La tenda è in pessime condizioni, il telo in qualche punto è strappato e i pali non hanno retto, sono tutti rotti. Facciamo asciugare i vestiti e facciamo un aggiornamento meteo dal nostro amico Deza.

La meteo è di nuovo cambiata e con la tenda in queste condizioni non ci resta altro che tornare. Ore 20.00 circa: partiamo dal Circo de los Altares per tornare in paese.
All’una di notte siamo sulle rocce sotto al Passo Marconi, decidiamo di bivaccare per riposare qualche ora e aspettare la luce per terminare il rientro a El Chaltén.

Giovedì 7 febbraio
Nel primo pomeriggio siamo di nuovo in paese. Non è stato un vero e proprio tentativo, speravamo semplicemente nel bel tempo… non ci resta altro che… die another day

Naufragio sulla Nord-est
di Matteo Bernasconi
(pubblicato su ragnilecco.com il 16 giugno 2014)

L’obiettivo era di provare a salire il Pizzo Badile 3308 m per la parete nord-est in piolet-traction, che non è nient’ altro che l’obiettivo di molti alpinisti della “zona”, ma, come ogni volta che entro per provare a salire questa parete in inverno, vengo rimbalzato a dovere. Chi conosce questa valle d’inverno, sa che non ci sono “mai” le condizioni perché la parete possa essere salita in piolet; o meglio, tra tutti quelli che conosco, nessuno ci è ancora riuscito.

Ci tengo a ricordare che d’inverno la parete è già stata salita, mi vengono in mente i fratelli Rusconi, piuttosto che le salite di Rossano Libera… In piolet piacerebbe a molti, me compreso. Ormai ho perso il conto di quante volte sono entrato in questa valle, con l’ambizione di salire questa parete, che ormai conosco molto bene. La mia prima esperienza risale al 2002 quando insieme a un amico decidiamo di salire lo spigolo nord del Pizzo Badile in inverno, per il mio compleanno, che cade nel mese di gennaio (avevo 20 anni), per quattro giorni di scalata; abbiamo vissuto una bellissima avventura. Nel 2005 provo a ripetere la Via del Fratello, in quell’occasione ho trovato delle condizioni super, che purtroppo non ho più ritrovato; non sono ancora riuscito a spiegarmi il perché di quelle condizioni… Purtroppo durante la notte inizia a nevicare e decidiamo di scendere; nel 2008 Fabio Valseschini compie la prima solitaria invernale. Per quanto riguarda il nostro ultimo tentativo non mi resta altro che ripetere quanto detto dal mio amico Riky Felderer: “Alpinisti eroici ribattuti dalla montagna. Arditi se ne andavano al bar a dimenticare gli insuccessi”.

La parete nord della Tour Ronde
di Matteo Bernasconi
(pubblicato su ragnilecco.com il 16 giugno 2014)

La Tour Ronde 3792 m… l’obiettivo è di salire una parete nord. Decidiamo di salire questa bella montagna, la Tour Ronde, nel gruppo del Monte Bianco; per i miei due amici è la prima esperienza su una parete nord, per me è la prima volta su questa montagna. Saliamo lungo la via classica della parete nord (Alexis Berthod e Francesco Gonella, 1886); le condizioni della parete sono buone, nonostante le temperature alte. La terminale si supera facilmente sulla destra, il primo pendio è su neve tracciata.

La parte centrale della via è su ghiaccio (due lunghezze). La prima di 60 m per superare la prima goulotte; la seconda, sempre su ghiaccio segue un’altra goulotte sulla sinistra, circa 50 m. Volendo si può entrare sul pendio finale dopo la prima goulotte, sulla destra. Il pendio finale è su neve. In discesa seguiamo la cresta sud-est che ti porta in prossimità del Col d’Entrèves, più sicuro, in base alle condizioni, della via normale alla Tour Ronde.

Siula Grande: tentativo via nuova sulla parete est
di Matteo Bernasconi
(pubblicato su ragnilecco.com il 13 ottobre 2017)

Ecco qua un breve racconto del mio ultimo viaggio in Sud America. Può darsi che qualcuno si stia chiedendo perché “ultimo viaggio”? Perché solo pochi mesi prima mi ero già trovato in Sud America, più a sud, in Patagonia a vivere una delle mie più belle avventure in questa terra: il Cerro Murallón.

Per chi non lo sapesse, Teo (Matteo Della Bordella) è sempre a caccia di nuove sfide: un alpinista insaziabile di grandi avventure.

Un giorno, parlando del più e del meno, gli chiedo cosa avrebbe fatto durante l’estate: risponde che gli sarebbe piaciuto andare in Perù, al Siula Grande, una montagna di 6344 m nella Cordigliera Huayhuash e in particolare avrebbe voluto provare ad aprire una via nuova sulla parete est, la quale finora conta solo una via da parte di un team di alpinisti francesi.

Berna

Anche se entusiasta dell’idea non riesco subito a dirgli “Sì, ci sono!” visto che il viaggio sarebbe stato nel periodo estivo – partenza alla fine di luglio con rientro i primi di settembre: 40 giorni di spedizione, che avrebbero impegnato gran parte del mio periodo lavorativo come guida alpina.

Cosa fare, cosa non fare… Forte anche del sostegno della mia compagna, che diventerà mamma tra pochi mesi, decido di andare e di vivere al meglio questa nuova esperienza, proprio come piace a me: una bella avventura tra le montagne assieme ad amici.

Berna

Teo ed io decidiamo di partire, ma manca ancora una terza persona: visto l’impegno della salita e delle difficoltà ambientali decidiamo, infatti, di andare in tre, un buon numero per aiutarci in caso di bisogno.
Si aggrega così Tito Arosio, giovane e forte alpinista svizzero, che alle spalle ha già un’esperienza in Perù e non solo.

Iniziano quindi i classici incontri per organizzare logistica e materiali… Una volta pronti, il 25 luglio, partiamo per il Perù.

Arrivati a Lima prendiamo subito l’autobus che ci porta al paese di Huaraz: qui passiamo quattro giorni a casa di Vladimiro, la nostra “agenzia di viaggio”, e ci organizziamo per i successivi 30 giorni di campo base.

Facciamo la conoscenza anche di Pio Pollo, l’amabile cuoco che starà con noi per tutta la durata della spedizione.

Con un pulmino raggiungiamo poi il paese di Queropalca 3831 m, punto di partenza per il trekking di avvicinamento alla montagna.

Il giorno successivo, mentre tutto il materiale viene trasportato dai muli, in circa sei ore di cammino raggiungiamo il campo base, posto a metà della Laguna Siula, a circa 4300 m di quota (un’ora e mezza di cammino dopo la Laguna Caruahocha 4138 m).

Optiamo subito per un giro di perlustrazione e trascorriamo la giornata a camminare sulle montagne di fronte all’immensa parete est del Siula Grande. Raggiungendo quota 5100 m circa, la fatica e un po’ di malessere si fanno subito sentire, ma soprattutto ci rendiamo conto dell’impegno della salita. Con il binocolo riusciamo a individuare un’ipotetica linea…

Trascorriamo i giorni successivi trasportando il materiale alla base della parete, e attrezzando lo zoccolo. In più riprese riusciamo a portare tutto il materiale a quota 5200 m circa, sopra lo zoccolo, dopo aver superato 400 m di roccia e un seracco, sul ghiacciaio sotto la parete est.

Felici del lavoro fatto, ci attende un’amara sorpresa: il ghiacciaio è in cattive condizioni e pericoloso da percorrere, ma soprattutto l’immensa parete ci appare come i grandi muri del Wenden o del Rätikon. Pensare di salire senza l’uso del trapano a batteria è veramente difficile, con l’aggiunta della quota…

“Cosa facciamo?”. Decidiamo di provare a passare per il pendio che ci avrebbe portato in prossimità della cresta per poi raggiungere la cima seguendo questo percorso.

In bivacco su Il Dado è tratto, Aguja Standhardt, febbraio 2020.

Scendiamo quindi al campo base a riposare un po’, per poi tentare la cima in stile alpino. È il 5 agosto, il tempo è sempre bello, mai una nuvola!

Dedichiamo i quattro giorni successivi al riposo, due dei quali al paese di Queropalca, e il 10 agosto rientriamo al campo base. Questa volta decidiamo di farlo a cavallo: bellissima esperienza, ma che mal di c…o per i due giorni successivi!!!

Il Dado è tratto, Aguja Standhardt, febbraio 2020.

L’11 agosto lasciamo il campo base per raggiungere la tenda a quota 5200 m, per poi continuare in stile alpino verso la cima nei giorni successivi.

È il 12 agosto, quando a poche ore dalla sveglia, siamo costretti a ritirarci: il pendio che pensavamo di percorrere risulta impraticabile, così come la cresta nevosa: è la prima volta che mi trovo davanti a una neve così asciutta e inconsistente, anche su inclinazioni moderate.

A malincuore, decidiamo di scendere e riportare giù tutto il materiale, con l’ipotesi di un nuovo progetto.

Berna in apertura di Il Dado è tratto, Aguja Standhardt, febbraio 2020.

Intanto però il tempo si è guastato: sulle montagne e al campo base il clima non è più così bello come i giorni precedenti.

Decidiamo allora di provare ad aprire una via nuova sul “pilastro dei francesi”, in stile alpino.

Le previsioni meteo continuano a non essere delle migliori, ma ripetiamo a noi stessi che abbiamo ancora un sacco di tempo, così, riportiamo parte del materiale sul ghiacciaio alla base del pilastro per poi tentare la salita in cinque giorni.

Rimaniamo al campo base a riposare, ma del “bel tempo” neanche l’ombra… anzi! A volte la pioggia ci sorprende, anche solo per poche ore.

Ecco che si apre una piccola finestra di due giorni! Dal terzo giorno, purtroppo, il meteo dà ancora brutto, ma decidiamo di partire ugualmente.

Matteo Pasquetto assicurato da Berna in apertura di Il Dado è tratto, Aguja Standhardt, febbraio 2020.

Il sole splende, ci muoviamo presto, raggiungiamo il materiale lasciato precedentemente alla base del ghiacciaio e continuiamo…

Per raggiungere la base della parete siamo costretti a passare sotto una zona di grandi seracchi, non senza spaventi e di corsa proseguiamo: Teo prende in mano la cordata e con tre tiri di corda raggiungiamo un bel posto dove bivaccare.

Il giorno successivo inizio io ad arrampicare: trovare una linea logica dove fare le soste non sarà facile, ma riusciamo ad alzarci abbastanza velocemente.

Berna, Matteo Pasquetto e Matteo Della Bordella in vetta all’Aguja Standhardt dopo l’apertura di Il Dado è tratto, febbraio 2020.

Io e Teo ci diamo il cambio mentre Tito ci segue con il saccone: ci troviamo di fronte a un tiro di ghiaccio di 60 m, riesco a salirlo fino a quando incrociamo la via dei francesi.

Ci ritroviamo così su una grande cengia, Teo e Tito continuano e fissano le corde mentre io preparo la piazzola per la tenda dove passeremo la notte. In tarda serata inizia a nevicare.

Il giorno successivo il tempo è brutto, non si vede nulla, ci sono circa 20 cm di neve fresca sulla parete, le previsioni mettono brutto per i giorni successivi…

Con grande rammarico decidiamo di scendere: attrezziamo le doppie di discesa, la notte e i giorni successivi è ancora più brutto del previsto, piove infatti anche al campo base.

Luca Passini, Fabio Palma, Simone Pedeferri, Matteo Della Bordella e Berna.

Con il telefono satellitare ci facciamo dare le previsioni meteo: purtroppo non dicono nulla di buono, “alta pressione forse dal 30/31 agosto”… Il 5 settembre avremmo avuto il volo di rientro per l’Italia. Non resta altro da fare: questa volta si torna a casa.

Che dire? Coloro i quali frequentano la montagna sanno benissimo che il meteo e le condizioni fanno da padrone, tuttavia il rammarico per non essere riusciti a fare un tentativo vero e proprio alla montagna è tanto e ce lo portiamo dentro. Insomma, il fallimento, se così vogliamo chiamarlo, ci sta: la montagna è anche questa.

Sarebbe sicuramente stato meglio non farcela per altri motivi: difficoltà tecniche, fatica o anche solo per condizioni… Come si suol dire “non tutte le ciambelle escono con il buco”.

Comunque sia andata, è stata una grande esperienza, dove ho imparato un po’ di cose sulla quota e sicuramente il Perù è una bellissima terra, un luogo in cui tornare.

Salendo alla base della Via del Quarantesimo dei Ragni di Lecco all’Aguja Poincenot, parete nord.

La via dei Ragni al Cerro Torre
di Fabio Salini

La prima volta che incontro il Berna è in Valle (fra di noi quella del Masino si scrive da sempre con la “V” maiuscola). Il giovane Berna fa parte dei comaschi, di lui mi colpiscono subito i capelli inconfondibili, la schiena poderosa e quel suo stile un po’ speciale… Diventare amico del Berna è facile. Quattro chiacchiere, due tiri al Remenno, niente menate, argomenti soliti, qualche birra e parecchio feeling.

Dopo qualche anno lui decide di frequentare i corsi guida e io sono uno dei suoi istruttori, così nel percorso formativo ci conosciamo meglio. Scopro un altro Berna, meno scanzonato, molto determinato, forte a scalare, con un ottimo fiuto alpinistico per gli itinerari complicati e con una profonda curiosità per gli aspetti tecnici.

Berna e Matteo Pasquetto durante la prima in libera della Via del Quarantesimo dei Ragni di Lecco all’Aguja Poincenot, parete nord.

Una sera d’estate ci troviamo casualmente a Chamonix bevendo birra, ascoltando musica dal vivo e fantasticando su qualche bella salita possibile. Ci diciamo quanto sarebbe figo partire insieme per un progettone, così dice il Berna. Gli confido il mio sogno, il Cerro Torre dalla parete ovest ed è fatta, siamo già in viaggio… Dopo pochi mesi da quella serata partiamo, è il 2010. La Cara Oeste del Cerro Torre è ambiziosa per due amici che senza ritegno dichiarano venti giorni di tempo per una salita che non ha mai avuto ripetizioni tra i più forti alpinisti italiani che ci provano invano dopo l’apertura dei Ragni di Lecco nel 1974.

Berna durante la prima in libera della Via del Quarantesimo dei Ragni di Lecco all’Aguja Poincenot, parete nord.

In aereo all’andata ridiamo per ogni cosa, un viaggio divertentissimo. Siamo euforici e con la mente siamo già in cima al Torre. Ce lo sentiamo in tasca, ma per davvero! Ancora oggi non ho capito perché, ma è così. Siamo talmente spudorati da dichiarare che se noi due non saliamo sul Torre dobbiamo piantarla con alpinismo e menate varie. Eppure nessuno dei nostri amici scommette un centesimo sulla nostra riuscita. Tutti i BIG in Patagonia ci restano almeno tre mesi, come possiamo pensare di riuscire noi in una salita così ambita e in così poco tempo… La mia prima e la sua terza volta in Patagonia. Io il vecchio, lui il giovane. Lui fuma mille sigarette e cammina come un treno, io ancora oggi se provo un tiro di sigaretta tossisco per mezz’ora.

Alla base dell’ultima lunghezza, prima della vetta, ci chiediamo se siamo già nei pressi della cima. Nemmeno sappiamo quale sia la quota di vetta e neppure siamo certi che quello davanti a noi sia il fungo sommitale, eppure gli somiglia. Quanto ridiamo per questa cosa, ci prendiamo in giro in continuazione… siamo alpinisti di ‘sta minchia diciamo, e giù a ridere.

Dalla Via del Quarantesimo dei Ragni di Lecco, alba sul gruppo del Cerro Torre.

La nostra salita, le doppie che scorrono veloci dalla cima alla base, il rientro in giornata a El Chaltén dal Filo Rosso attraverso lo Hielo Patagonico Sur valicando il Passo Marconi.

Sono stati momenti di intesa e perfezione che raramente ho raggiunto con altri compagni di viaggio. La nostra non è stata una conquista, ma come direbbe il Berna è stata una FIGATA! Molti ci dissero che fummo stati fortunati, noi stavamo al gioco, ma sapevamo che la fortuna accade quando l’occasione incontra la preparazione… e nulla accade per caso.

Matteo Della Bordella, Matteo Pasquetto e Matteo Bernasconi in vetta all’Aguja_Poincenot, dopo la ripetizione della via del Quarantesimo dei Ragni di Lecco.

Dopo l’incidente al Berna ho scritto a Marta, la sua compagna, le ho detto che se l’amicizia si misura in ore di frequentazione ecco allora io non sono stato un grande amico del Berna. Se invece si misura per intensità di momenti condivisi, beh in questo caso mi considero fra i suoi più cari amici… lui per me lo è stato.

Con il Berna avevamo ancora un progetto insieme, non un progettone questa volta, ma qualcosa che avremmo voluto condividere. Una cosa semplice e meravigliosa, incrociare per una volta i nostri sci da telemark, specialità in cui Berna si era avvicinato da poco… ce lo eravamo promessi, ma non è stato possibile.
Ciao Berna, resterai fra i miei ricordi migliori.

Per Berna 3
di Fabio Palma

Era il 5 luglio 2010 e non c’era ancora stata la Egger e in realtà non c’era ancora stato praticamente nulla. Io e Teo (Della Bordella, NdR) eravamo una cordata affiatatissima e passavamo insieme uno sproposito di giorni all’anno ma di lì a poco lui avrebbe iniziato una carriera internazionale e io progressivamente avrei scemato la mia ossessione di scalare.
Chi avrebbe immaginato che con Luca ci saremmo telefonati anche per due ore e che Teo e il Berna avrebbero passato giorni interminabili in una truna?

Chi avrebbe immaginato che in dieci anni sarebbero successe tutte quelle indimenticabili cose che sono accadute, le spedizioni, il Teo che diventa quello che è diventato, io che alleno e per giunta anche la figlia di Luca, e poi il Berna che come al solito di fronte ad una macchina fotografica o una telecamera “ufficiale” non sorride, e meno male che ne abbiamo 2000 di foto del Berna che sorride.

Qui però siamo insieme, sono andato a rovistare tra gli hard disk stanotte, stamattina Yuri mi fa, io col Berna ci ho passato due ore al Pirellone e ridevo anche due giorni dopo, poi ieri uno di Napoli che partecipò al team building sul ghiacciaio del Bianco, e fa già ridere un napoletano sul ghiacciaio del Bianco, ha scritto, “io il Berna non me lo dimenticherò mai e ci ho passato insieme un solo giorno“, credo che una telecamera nascosta che avesse seguito il Berna con un ricco libero professionista napoletano sul ghiacciaio del Bianco avrebbe creato una serie di 10 puntate con crampi allo stomaco dal ridere.

Ieri c’è stato il funerale, non siamo potuti andare, tutto il giorno ci ho pensato, non oso immaginare la folla che ci sarebbe stata, una cosa che non sarebbe bastato il Duomo di Milano e il sagrato, le persone buone sono così, io avevo una zia bergamasca emigrata a Nola (fa già ridere così), una vera e propria terrona bergamasca, Gloria, una che mi raccontava quello che facevo da piccolo e ogni volta ne usciva una nuova, mia zia Gloria era il Berna versione donna, è morta di tumore e dovete sapere che la chiesa di Nola è davvero gigantesca, ecco, c’era tanta ma tanta di quella gente, migliaia e migliaia di persone, anche fuori sulla piazza, una cosa da capo di stato, che certi influencer odierni avrebbero guardato stupiti, ecco, le persone buone e col sorriso perenne sono così, quando improvvisamente se ne vanno ci accorgiamo a decine e decine di migliaia di quanto quel sorriso fosse FONDAMENTALE per vivere, anche se la incrociavi una volta a trimestre. Berna una volta ci telefonò alla sua prima Go Pro, voleva informazioni per impostarla, gli passai Yuri e credo fossero 4 anni fa ormai, e sentivo Yuri che rideva come ad uno spettacolo di Ale e Franz, saranno stati al telefono un’ora, alla fine Yuri mi fa, dobbiamo fare un film con Berna, dargli in mano qualcosa che gli serve ma non sa usare e filmarlo mentre impara, senza montaggio, diventa CULT, siamo investiti dai ricordi in questi giorni, guardiamo queste cazzo di foto in cui lui ride SEMPRE e atterrito mi sono ricordato di una cosa che pensai ai tempi di Villeneuve, certi volti non riesci a pensarli vecchi.  

Per Berna 4
di Fabio Palma

Una volta io, Berna e Kurt (Alberto Marazzi, NdR) siamo andati all’Anciesieu, io ero infoiatossimo perché c’era da ripetere una via del Rolandone nazionale, Larcher. Era maggio 2006 direi: Teo forse non era ancora tornato dagli USA, dove era diventato ciccione… Boh, dovrei andare a controllare ma lasciatemi scrivere di getto.

L’Anciesieu era una parete praticamente nascosta vicina al Gran Paradiso, ci si arrivava tramite un canale in cui passavi dentro a un torrente, ripido e scivoloso, Berna era chiaramente il giovine anzi molto giovine ma per nulla a disagio con me e Kurt, in macchina sulle curve avevamo sbandato a ogni sua uscita e si era lamentato tantissimo della notte umida, un lamento da Ale e Franz, fatto sta che anche nel canyon diceva che merda che merda che merda, in effetti ci bagnammo tutti e c’era pure magari da stare attenti ma io ero appunto tutto infoiato per la via e correvo (facevo il Teo della situazione), Kurt se la ghignava.

Arriviamo alla partenza della via, Berna fuma (penso la terza in mezzora , si era portato una stecca) e poi fa: “parto io”. La via è di granito anche se molto diverso da quello della Val Masino, in pratica scalata su calcare con ogni tanto rare ma proprio rare fessure che forse su quella via manco c’erano.

Berna parte ma è concentrato come me quando ascoltavo latino a scuola, comincia a dire parolacce, Kurt se la ride tantissimo prendendolo in giro e io rimango stupito perché per me fare una via di Larcher, perbacco, era una cosa seria, ma vi giuro non si poteva stare seri. Comunque ci tira su, si accende una sigaretta e fa: “io vengo da secondo” e giù una parolaccia, sempre ridendo, non era stato serio un minuto. Per dir la verità tentò anche di convincermi ad andare a bere una birra… Sembrava una festa.

Proseguiamo e di fatto poi ci fu un tiro mi pare di 7b o 7b+ che era tutto muschiato, la via era stata aggredita dal muschio, il tiro era bellissimo ma ricoperto di muschio. Lotto come un disperato e proprio verso la fine mi scivola un piede sul tappeto e Berna ride come un matto e pure Kurt e rido anch’io perché era impossibile rimanere seri, io che quella via la puntavo da giorni e anche settimane, volevo ripetere a vista una via del grande Rolly, per me salire a vista quella via era un fiore all’occhiello ma Berna mi smontò con le battute qualunque rimpianto.

Il ritorno fu semialcolico: devo dire che di solito sono io quello che in falesia fa casino… ma il Berna mi superava.
Poi lo vidi allenarsi ripetendo 15 volte consecutive un 8a a Scarenna, ripetere un numero incalcolabile di cascate di ghiaccio, crescere tantissimo in tutto, sempre però, indimenticabile, davanti ad una birra.
Vi ho già detto della via al Wenden, poi basta vie, ci vedevamo in falesia, lui e Bunker mi facevano ridere solo a vederli dal parcheggio.
Si informò su come aprivamo le vie e sul discorso di ripeterle col Cinch o col Gri gri con una singola e la mezza di recupero sacco e mi fece un sacco di osservazioni tecniche, si congratulò per quell’ innovazione, ma io capii da quella discussione che lui a casa si studiava tecniche varie a fondo, molto a fondo.

Mi raccontarono di una via in alta val Masino dove ne disse di ogni su un tiro spalmatissimo di Gervasutti dove lui con le scarpe approach dovette lottare per evitare un volo enorme, e giù ad osservare quanto fosse pazzesco il Fortissimo con le babbucce dell’epoca.

Berna divenne un grandissimo alpinista e poi una guida alpina ricercatissima perché a fine giornata era come Zelig, ma sulle vie con il cliente era scrupoloso attento e preciso come un tedesco.
Rimasi colpito SEMPRE di come sapesse analizzare le imprese internazionali, quelle di Lama, House, Favresse, Honnold, Caldwell, ecc. Io fino a qualche tempo fa divoravo le notizie e i dettagli ma lui aveva una capacità di analisi superiore a tutti noi. Capiva trucchi e strategie altrui come davanti a un problema di logica matematica, e siccome era il campo in cui mi ero dilettato rimasi sempre stupito di come fosse brillante a ragionare sulle notizie. Era un cervellone in alpinismo. Un QI altissimo.
Mi rimane il suo ultimo messaggio, due giorni prima, su questo periodo. E quello di tre giorni prima su una mia atleta. E mi rimane quella cosa comune a tutti, si arrivava a Urban Wall, lo vedevi, e ridevi. Berna ti migliorava la giornata. Ci ho passato insieme 1/1000 del tempo di altri e ho questo vuoto assurdo.

Qualche mese fa superammo un allontanamento io e uno dei migliori amici della mia vita e lui mi scrisse su whatsapp che bello vedervi insieme.
Non so se renda questa cosa. Lui che morire se ti rispondeva subito di cose varie mi aveva scritto questo su un’amicizia che in fondo non gli apparteneva.

E invece sì, perché entrambi per lui eravamo importanti, ora capisco quanto lo fossimo per lui per fargli scrivere quella cosa.
Quando una persona buona e serena e che ti migliorava la giornata se ne va capisci che perdi qualcosa che non trovi a nessun prezzo. Non ci compri nulla che valga un Berna, non so se mi spiego.

Aveva trovato un chiodo
di Fabio Palma
(pubblicato su facebook il 14 maggio, ore 08.05)

Avevo organizzato un team building, si chiamano così. C’erano professionisti della finanza, e io e i ragazzi che avevo scelto, guide alpine, appartenevamo a un altro mondo, economicamente e socialmente. Mi aveva dato una grossa mano organizzativa Luca Moroni, poi c’era Matteo Pasquetto e il Berna, il quale si era infilato in macchina esordendo con una miriade di buffonate, a registrare dieci minuti ci sarebbe stato da mettere le mani nei capelli.
A Courmayeur incontrammo Ale Penco, che era diventato un manager, insieme col Berna avevano salito insieme la Nord dell’Eiger per la celebre via normale molti anni prima, e praticamente subito dopo Ale aveva smesso con l’alpinismo.

Berna no, Berna era in rampa di lancio, prima il Cerro Torre, antipasto di scelte alpinistiche da tre stelle Michelin.
Prima di andare avanti con il ricordo, vorrei dire quanto sia paradossale che ieri abbiano cercato me e Teo in almeno dieci giornali e Tv mainstream, quando invece morire se si degnavano di trafiletti a certe salite che faceva.
Una volta lo dissi a una tavolata, Berna se scali nudo sul Medale sei in prima pagina, mica con la Egger o con il Murallón. E naturalmente con una tragedia, anche. Altrimenti devi raccontare cose enormi di cose piccole.
E Berna non ne era proprio capace, come Teo e Luchino ridimensionava piuttosto che ingrandire o anche solo sottolineare.

Comunque arriviamo sotto il Bianco e le persone da accompagnare sul ghiacciaio sono una settantina, a gruppi piccoli. Io faccio una conferenza, parlo dei ragazzi appunto, parlo della Egger, l’alpinismo. Sono bravo in queste cose come lo è Teo, siamo portati a parlare su un palco alla gente e spiegare la psicologia dello sport e l’alpinismo come espressione altissima di una pianificazione. Quando andarono sulla Egger, il primo anno fecero degli ovvi errori di strategia, poi furono sempre più acuti e sottili, anni dopo al Murallón fu un capolavoro.

Berna era ammiratore incondizionato dei migliori al mondo ed era il più tecnico a discorrere su sfumature e dettagli, ma mai con un microfono in mano o una telecamera davanti.
Andarono sul ghiacciaio, furono tutti bravissimi, professionali e simpaticissimi, i professionisti da dubbiosi timorosi e qualcuno pure prevenuto tornarono così entusiasti da davvero chiedere autografi.
E la sera alla cena Berna fu praticamente una star del cinema, lo attorniavano manco fosse Brad Pitt, lui raccontava e rispondeva, e veramente quando Berna raccontava non ce n’era per nessuno, era il migliore.

Fuori da un palco, è stato il miglior storyteller di alpinismo mai ascoltato.
Ho organizzato decine di serate per Sport Specialist, li ho sentiti tutti. Il migliore fu Dean Potter, ma vi dico che Berna ti sapeva dire dei micro dettagli a cui mai avresti pensato, analizzava le imprese di un Alex Honnold o di uno Steve House o di un Ueli Steck in modo SUPERIORE, e poi ci metteva dentro delle considerazioni divertenti, stavi lì ad ascoltarlo ore.
E quella sera al suo tavolo si formò un capannello di professionisti, assieme a gente milionaria, tutti dietro a lui.
E naturalmente al ritorno in macchina ci fece morire dal ridere, Berna era come i miei vecchi amici Cecco e Pitax, era come avere Troisi al tavolo, o Ale e Franz.

Berna ammirava Teo in una maniera che Teo non so mica se l’abbia mai saputo. Lo ammirò fin dal primo momento, 2005. E poi soprattutto dal 2006, quando Teo aveva smesso per qualche mese ed era tornato moooolto ingrassato.
Andammo io e Berna al Wenden, era casa mia e affrontammo la Strada del Sole. Il primo tiro toccò a lui, io lo avevo già salito con mia moglie e lo avevo trovato molto psicologico. Un “banale” 6b con chiodatura oltre i sei metri e prese sfuggenti e liscioni per i piedi. A un certo punto lo vedo andare verso un buco enorme molto lontano dalla linea, gli urlo, Berna dritto non di lì, c’era da temere. Lui non risponde, vedo i polpacci tremare e avanza obliquo, allora sto zitto ma temo molto. Dal buco allo spit c’erano almeno 5 metri ma obliqui, e io conosco i buchi del Wenden, più li vedi grandi più sono lisci e ti sputano fuori, Berna è mooolto lento, silenzio totale, arriva al buco in allungo, 2 secondi e lo senti urlare, lo sapevo, lo sapevo, dice una parolaccia e poi fa “lo sapevo che doveva esserci”. AVEVA TROVATO UN CHIODO. “Non poteva essere salito lassù senza mettere niente, quello stronzo”.
E io stupefatto risi fortissimo, ma tanto forte, aveva trovato un chiodo completamente fuori via perché si era immedesimato nel primo salitore “nessuno avrebbe fatto 10 metri 15 anni fa senza mettere nulla” mi urlò ancora pieno di adrenalina.
Poi vide i nostri tiri e mi disse “ma voi siete matti”.

Ma lo disse con ammirazione e poi diventarono cordata, sperimentarono la portaledge al Castello, sulla strada per lo Spluga, mi telefona il Teo che era buio, mi fa che dalla strada il soccorso vuole andare a prenderli pensando che siano in difficoltà: “non riesci a telefonare a qualcuno e dirgli che stiamo qui la notte per provare la porta ledge”, sento Berna che ride e dice, che cazzo dici, Teo era serio ed erano tipo le 23 e io devo aver detto qualcosa tipo, Teo ma chi cacchio chiamo a quest’ ora??, e Teo, mandali via, come se fossi Obama, non il presidente dei Ragni.

Berna sparava intanto delle battute da teatro mentre Teo era furibondo, erano una coppia formidabile, unica al mondo pensai. Erano tutti preoccupati per la Egger. Per i Ragni esperti di Patagonia era la parete più pericolosa che si conoscesse da quelle parti, ma io sapevo che stavano andando là due uniti da una chimica leggendaria.
Questa cosa che allego come foto l’ha scritta Berna qualche giorno fa.
Non ero fra i primi 100 suoi amici perché frequentavamo posti diversi. Però ci rispettavamo tantissimo.

Sabato scorso a cena si parlava di cortometraggi e film, e io tirai fuori del Berna, di come fosse più bravo di me, Teo e Giga a raccontare solo NON in veste ufficiale, dissi che io lo provocavo sempre.
“Sì, ma Berna in fondo Freerider se la provi per due anni è normale che poi la provi senza corda” facevo apposta a provocarlo con assurdità, serissimo,
e lui ci cascava sempre.

Berna in marcia notturna

“Ma che cazzo dici!?!?!”, rispondeva fisso così, e via a spiegarti come un Piero Angela o un Morgan Freeman tutto quello che riguardava Honnold, in maniera impareggiabile.
Così decidemmo di mettere un paio di telecamere nascoste e organizzare un talk show di alpinismo col Berna. E vi dico sarebbe stato un capolavoro .
In tempi di restoacasisti e di distanziamentosociale come filosofia di vita auspicata e regolamentata, di droni a caccia e multe a fidanzati o amici in un prato, Matteo Bernasconi detto Berna era un fossile.
Berna era la socialità fatta persona.

Un mese fa sotto casa sua lo avevano insultato dai balconi perché era in giro con la bambina.
Mi disse questa cosa più stupito che dopo la notizia di Honnold.
Quei professionisti se lo ricordano e lo ricorderanno per sempre. Berna mi aveva scritto dopo il prolungamento del lock down che era molto preoccupato per il lavoro, per il suo futuro, per come la gente fosse diventata terrorizzata del contatto. Me lo scrisse settimana scorsa.
Lui la quarantena l’ha sofferta tantissimo perché era vitalità allo stato puro e la caccia alle libertà per lui era un assassinio civile. Berna non penso che avesse idee politiche particolari, ma di sicuro qualunque forma di autorità esagerata non faceva per lui.
Berna era uno degli alpinisti più forti della storia dei Ragni e prima un ragazzo poi un uomo speciale.

Parete nord della Tour Ronde

Ciò che ho vissuto con lui
di Matteo Della Bordella

Ho scelto di ricordare Berna con alcuni estratti del mio libro La via meno battuta, perché ritengo che le parole che avevo scritto su di lui e sulle nostre avventure insieme quando lui era ancora in vita, siano più autentiche e di maggiore valore rispetto ad un ricordo postumo.
Quando una persona scompare spesso si tende ad idealizzare la sua figura e scriverne in modo nostalgico; al contrario vorrei in questo articolo descrivere Berna ed alcuni momenti di vita condivisi, nel modo più reale possibile, usando le parole di quando avrei potuto telefonargli ogni singolo giorno per pianificare i prossimi progetti insieme.

Berna al Milano Climbing Expo 2019, workshop sulla sicurezza delle soste. Foto: Paolo Ballabio e Paola Magni.

Dal capitolo Chi accetta è già in vetta. Nel 2008 io e Matteo Bernasconi ci incontrammo per la prima volta.

Matteo Berna Bernasconi era l’unico mio quasi coetaneo. Ci eravamo incontrati a qualche assemblea di Ragni, ma praticamente non ci conoscevamo. Berna era un tipo curioso: aveva dei capelli rossicci ricci e lunghi ben oltre le orecchie, la barba, un paio di occhiali da vista e la sigaretta sempre in bocca, un fisico possente sulle spalle, che poi si stringeva sulla vita e nei fianchi e lasciava spazio a due gambette, all’apparenza sottili se confrontate con il resto del corpo. La prima volta che lo vidi mi diede l’idea di una persona abituata a vivere tra i monti o a spaccar legna, molto diverso da me, che invece dividevo il mio tempo tra università e montagna ed ero fondamentalmente un ragazzo di città. Aveva solo due anni più di me, ma mi sembrava fossero molti di più. Vuoi per il suo vizio del fumo, o per le sue mani possenti o perché era già stato diverse volte in spedizione, Berna mi sembrava un uomo maturo.

In realtà le nostre storie non erano poi così diverse, anche Berna abitava a metà tra la città e la montagna, più precisamente a Villa Guardia, in provincia di Como e la sua passione per l’arrampicata era esplosa durante l’adolescenza. Non ebbe come me la fortuna di avere genitori con questa stessa passione e perciò iniziò sotto l’insegnamento delle guide alpine. Dopo i primi passi in montagna, come successe a me, cominciò a dedicarsi alla montagna e all’alpinismo a trecentosessanta gradi. Il suo istinto, i suoi compagni, la vita lo portarono a vivere la montagna in modo piuttosto diverso da come la stavo vivendo io in quegli anni. A entrambi piaceva l’arrampicata libera, però in montagna mentre io sognavo le grandi vie di pura arrampicata sulle pareti più belle delle Alpi, lui cercava di mettersi alla prova in condizioni difficili, come le invernali o le salite su ghiaccio e misto, che erano attività dalle quali, a quei tempi, mi tenevo ben alla larga, le guardavo dall’alto in basso considerandole delle attività minori rispetto all’arrampicata libera sulle grandi pareti. Inoltre, lui aveva già avuto la fortuna di andare diverse volte in spedizione e per questo dentro di me lo invidiavo, perché faticavo a capire cosa volesse dire andare in spedizione.

Dal capitolo Die another day. Gennaio 2012, in due sulla parete ovest della Torre Egger, al secondo anno di tentativi.

Ora toccava a Berna. Ero ottimista, e soddisfatto, ma capii che Berna quando mi raggiunse in sosta aveva qualche dubbio in più del mio: «Quella roccia nera non mi piace molto» disse, «è la stessa dei primi due tiri dello zoccolo… Giù là non si muoveva nulla perché era tutto tenuto insieme dal ghiaccio, ma qui secondo me ci resta tutto in mano».
«Ma no, dai, vedrai, non è così male» risposi io. «Devi stare un po’ all’occhio però sembra scalabile».
«Mah! Speriamo sia come dici tu…».
«Lo scopriremo tra molto poco… Aaaaaaalè» terminai, dando a
Berna una pacca sulla spalla.

Mayan Smith-Gobat, Ben Rueck e Berna

Anche quel tiro iniziava con un traverso verso sinistra e quella fu una fortuna perché così non mi trovavo sulla verticale di Berna che stava scalando. Berna mi ammonì più volte di stare attento, perché la qualità della roccia era pessima e si sarebbe potuto staccare tutto da un momento all’altro, e io cercai, come potevo, di rassicurarlo, incitandolo a stare tranquillo che un’eventuale caduta sarebbe stata sicura e che la sosta a cui ero appeso era buona.
«Teo, io non so se ce la faccio qui… Le ultime due protezioni che ho messo fanno pena, se cado viene giù tutto».
«Ok
Berna, vedi tu, se non te la senti non c’è problema» gli risposi.
«Occhio che ci provo!» Quel tratto andava superato obbligatoriamente in arrampicata libera perché le uniche due protezioni a cui faceva riferimento
Berna erano messe in una lama che, anche se solo si fosse appeso a esse, molto probabilmente si sarebbe staccata dalla parete. Il grande Berna, con movimenti delicati, ma fermi, riuscì un passettino alla volta a rimontare in cima a quella lama instabile e quindi a raggiungere una zona di roccia granitica più solida ove proseguire a salire. Dopo una ventina di metri abbondanti, quando sembrava ormai superata la parte più critica e davanti a sé aveva una fessura larga in cui inserire un ottimo friend, si lasciò andare a un grido liberatorio: «Ok Teo, questo friend è buono, bloccami qua per favore che mi riposo un po’».
«Cosa? Ti devo bloccare?».
«Sì blocca, qui sono al sicuro!».

Non fece in tempo a finire quella frase, che io misi entrambe le corde in tensione per bloccarlo su di esse e permettergli quindi un po’ di meritato riposo. In quel mentre udii un movimento strano, come di un macigno che si muoveva dalla sua sede. Guardai alla mia sinistra e vidi che i friend che aveva messo nella lama instabile si stavano espandendo e quel gigantesco blocco sul quale Berna era appena salito si stava muovendo e stava uscendo verso il basso… Per fortuna lui era già trenta metri più in alto mentre io ero dieci metri più a sinistra. Subito urlai: «Berna attaccati al friend con una longe!» e intanto udii il boato di quella lama enorme che si staccava dalla parete e precipitava verso il basso, sbattendo sulla parete sottostante e frantumandosi in mille pezzi.

I due tentativi sulla Siula Grande

Seppur sapessi che nessuno di noi due avrebbe potuto essere colpito, il mio timore era che quel blocco di pietra gigantesco potesse tranciare le corde a cui Berna si stava per appendere e quindi il mio amico fosse precipitato verso il basso. Non so se Berna riuscì a udire quella mia frase, ma io sentii allentarsi la tensione di una delle due corde che avevo tra le mani e mi si gelò il sangue nelle vene. Per fortuna l’altra corda, quella blu, rimase tesa e su di essa sentivo il peso del mio compagno. Berna, preso da altre manovre, non aveva del tutto realizzato quello che era successo. Mi urlò: «Cosa è successo Teo? È caduta roba dall’alto?». Non si era nemmeno reso conto che una parte del tiro, che aveva appena scalato, era crollato sotto di lui non appena avevo messo in tensione le corde. Davanti a me vidi la corda gialla a brandelli, penzolante verso il basso, ma la blu per fortuna era bella tesa e collegava me al mio amico. «Ok, Berna, tranquillo! È tutto a posto, poi sti spiego: adesso è importante che usi solo la corda blu, ok?».
«SOLO LA BLU!» gli urlai più forte che potevo «OK?».
«Sì, Teo, ho capito, solo la blu».
Quando si rese conto della situazione
Berna disse: «Teo, salgo ancora tre metri, poi faccio la sosta, ok? Tu tutto bene?».
«Sì, tutto ok. Va bene, appena puoi fai sosta!».

Berna sulla Siula Grande

Berna allestì la sosta, fissò la corda blu e si calò su di essa fino alla sosta dove ero rimasto io. Probabilmente aveva realizzato ciò che era successo, ed era chiaro che, visto l’orario, con solo una mezza corda, la giornata finiva lì.
«Hai visto che roba
Berna» gli dissi quando mi raggiunse.
«Eh, ti avevo detto io che quella roccia nera faceva schifo» rispose lui.
«Avevi ragione!».
«Sì però nemmeno io pensavo che crollasse tutto, se lo avessi saputo che era così marcio, mica sarei salito da lì!».
«Vabbè ormai è andata e la corda adesso è fissata!» gli dissi io.
«Grande
Berna! Sei stato una bestia… Ora torniamo giù a riposarci un po’ e poi domani si vedrà.»

Tentativo sulla Siula Grande

Quel giorno il bombardamento di ghiaccio non era arrivato e questo perché era nuvoloso e più freddo. Ritornammo al nostro punto riparato per passare la notte: con noi avevamo una corda di scorta, perciò avremmo voluto continuare la scalata il giorno successivo, se il tempo fosse stato buono.
Forse il brutto tempo era arrivato in anticipo rispetto al previsto, oppure forse erano nuvole che si sarebbero diradate di lì a breve. Un’ora più tardi iniziò a nevicare e noi ci infilammo nel telo della portaledge per provare a dormire qualche ora; purtroppo la mattina successiva, quando venne nuovamente chiaro, ci svegliammo coi sacchi a pelo inzuppati dall’umidità e dalla condensa che si era creata dormendo in quel telo di plastica e constatammo che durante la notte erano caduti dieci centimetri di neve. La temperatura si era poi alzata, non nevicava più, ma pioveva, il che forse era anche peggio per noi dal momento che di lì a poco ci saremmo inzuppati completamente d’acqua. Resistemmo per qualche ora richiusi nel nostro telo, sperando in un cambio del meteo, fino a quando, nel primo pomeriggio, vedemmo che la temperatura si stava abbassando e stava ricominciando a nevicare. Pensammo che, bagnati come eravamo, avremmo rischiato l’ipotermia se fossimo rimasti in quel luogo e così iniziammo la nostra ritirata verso il basso.

Teo Della Bordella, Tito Arosio e Berna al Siula Grande

[…]

Saremmo tornati in parete l’indomani e avremmo cercato di mettere la parola «cumbre» alla fine di questa nostra relazione con la Torre Egger, una relazione che pian piano si stava trasformando in una mezza odissea. Dato che eravamo ancora un po’ stanchi dai due giorni precedenti, per il nuovo e decisivo tentativo adottammo un cambio di tattica radicale: questa volta avremmo reso minimi i pesi che avremmo dovuto trasportare, eliminando tutto il materiale non strettamente indispensabile.

La valanga del Canalone della Malgina, 12 maggio 2020.

Niente più corde da fissare, niente più chiodi, niente cibo extra per eventuali emergenze, niente vestiti di scorta e addirittura decidemmo anche di lasciare giù entrambi i sacchi e pelo, viste le alte temperature previste e il loro relativo peso e ingombro. Avremmo sofferto la fame, sofferto il freddo e ci saremmo arrangiati con ciò che avevamo, però, per lo meno, saremmo riusciti a muoverci rapidi e risparmiando parecchie energie rispetto a quando trasportavamo due sacconi da trenta chili ciascuno. Sapevamo che il peso fosse un fattore determinante per la velocità in montagna, ma restammo sbalorditi quando il giorno successivo, sei ore dopo essere partiti dalla truna avevamo già raggiunto quella corda blu che avevamo lasciato fissata la volta prima. Ci avevamo messo solo due ore sul ghiacciaio, sempre grazie alla nostra beneamata scala, e quindi altre quattro ore per quelli che ormai erano diventati quasi settecento metri di corde fisse da risalire a jumar. Le nostre tempistiche abituali erano state praticamente dimezzate!

Ricerche notturne del corpo del Berna, valanga del Canalone della Malgina, 12 maggio 2020.

Toccò a me proseguire su terreno ancora inesplorato, e finalmente, in quella giornata, la Torre Egger si dimostrò buona nei nostri confronti, facendomi percorrere tre bellissimi tiri che seguivano un evidente sistema di fessure. Altri 120 metri erano stati conquistati ed ora ne restavano solo 150 o forse 200 di metri da percorrere tra noi e la cresta, dove terminava la parte più impegnativa di parete.
Diedi il cambio a
Berna, il quale mi chiese di bloccarlo sulle corde, per far sì che potesse sporgersi di lato e valutare quale fosse la migliore linea da seguire: «Teooo!?».
«Cosa c’è?».
«Sopra là a sinistra dove pensavamo di uscire è tutto intasato di neve».
«Come intasato?».
«Di là, sopra la testa abbiamo troppa roba, se ci troviamo lì quando viene caldo siamo fottuti».
«Eh, quindi dove si può andare?».
«Eh, l’unica è continuare qua dritti e sperare si riesca a passar fuori».
«Ok, ma come sembra?».
«Boh! A me sembra liscio, secondo me non si passa, però vieni anche tu qua a vedere».
«Azz!… Ma sei sicuro?».
«Se vuoi… dammi un po’ di corda che mi sporgo ancora più in fuori».
Nel frattempo, i tiri che avevo percorso ci avevano fatto perdere alcune ore, ed era già pomeriggio inoltrato. Calai
Berna ancora un paio di metri e senza alcun preavviso «Pam!» vidi un blocco di ghiaccio cadergli proprio sulla spalla.
«Aaaaahhh!».
«Come stai
Berna?».
«Tira le corde che torno lì in sosta!».
«Ok, vieni!».
«Ma come va la spalla?» gli chiesi.
«Fa un male boia!» rispose lui.
«Ma penso sia solo una botta» aggiunse poi, muovendola in rotazione. «Per fortuna non mi è arrivato in faccia quel blocco».
«Eh, per fortuna sì…».
«Comunque, Teo, qui adesso siamo di nuovo esposti, ora arriva il momento peggiore della giornata. Meglio scendere e continuare domani».
«Ok, mi pare una buona idea, torniamo al nostro bivacco e domani col freddo valutiamo bene cosa fare» conclusi io.

Alberto Pirovano

Ci calammo per trecento metri fino alla nostra solita cengia riparata, dove ormai avevamo trovato ciascuno la sua collocazione, rannicchiati in quei pochi centimetri quadrati in piano che avevamo a disposizione. Quella notte pagammo lo scotto della scelta che avevamo fatto di non portare i sacchi a pelo perché, sebbene la temperatura fosse superiore alla norma, non appena il sole calò dietro l’orizzonte, il freddo iniziò a farsi sentire e a penetrare dai vestiti nei quali ognuno di noi era avvolto. Non era un freddo estremo, ma era abbastanza per farmi venire i brividi, battere i denti e svegliarmi pochi minuti dopo che mi ero addormentato.

Fabio Palma

Fortunatamente le notti a gennaio in Patagonia durano solamente una manciata di ore, e noi, già un paio d’ore prima dell’alba, decidemmo di iniziare i preparativi per tornare alla scalata.
Già l’operazione di sistemare il fornelletto, sciogliere la neve e ricavare un tè portava via decine di minuti, per non parlare poi della colazione vera e propria e dei preparativi per la scalata. Quella mattina decidemmo di non lasciare più nulla nel luogo dove avevamo dormito: sapevamo che se avessimo trovato una linea di salita alla nostra portata, saremmo potuti uscire sulla cresta finale quella stessa sera.

Fabrizio Pina

Trecento metri da risalire a jumar erano un ottimo riscaldamento per iniziare ad arrampicare e quando arrivammo nel punto dove Berna il giorno prima era stato colpito dal blocco di ghiaccio, il mio amico propose a me di sporgermi attaccato alle corde, così che anch’io mi facessi un’idea della situazione e potessimo scegliere con maggiore chiarezza la linea da seguire: «Tu come la vedi Teo?» mi chiese Berna una volta che ero nella sua stessa posizione del giorno prima.
«Eh… come dicevi te ieri!» mi presi una pausa per guardare meglio.
«Di là non passiamo… anzi, se andiamo a sinistra poi nel pomeriggio ci arriva in testa di tutto. E dritto… sembra un bastone!».
«Sì, c’è un tetto, non so, a me sembrava liscio ai lati, tu cosa dici?».
«Siamo ancora un po’ lontani. Ai lati del tetto anche a me sembra liscio, però a guardar bene mi pare che proprio nel mezzo del tetto ci sia una riga. Forse è un fessurino».
«Sììì? Non l’ho visto io ieri».
«Guarda non sono sicuro, ma potrebbe essere che lì, in artificiale con chiodi o nut riusciamo a salire».
«E comunque è l’unica possibilità che abbiamo perché andare a sinistra è da pazzi e a destra è impossibile».
«Sì, concordo» disse
Berna. «O troviamo il modo di salire dritti da lì o si torna giù».
«Be’, un tentativo lo facciamo!» dissi io.
«Certo, fino a qui siamo andati alla grande. Speriamo non sia per questo motivo che dobbiamo scendere» disse
Berna.
«Vuoi andare avanti tu?» concluse poi lui.
«Volentieri!» risposi.

[…]

In vetta al Pizzo Badile, 5 luglio 2020, in attesa di disperdere le ceneri del Berna.

Urlai a Berna: «Sosta!» e lui, dopo aver preparato tutto il materiale, pian piano mi raggiunse, non senza fatica e non senza acrobazie nel superare il tetto e togliere tutto il materiale che avevo piantato nella roccia.
«Wow, siamo in alto!» disse
Berna, non appena mi raggiunse in sosta. «Non posso credere che siamo arrivati fino a qua» risposi io. «Penso che con quaranta metri siamo sulla cresta» aggiunsi.
«Eh, sembra lì… Speriamo ci siano fessure».
«Va bene se continuo io?» gli chiesi.
«Sì Teo, vai vai che sei già pronto e se cambiamo perdiamo un sacco di tempo».
«Ok dai allora vado. Spero di riuscire a salire da questa prima parte, poi sembra che la parete spiani».

Il morale era alto e mi sentivo già con la mentre proiettata su quella cresta finale, sentivo che stavamo per farcela a realizzare il nostro sogno e il piano nella mia testa era chiaro: quella sera avremmo bivaccato in qualche modo sulla cresta e poi il giorno successivo avremmo percorso gli ultimi duecento metri, più facili, fino in cima. Dopo tutte le difficoltà che avevamo trovato lungo il nostro cammino ormai non vi era più nulla ai miei occhi, che poteva mettersi tra noi e la cima della Egger e così, dopo essermi preso il materiale necessario, che era attaccato all’imbrago di Berna, ripartii deciso come non mai.

Sono appeso a due pezzetti di metallo conficcati nella roccia per pochi centimetri, ma non mi importa: hanno tenuto in tante altre situazioni precarie e terranno anche questa volta.
«Okay, blocca!».
«Accidenti… perché non entra?».
Così, nemmeno il tempo di accorgermene e mi ritrovo otto metri più in basso: si stacca un chiodo, poi anche un friend. Il mio compagno viene sbalzato verso l’alto e va a sbattere con violenza contro la roccia. Nel frattempo, esce un altro friend. Nella caduta travolgo
Berna, mentre cede un altro nut e io continuo a essere calamitato nel vuoto. Tutto accade così velocemente che non ho nemmeno il tempo di pensare. Poi, come è iniziato, tutto all’improvviso si ferma.

Lo sguardo di Berna è rivolto verso di me, molti metri più in basso. Vedo la sua mano tenere forte le corde e del sangue uscirgli dalle gengive, ma a parte questo non capisco bene cosa sia successo.
«Teo, tutto bene?»
«Sì, e tu? Com’è la sosta?».
Berna alza lo sguardo e solo in quel momento ci rendiamo conto di come stanno le cose.
«Teo, non muoverti!» grida
Berna. «Siamo appesi tutti e due a un solo micro-friend!».

Dal capitolo El valor del miedo. Autunno 2016, prima della spedizione al Cerro Murallón (vedi anche https://www.gognablog.com/cerro-murallon-el-valor-del-miedo/).

Dopo la Egger con Berna non ci si era quasi più sentiti.
La cosa mi dispiaceva, ma d’altra parte non avevo idea di come poter rimediare. Non sapevo nemmeno se fosse arrabbiato con me o no per come era andata e non osavo chiederglielo. Nelle relazioni con le persone spesso è difficile fare la prima mossa quando c’è da chiarire qualcosa o recuperare un rapporto, è senza dubbio più facile chiudersi a riccio, facendo finta di ignorare il problema andando avanti come se nulla fosse.

Le nostre vite ormai avevano preso direzioni diverse ed entrambi procedevamo dritti per le relative strade senza indecisioni: lui faceva ormai da anni la guida alpina a tempo pieno, lavorando tantissimo durante la stagione estiva, per poi prendersi periodi più tranquilli il resto dell’anno; io avevo abbracciato la strada dell’alpinista professionista, avevo aziende che mi supportavano stabilmente e cercavo di inseguire i miei sogni, facendo del mio meglio per raccontare e comunicare agli altri le mie avventure durante serate e conferenze.

Eravamo rimasti in buoni rapporti e qualche volta avevamo scalato in falesia insieme, tuttavia della Egger non avevamo più parlato, il discorso era chiuso e che ormai lui ci avesse messo una pietra sopra lo immaginavo, o per lo meno lo speravo: erano passati tre anni e mezzo da quella spedizione, ma nel frattempo erano successe così tante altre cose nella mia vita, e anche nella sua, che quei giorni sembravano lontani anni luce. Quello che invece restava ancora ben impresso nella memoria erano le emozioni vissute e il legame che si era creato tra di noi; quello proprio non riuscivo a dimenticarlo e avrei assolutamente voluto che ci legassimo ancora insieme per qualcosa di grande. Mi domandavo come avrebbe reagito se gli avessi proposto ancora di fare qualcosa insieme, ma non osavo farlo, avrei voluto, ma non trovavo mai l’occasione giusta.

In Patagonia ci tornavo ogni anno, ogni volta che lasciavo quella terra magica, la lista dei sogni, dei progetti e delle montagne che avrei voluto scalare si allungava sempre di più. Certo non ero più il pivellino di quando avevo messo la prima volta piede sullo Hielo Continental nel 2010, e ora potevo vedere quelle montagne in modo più completo. Iniziavo a conoscerle un po’ meglio, ed era forse proprio per questo che continuavo a pensare con un po’ di nostalgia a quel lontano giorno in cui ci eravamo trovati al CAI Lecco, insieme con Mario Conti e Carlo Aldè per decidere cosa avremmo fatto in Patagonia…Tra le due possibilità che ci si erano presentate davanti ne avevamo scartata una, perché troppo complessa logisticamente, e isolata: quella possibilità si chiamava Cerro Murallón, l’avevamo scartata, è vero, ma io non l’avevo certo dimenticata!

Nonostante il Cerro Murallón si trovi in linea d’aria solo a un centinaio di chilometri da Cerro Torre e Fitz Roy, l’isolamento e l’ingaggio ambientale offerto da questa montagna sono radicalmente diversi da quelli che si trovano su qualsiasi altra cima nella zona di queste ultime. In realtà il Murallón non è così diverso come impegno e difficoltà rispetto a una Torre Egger o una Est del Fitz Roy; quello che fa la differenza è il contesto in cui la montagna è inserita. Un contesto lontano da qualsiasi rotta battuta dagli altri alpinisti, esattamente come le montagne che avevo scalato in Groenlandia.

[…]
Era tempo di ampliare i miei confini e guardare più in là, sentivo che era giunto il momento di scoprire qualcosa di nuovo e magari provare ad alzare quell’asticella della sfida un po’ più su, così finalmente mi decisi a prendere in mano il telefono e chiamare
Berna: «Senti, ma tu per quest’inverno hai già programmi? Torneresti in Patagonia?» gli chiesi dopo i soliti convenevoli.
«Non ho ancora programmi, ma tornerei volentieri Teo, ormai è troppi anni che manco!» mi rispose lui.

Pur non avendo ancora la conferma esplicita mi fu chiaro, non appena terminò la conversazione, che quelle parole significavano un sì e lo comunicai subito a David. Con David avevamo appena scalato il Fitz Roy e proprio dalla sua cima, insieme avevamo scorto in lontananza, come un puntino perso tra i ghiacci dello Hielo Contiental, la parete nord del Cerro Murallón illuminarsi all’alba, come a volerci ricordare della sua esistenza. Se avessi potuto scegliere tra tutti gli alpinisti al mondo due compagni per quella nuova avventura avrei scelto proprio loro: David e Berna. Proprio per questo motivo mi sentivo in una botte di ferro; anche se per diversi motivi il nostro tempo a disposizione sarebbe stato limitato a trenta giorni ero convinto che ce l’avremmo fatta a scalare questa montagna.

Dal capitolo El valor del miedo, febbraio 2017, in cima al Cerro Murallón in mezzo alla bufera.

David poi riuscì a piazzare altre protezioni e arrivò alla fine della parete, allestì una sosta e io e Berna risalimmo le corde più veloci che potevamo.
All’una di pomeriggio sbucammo tutti e tre sulla cresta sommitale; camminammo fino alla cima, circa trecento metri più in alto, ma non ci fu tempo per festeggiare, rilassarsi o fare foto. Ci trovavamo completamente immersi nella nebbia, in balia del vento crescente e dovevamo prendere l’ennesima decisione difficile: scendere in corda doppia dalla parete appena salita con solo due corde, quattro chiodi, una serie di friend e una di nut e con un tempo che peggiorava a vista d’occhio, oppure tentare una discesa sullo sconosciuto, ma sulla carta ben più facile, versante Ovest della montagna?

Era la prima volta che mi trovavo su una montagna del genere con quel tempo da lupi e la paura di restare intrappolati era un sentimento reale.
Seguimmo l’istinto che ci suggerì di non tornare in quel mondo verticale da dove eravamo saliti ma proseguire lungo la cresta, sebbene non sapessimo bene dove stavamo andando. Dopo mezz’ora di cammino, la neve iniziò a cadere fitta e perdemmo ogni senso dell’orientamento. GPS, cartine e bussole non sono mai state parte del nostro equipaggiamento e ci ritrovammo a vagare senza meta in un vero e proprio «whiteout». Poi ci fermammo a ragionare: ci trovavamo nell’ultimo luogo al mondo dove avremmo voluto essere quando si scatena una bufera in Patagonia, ovvero da qualche parte in cima a una montagna sperduta in mezzo allo Hielo Contiental; forse l’unica soluzione ragionevole era quella di scavare una buca nella neve e mettersi ad aspettare che il tempo migliorasse? Mentre tutti e tre pensavamo al peggio, una schiarita temporanea ci permise per qualche istante di vedere il ghiacciaio Cono sotto di noi. Purtroppo, non riuscimmo a valutare la distanza che ci separava da esso, ma decidemmo di provare a raggiungerlo.

Berna preso da uno slancio di ottimismo ci urlò mentre procedevamo legati: «Dai ragazzi, tre doppie e siamo sul ghiacciaio!».
Iniziammo le calate direttamente da un seracco e dopo altre due doppie su ghiaccio raggiungemmo uno sperone roccioso. Attrezzammo ulteriori ancoraggi per corde doppie, in totale ancora una decina, sotto la neve che cadeva in modo incessante e senza sapere dove stavamo andando, ma con la consapevolezza che prima o poi da qualche parte saremmo arrivati e che comunque il fatto di abbassarsi di quota era una cosa positiva. Quando finalmente mettemmo i piedi sul ghiacciaio Cono, facemmo due calcoli e realizzammo che le «tre doppie» di
Berna si erano rivelate ben dodici, poi ci voltammo per guardare da dove eravamo scesi… Al di sopra dello sperone roccioso vi era un gigantesco seracco alto circa cento metri e se lo avessimo visto prima, tutti noi avremmo pensato che sarebbe stata una follia calarsi da lì. Per fortuna non si era mosso nulla e potevamo andare avanti, perché i problemi non erano certo finiti, i nostri vestiti iniziavano a essere inzuppati di acqua e ci trovavamo in un infinito labirinto di crepacci, bagnati, infreddoliti e spossati da due giorni di arrampicata.

Iniziammo così a procedere a tentativi verso il basso. A volte ci infilavamo in un vicolo cieco, e dovevamo tornare indietro per trovare la strada migliore tra i crepacci, ciononostante lentamente, ma inesorabilmente, perdevamo quota. Alle dieci di sera passate finalmente raggiungemmo la parte bassa del ghiacciaio Cono, stavamo scendendo nella bufera ormai da quasi dieci ore, avevamo freddo e fame, non potevamo fare altro che continuare a camminare se volevamo mantenere un po’ di calore corporeo. A un certo punto, come in un sogno, nel bel mezzo del ghiacciaio ci apparirono due giganteschi blocchi di roccia, con una faccia riparata dal vento e perfettamente strapiombante.
In quel momento fu il regalo più bello che potessimo ricevere, come una manna dal cielo, era il riparo perfetto: lì potevamo riscaldarci, passare la notte e recuperare un po’ di energie.

Fu solo allora che la tensione calò, le nostre paure fecero un passo indietro, potemmo finalmente rilassarci e renderci conto che eravamo nuovamente su un terreno orizzontale e sicuro… Ce l’avevamo fatta.
La mattina seguente facemmo colazione con l’ultima barretta energetica rimasta, venticinque chilometri di ghiacciaio, morena e terreno sconnesso ci separavano dalla nostra tenda, e poi almeno altrettanti dal rifugio Pascale, ma si trattava solo di stringere i denti e soffrire un po’ la fame e la sete, la cosa non ci spaventava affatto! Chiamammo la via
El valor del miedo che significa in italiano il valore dalla paura. Per quei due giorni ci eravamo sentiti come il pilota di quel libro che partiva verso qualcosa di ignoto. Per quei due indimenticabili giorni avevamo avuto tutti paura. Ognuno lo aveva ammesso a sè stesso e queste paure le avevamo ascoltate; presi singolarmente queste paure ci avrebbero sicuramente sopraffatto, ma restando uniti come cordata avevamo trovato il coraggio necessario per controllarle e andare avanti.

Hanno detto di lui
Alberto Pirovano
(presidente del CAI Lecco e past-president Ragni di Lecco): “E’ entrato nei Ragni nel 2003, proprio quando io ero presidente del gruppo. Aveva 21 anni, era lo scanzonato del gruppo ma ricordo la sua grandissima passione. Mi ricordava un po’ la prima generazione dei Ragni: serissimi quando c’era da scalare ma goliardico e pronto a far ‘baracca’ quando era il momento. Ho ancora in mente, al termine della spedizione al Cerro Piergiorgio, il conto chilometrico delle sue birre. Lui era così…”.

Pirovano, poi, torna con la mente alla spedizione con Fabio Salini alla Ovest del Torre: “Mi chiamò per dirmi che c’era la possibilità di andare al Torre per tentare la prima ripetizione lecchese della via dei Ragni ma c’erano due problemi: il primo erano i soldi per il biglietto aereo, mentre il secondo me l’avrebbe spiegato in un secondo momento. Quando ci trovammo al Caffè Commercio per discutere la cosa gli dissi che il biglietto non era un problema ma doveva arrivare in cima e gli firmai personalmente un assegno, però ero curioso di sapere il secondo ostacolo. Lui tirò fuori la fotocopia mezzo stropicciata di una mappa e mi disse che Salini non era mai stato in Patagonia e lui non aveva idea di come arrivare all’attacco della via. Questo dà un po’ l’idea di che personaggio fosse…”.

Quando era in montagna, però, cambiava totalmente: “Era di una professionalità quasi oppressiva. Ha collaborato con il polo sportivo del Politecnico e quando portava in giro i ragazzi era attentissimo alla sicurezza, controllava l’abbigliamento, tutti i dettagli, era estremamente prudente. Era un alpinista mosso da una grande passione e mi dispiace molto che se ne sia andato così…”.

Fabrizio Pina, presidente delle Guide alpine lombarde: “Matteo era prima di tutto un amico, una splendida persona, solare ed estroversa, con la quale ho condiviso molti momenti. Era una guida alpina, un professionista molto stimato e un alpinista di livello, che amava le salite invernali e che ha scalato e aperto vie anche oltre le Alpi, in particolare in Patagonia, uno dei suoi luoghi preferiti. Personalmente sono affranto e come Collegio delle Guide Lombardia ci stringiamo intorno al dolore dei familiari, degli amici e di tutti quello che lo conoscevano”.

L’ultimo saluto al Berna sulla vetta del Pizzo Badile

Domenica 5 luglio i Ragni di Lecco sono saliti sulla cima simbolo delle montagne del Masino-Bregaglia per spargere le ceneri di Matteo Bernasconi.

Dopo la riuscitissima bevuta di birra che centinaia di persone hanno fatto sui social in onore del Berna, due meravigliose giornate, nelle quali le montagne del Masino sembravano partecipare all’emozione generale, presentandosi al meglio nella loro selvaggia bellezza, hanno visto al sabato la salita al rifugio Gianetti di tanti suoi amici, e alla domenica il gruppetto degli amici più intimi raggiungere  la cima del Pizzo Badile per spargere le ceneri del Berna.

E’ stato fatto nel modo che a lui piaceva: in allegria, con un bel gruppo di amici uniti dalla stessa passione. Lo hanno salutato lì, su una delle montagne che lui più amava e che ha significato tanto nella storia dei Ragni, certi che lo ritroveranno sempre legato alla loro corda, sulle vette più belle e difficili del mondo.

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