Cerro Torre – 04

Come nacque il caso Cerro Torre

Il seguente articolo è apparso nell’aprile 1960 sulla prestigiosa rivista francese La Montagne. Per molto tempo ha costituito l’unico documento a disposizione degli alpinisti non di lingua italiana interessati alla storica impresa, perché solo pochi di loro erano in grado (o per ignoranza della nostra lingua o per l’oggettiva difficoltà a procurarsi le riviste cartacee) di informarsi leggendo le relazioni in italiano del Bollettino della SAT e della Rivista Mensile del CAI.

La traduzione in inglese di questo documento ha ovviamente innescato altre piccole e grandi imprecisioni, dando inizio alla saga del Cerro Torre di cui ci stiamo occupando (la Redazione)

Cerro Torre, parete sud. A destra, la Torre Egger. Foto: ex La Montagne, aprile 1960.

La conquista del Cerro Torre
di Cesare Maestri
Traduzione di Françoise Rebuffat
(da La Montagne, aprile 1960, pagg. 207-213)

“Toni attenzione”! Dalla nebbia che taglia il Cerro Torre, sbuca all’improvviso in un soffio di morte una valanga di neve. È su di noi con la rapidità di un’auto in corsa che sbuca all’improvviso da una strada laterale. Blocco le corde e mi rannicchio contro la roccia, cercando disperatamente di sopravvivere. Toni fa un rapido movimento indietro, ma viene colpito da questa enorme massa di neve e ghiaccio. Un rumore assordante, uno strappo inaspettato, pezzi di ghiaccio che mi colpiscono e la vista del ghiacciaio sospeso spazzato, sono le impressioni che ho tratto da questa veloce tragedia. Non è più necessario chiamare Toni. Qualcosa mi opprime, perché sono salvo ma intriso di questa sensazione di morte. Non riesco a rendermi conto che Toni se n’è andato, tutta la sua tecnica, tutta la sua esperienza è stata sprecata. Una massa di ghiaccio lo ha portato via mentre non poteva difendersi, nascondersi. Mi sembra tutto mostruoso. Sono preso da un panico improvviso e dalla voglia violenta di vomitare. La valanga che si è presa gli zaini… Mi sono rannicchiato nella neve, per aspettare la notte, il giorno e forse anche per morire, travolto da una di quelle dannate valanghe che si staccano dalla vetta ogni istante. Se almeno il suono del vento si fosse fermato. È così forte che non riesco più a distinguerlo da quello delle valanghe. Il vento mi passa sopra, infila violentemente il passo che è a 200 m sopra la mia testa e ulula, ulula e sbatte. 

Se almeno questo vento si fosse fermato, potrei pensare a Toni, ai miei amici, alla mia vita. Perché Toni mi aveva scritto? Non avrebbe mai dovuto inviarmi questa lettera, che ho letto e riletto finché non l’ho saputa a memoria:

Caro Cesare,
Penso che ci scriviamo per la prima volta, perché ognuno di noi sta seguendo la propria strada, io al nord e tu al sud. Eppure ogni volta che ho avuto l’opportunità di incontrarti, ero felice. Ho pensato che mi sarebbe piaciuto tanto che rifacessimo insieme la via diretta della Cima Grande di Lavaredo. Innanzitutto i miei complimenti per le nuove vie che avete aperto quest’anno e soprattutto per la Cima Grande. Personalmente quest’anno ho lavorato molto alla High Mountain School di Innsbruck e non ho potuto fare molto in montagna, ma mi sento abbastanza in forma e mi piace ancora arrampicare, sempre di più.

Notizie dall’Italia mi dicono che stai organizzando una spedizione al Cerro Torre. Mio caro Cesare, ti offro con gioia la mia collaborazione e vorrei parteciparvi. Dovrebbe avere successo.
Tienimi aggiornato e in attesa di tue notizie, ricevi i miei migliori saluti.
Toni Egger».

No, la mia spedizione non è stata fortunata. A cominciare dal rifiuto del ministero della Difesa. Poi ho contattato il capitano Baldessari, mio ​​compagno di tante salite, e non gli è stato dato il permesso di lasciare l’Italia. Tre giorni prima di partire, ho fracassato la mia macchina già venduta contro un camion, un danno da mezzo milione.

A Buenos Aires è andata misteriosamente perduta una lettera dell’Ambasciata italiana che chiedeva un aereo per noi al Ministero dell’Aviazione Militare.

Cerro Torre, versante est, itinerario dell’ascensione. Foto: ex La Montagne, aprile 1960.

Il momento particolarmente critico che stava attraversando l’Argentina non ci ha permesso di avere un aereo, e quindi ho dovuto pagare con i miei soldi il camion che ci ha portato in 7 giorni all’Estancia più vicina al guado del Rio de las Vueltas.

Durante questo viaggio ho perso una delle scarpe fatte apposta per una salita come il “Torre”.

Durante l’attraversamento del Rio Fitz Roy, nel luogo in cui è annegato Poincenot, ho quasi fatto la stessa fine; fui trascinato dalla corrente, completamente vestito, mentre ptovavo a passarlo.

Mentre stavamo allestendo il campo base, Toni è stato immobilizzato per sei giorni da un’infezione al collo del piede. Dovevamo cavarcela da soli con Fava e “i giovani”. In dieci giorni sono stati allestiti i tre campi, disimballati cibo e attrezzature e anche con Fava ho potuto attrezzare 150 m della parete est del “Torre”.

La sfortuna sembra essere finita, il bel tempo sta arrivando e Toni può riprendere il suo lavoro. Mentre i giovani continuano a trasportare materiale ai campi superiori, io e Toni riusciamo a salire un grande diedro in cima al quale, a 400 m dal suolo, abbiamo un piccolo deposito di attrezzature e viveri. Per una settimana sembriamo formiche laboriose.

All’alba usciamo dalla nostra grotta di ghiaccio, per metterci al lavoro, saliamo lungo le corde fisse che di notte spesso ghiacciano, ci leghiamo, portiamo la nostra attrezzatura e iniziamo a lavorare in modo che ogni ora, abbiamo strappato qualche metro a questa montagna, per legarla e addomesticarla. Lavoriamo finché la notte non ci sorprende, fradici e stanchi.

Ci lasciamo scivolare lungo le corde tese fino in fondo dove prendiamo piede sulla neve e ogni volta Toni dice: “Immagina Cesare, quando scenderemo di qui con il ‘Torre’ fatto”. Questa settimana il tempo ci sembra favorevole ma il vento ricomincia a spazzare le valli e il suo rumore si confonde con quello delle valanghe. Dopo tre giorni di maltempo io e Fava lasciamo la nostra tana di ghiaccio per tornare al campo 2 dove Toni ci aspetta da due giorni. E andiamo all’Estancia Fitz Roy ad aspettare il ritorno del bel tempo.

La fortuna ci ha abbandonati di nuovo. Dobbiamo aspettare più di dieci giorni, dieci giorni di vento e neve. È solo il 25 gennaio che possiamo tornare al campo 3. Il giorno successivo siamo alla base del Cerro Torre dove abbiamo lasciato un centinaio di chiodi.

Scaviamo una galleria di 15 m nella neve fresca, sgombrando da mattina a sera, ma li ritroviamo.

Il tempo sta migliorando di ora in ora e sentiamo che è giunto il momento. Sento il peso dell’impresa dentro di me, e sopra di noi, bianco e tragico è il Cerro Torre. Anche la mia attrezzatura, il mio sacco a pelo, sembra sentire misteriosamente il peso del mio scoraggiamento la sera prima della partenza. Ed eccomi qui in un momento psicologicamente drammatico. Penso a quello che mi sono lasciato alle spalle, alle mie amiche, alle ragazze con cui andavo a passeggio d’estate, ai miei, ai boschi in autunno e ai tetti scintillanti dell’inverno. Così, l’alba del 28 gennaio ci troviamo, Fava, Egger ed io, disperatamente tesi a riuscire a raggiungere il colle nord del Torre, che chiamiamo il “Colle della Conquista”. Perché in montagna “speranza” è una parola vuota, esiste solo la volontà di vincere, la speranza è l’arma dei poveri (questo è un attacco diretto a Bonatti e Mauri che avevano battezzato il colle a ovest del Cerro Torre “Colle della Speranza”, NdR).

Nel pomeriggio arriviamo alla breccia. Il Cerro Torre è 700 m sopra di noi e altri 700 m ci separano dalla sua base.

Non c’è bisogno di dire altro, se domani il tempo sarà bello attaccheremo la parte terminale. Fava ci abbraccia e si prepara a scendere da solo. Il suo sguardo implora: “tornate” e prima ancora che ci siano venute le lacrime agli occhi scompare facendo la prima corda doppia. Che entusiasmo c’è in lui! Per salvare un americano sull’Aconcagua si congelò i piedi e dovette essere amputato, ma ciò non ridusse le sue forze e il suo amore per la montagna. Fava, dal basso, recupera la corda che scorre e poi scompare alla nostra vista. Adesso siamo soli e scaviamo la buca nella neve che ci riparerà. Mi sembra irreale avere questo straordinario scalatore al mio fianco! Questo essere in grado di arrampicarsi sul ghiaccio con la stessa facilità come se fosse sulle scale di casa sua. Ci sediamo e prepariamo il tè. Contempliamo la notte più bella della Patagonia che io abbia mai visto. Una notte sorprendentemente calma, con una luna tonda e direi quasi calda. Non parliamo, pensiamo. Mi sento davvero in pace, c’è una strana calma dentro di me, il bisogno di chiudere gli occhi e sognare.

Il 29, un’alba fredda e un cielo senza nuvole incoraggiano ad affrontare lo strato di neve e ghiaccio portato dal vento e aderito ai pendii lisci e ripidi della parete, di spessore variabile tra i 20 cm e 1 metro. Su 300 m si sale sospesi nel vuoto. I nostri movimenti devono essere leggeri e delicati e i sacchi da 25 kg che portiamo aumentano la difficoltà.

Ad ogni passo, l’intera crosta emette un suono sordo come un respiro, collassa, si incrina, a volte si rompe in grandi pezzi circolari e si affonda un po’. I chiodi da ghiaccio vi affondano come nel burro, riportandoci all’illusione della sicurezza.

Parte superiore dell’itinerario con ubicazione dei bivacchi. Foto: ex La Montagne, aprile 1960.

Ad ogni tratto di corda si allestisce più velocemente possibile una cengia per sgombrare la neve dalla roccia in cui non c’è la minima crepa; bisogna poi perforare con un punteruolo d’acciaio sul quale, per fare un foro di un centimetro e mezzo, è necessario dare più di 500 colpi di martello. Nella buca inseriamo un chiodino a sezione quadrata il cui perimetro è leggermente più grande della circonferenza della cavità, si tratta di farlo entrare a forza. Su questi chiodi a espansione eseguiamo tutte le manovre di assicurazione.

Per tutto il giorno ho lasciato andare avanti Toni perché è più leggero di me. Nei punti in cui la crosta è molto sottile, Toni sale senza sacco e, ben assicurato, lo seguo senza preoccuparmi della neve che ogni tanto passa sotto i piedi, ma fortunatamente alla fine della giornata abbiamo trovato zone di ghiaccio denso e consistente. La sera ci fermiamo su una piccola cengia e scaviamo nel ghiaccio una buca abbastanza grande da ripararci.

Piantiamo chiodi da ghiaccio e chiodi a espansione. Sciogliamo la neve su un fornello per preparare il tè. Mangiamo molto la sera e la mattina, mentre durante l’arrampicata ci nutriamo di zucchero e cioccolato.

Non stiamo parlando del rischio che stiamo correndo, sappiamo entrambi che qualche grado di calore in meno sarebbe la nostra fine; ma la vetta è lì, in alto, nascosta da grandi strapiombi di ghiaccio, e lassù dobbiamo arrivare. Questo pensiero ci culla e ci fa addormentare finché non diventa così intenso da svegliarci prima dell’alba.

Il tempo è sempre bello. Alcune nuvole molto alte stanno avanzando nel cielo e fa freddo. Abbiamo bisogno della giornata per scalare 250 m di una parete che è diventata essenzialmente glaciale. A volte duro ed eccellente, a volte squamoso e incoerente. Ci alterniamo in testa alla corda, cercando di sfruttare tutti i trucchi tecnici. Sono arrivato anche a fare una sorta di canale attraverso il quale passare per arrampicarmi su uno strapiombo di ghiaccio friabile in cui nessun chiodo poteva tenere. Ho bucato due cornici quando è stato il mio turno di essere in testa per un tratto di corda. La sera, una serie di canalini che s’intrufolano e girano in mezzo a grandi strapiombi ghiacciati ci porta velocemente al luogo del nostro terzo bivacco. Scaviamo una grotta lì e non è necessario legarci. A 150 m da noi, la vetta.

Mentre mangiamo, Toni parla della sua famiglia. Stiamo progettando di organizzare una spedizione leggera sull’Himalaya. Dormiamo profondamente nonostante l’idea di sentirci così vicini alla vetta che ci elettrizza.

La mattina del 31, abbiamo quasi completamente finito il nostro cibo, nei sacchi abbiamo solo più poche cose, chiodi, cordini, cunei di legno, moschettoni, qualche quadratino di cioccolato e un po’ di frutta sciroppata.

Cesare Maestri nel grande diedro iniziale. Foto: ex La Montagne, aprile 1960.

Attacchiamo la parte superiore. Mentre Toni sale, consulto il barometro che segna: “tempesta”. Metto in guardia Toni, e da quel momento sarà solo una corsa con il tempo. Ad ogni tratto di corda ci alterniamo e quando Toni arriva ad una sosta, improvvisamente grida: “Cesare, la vetta”. Salgo, lasciamo i chiodi piantati e sul ripido pendio ci avviciniamo alla meta quando improvvisamente, provenienti da ovest, iniziano a soffiare raffiche di vento caldo al punto da non riuscire a stare in piedi. Toni mi assicura mentre cerco di salire gli ultimi metri, quasi in piano. Mi sento come se fossi in guerra. Aspetto che la raffica cessi e corro il più lontano possibile in attesa, aggrappato alla mia piccozza, per un altro attacco di vento. E adesso questa è la cima. Toni e io facciamo un rapido giro dell’orizzonte, ci abbracciamo nascondendoci i nostri volti tesi al pensiero della morte. Questa morte che ci circonda da tutte le parti, con il nostro abbraccio che ci unisce per difenderci.

Fissati con la piccozza, per dovere sventoliamo la bandiera, Toni scatta qualche foto, mangiamo velocemente frutta sciroppata e usiamo la scatola per seppellire i nostri nomi scritti su un pezzo di carta. Sono le quattro. Toni inizia la discesa e io lo seguo. Ecco la tanto agognata vetta, un semplice pezzo di montagna, circondato da sporgenze sospese nel vuoto per più di 50 metri che minacciano di staccarsi da un momento all’altro. Mi volto risolutamente senza la minima emozione, provo solo una sensazione di disgusto e paura. 

Non si può fare che il primo che scende lo faccia in doppia. Sosterrò Toni come posso e quando arriverà alla fine della corda, preparerà il successivo ancoraggio mentre io scenderò a corda doppia. Se avessimo buttato i capi della doppia corda nel vuoto come si fa normalmente, il vento li avrebbe incasinati sbattendoli in orizzontale chissà dove.

Impieghiamo molto tempo per raggiungere il bivacco del 30, dove ci fermiamo. Il caldo si fa pesante e la neve, che comincia a sciogliersi, rotola rumorosamente lungo le pareti est e ovest. Dobbiamo solo preparare un tè e sgranocchiare due quadrati di cioccolato e un po’ di zucchero. Al riparo in questo buco, abbiamo l’impressione di essere in guerra.

Il rumore del vento ci impedisce di dormire, i suoi ululati ci fanno pensare a dei reattori, è impressionante e questo caldo soffocante ci toglie il fiato.
Toni ripete spesso: “Speriamo di non morire di morte bianca”.

La vetta è nostra, ma la nostra meta adesso si è spostata ai piedi della parete: la meta è arrivare vivi al ghiacciaio. E così il 31, abbiamo ancora una notte tragica. Fradici e stanchi riprendiamo la discesa. Per fissare la corda scaviamo grossi funghi di neve attorno ai quali lasciamo un anello di corda. E usiamo il metodo già utilizzato che consiste nell’abbassare il primo come un sacco, mentre il secondo utilizzerà scenderà in doppia.

Le scariche di neve che arrivano dall’alto o ci fanno ondeggiare o semplicemente ci sfiorano. E battuti dal vento, sotto i bombardamenti della vetta, arriviamo nel pomeriggio in fondo alla parete ghiacciata.

Foto: ex La Montagne, aprile 1960.

Chi scende per primo deve fare due fori per i chiodi a espansione perché era successo quello che ci aspettavamo, cioè la neve si era sciolta scoprendo le compatte placche di roccia. Piantare due chiodi a espansione richiede più di un’ora di sosta, battuti dal vento che si infiltra ovunque e da enormi valanghe.

Al riparo da un fungo di neve, abbiamo allestito il nostro quarto bivacco. Ci assicuriamo ai chiodi ad espansione. Non avendo più niente da mangiare, ci mettiamo nei sacchi a pelo. Cerchiamo di accendere le pastiglie di alcol solidificato, ma il vento le spegne sempre.

Siamo esausti.
Abbiamo fame.
Il vento che ulula sempre.
Valanghe che continuano a cadere.
Passiamo una notte insonne a fissare il buio.
Ad ogni tentativo, la conversazione cade dopo poche parole.

Passiamo un’altra notte e al mattino il tempo sembra odiarci. Si prosegue sempre spinti dalle scariche che portano con sé pezzi di ghiaccio. Ogni lunghezza di corda richiede ore. Arriviamo così nel pomeriggio, un po’ sotto il Colle, leggermente a est. Il fatto di essere tornati sulla nostra via ci dà l’impressione di essere già arrivati.

Ora il vento non ci raggiunge più, è solo un enorme frastuono sopra le nostre teste. Alcune raffiche più violente proiettano orizzontalmente via blocchi di ghiaccio caduti dalla vetta.

Cerchiamo di riprenderci un po’ e continuiamo a scendere. Fu solo a sera che mettemmo piede sul ripido “nevaio triangolare”, a circa 100 m dalle corde fisse. Siamo quasi al sicuro, ma le valanghe continuano a spazzare il nevaio.

È tardi, sto preparando il sito del bivacco al riparo dal pericolo. Toni osserva i dintorni. Forse spera di poter scendere prima del tramonto; ma sono già le 19 e non ho voglia di scendere di notte lungo le corde fisse, nelle condizioni in cui ci troviamo. Toni non mi parla di discesa, mi dice che vuole semplicemente rendersi conto se, più in basso, il bivacco non sarebbe più sicuro. Gli consiglio di restare e per convincerlo appoggio il mio zaino nella neve. Ma lui insiste e mi chiede di assicurarlo. Faccio passare la sua corda attraverso due moschettoni e lo abbasso velocemente come un sacco mentre si tiene alla corda con la mano destra. E venti metri sotto di me, improvvisa, arriva la tragedia. La montagna lo ha colpito a tradimento da dietro, altrimenti forse avrebbe resistito. Adesso sono solo. No, Toni non avrebbe mai dovuto scrivermi.

Cerro Torre con Torre Egger e Cerro Stanhardt a destra. La spedizione britannica del 1968 ha scalato la maggior parte della cresta di sinistra. I tentativi italiani del 1958 e del 1970, di Bonatti e Mauri, furono sul versante opposto della montagna. La via di Maestri ed Egger è salita al colle tra Torre Egger e Cerro Torre per poi risalire direttamente sulla cresta sommitale. È questa sezione che viene contestata. I critici di Maestri affermano che sarebbe stato impossibile per lui aver scalato questa distanza nel tempo dichiarato, vista la ripidità e la difficoltà manifesta del problema, e l’esperienza raccolta su salite simili della Patagonia. Foto: Hermann Wolf, ex Mountain n. 9.

Se almeno questo vento si fermasse. Le palpebre mi si abbassano ma non riesco a dormire; all’alba mi alzo stordito come un condannato a morte che, indifferente ed esausto, va verso il plotone di esecuzione. Uso i pezzi di corda rimanenti per andare alle corde fisse. Arrivo vivo in cima al diedro. Non alzo nemmeno lo sguardo al rumore delle valanghe. Continuo a scendere, ripeto il percorso fatto tante volte con Toni, mentre attrezzavamo questo diedro, e sono solo. Queste parole non mi sono mai sembrate così tristi. Io, il solitario, ora sono davvero solo.

A pochi metri dalla base, scivolo su una lastra di verglas, le mie mani non tengono più, mi lascio andare e mi ritrovo sul cono di deiezione, scivolo lungo il pendio molto ripido, attraverso la crepaccia terminale e mi fermo, stordito sul piccolo ripiano ai piedi della parete.

Da quel momento in poi non ricordo più niente. Con Fava abbiamo cercato di ricostruire la mia discesa e pensiamo sia andata così: dopo la mia caduta, proseguo sul piccolo ghiacciaio molto crepacciato, avanzo fino a 200 m dal campo 3, dove Fava ci aspettava solo dalla sera del 28. Sei giorni dopo decide di tornare al campo 2 per cercare i giovani e iniziare a cercarci. Ma uscendo dalla grotta vede una macchia scura e, incuriosito, va a rendersi conto di cosa sia, mi trova mezzo sepolto sotto la neve, accucciato sul bordo di un grande crepaccio che mi blocca la strada.

Fava mi porta al campo 3 dove cerca di rianimarmi. Poi mi trascina al campo 2. Il giorno dopo parte con i “giovani” verso il campo 3, alla ricerca del corpo di Toni. Ma il maltempo rende impossibile quest’impresa. Due giorni dopo lasciamo il campo di ghiaccio, sotto una forte nevicata per raggiungere il campo 1.

Apertura articolo su Ascent, luglio 1971

Adesso sono tornato a casa, tra i miei amici, preso dalle mie abitudini e sento ancora di più la mia solitudine. Non avrò mai più Toni al mio fianco e i miei compagni di spedizione vivono in un’enorme metropoli così vasta che non riesco nemmeno a immaginarla in un luogo familiare.

Quanta tristezza e amarezza mi ha portato questa vetta del Cerro Torre e quanto anche la lunga strada che la separa da Trento.

Mi è rimasto solo un ricordo, una valigetta piena di lettere e fogli. La prima che mi scrisse Fava nel 1953, raccontandomi di una possibile spedizione al Cerro Torre. Quella di Manfredo Segre, presidente dell’allora sezione del CAI di Buenos Aires che, dopo avermi offerto di partire sotto il suo patrocinio, mi augura di vedermi guidare un plotone di alpinisti che pianterà la bandiera italiana sul Cerro Torre.

Fu solo nel 1956 che riuscimmo quasi a formare una spedizione, ma organizzata dal Circolo Trentino di Buenos Aires, la sezione CAI ormai sciolta. Siamo finalmente partiti nel dicembre 1957 con una spedizione sponsorizzata dalla SAT e dal Circolo Trentino e capeggiata dalla guida Bruno Detassis.

In mare, apprendiamo che il signor Folco Doro d’Altan ha pagato un biglietto aereo per Bonatti e Mauri, come squadra di punta di una spedizione italo-argentina.

Nessuno è arrivato in cima. Il nostro capo spedizione ha dichiarato impossibile il “Torre” e ci ha proibito di attaccarla.

Siamo tornati. Ho lasciato la mia piccozza al Circolo Trentino di Buenos Aires con la promessa di tornare a prenderla e piantarla in cima al Cerro Torre. Nell’estate del 1958, ognuno preparò questa spedizione per proprio conto, alcuni strombazzandola, altri in silenzio.

Nell’autunno del 1958 i francesi chiesero al CAI se intendevano organizzare una spedizione ufficiale al Cerro Torre. Il CAI, rispondendo negativamente, ha quindi lasciato via libera ai francesi.

Jean Couzy ha chiesto a Bonatti quali fossero le sue intenzioni, ma nessuno si è ricordato che anch’io avevo la mia parte di diritti su questa montagna.

Ho avuto notizia, indirettamente e in maniera inesatta, di questa corrispondenza tra francesi e italiani.

Da Ascent, luglio 1971

La notizia della morte di Couzy mi ha toccato duramente. Pur non conoscendolo personalmente, lo stimavo e l’avevo sempre classificato come lo scalatore più forte e completo del mondo.

Sebbene non mi avesse contattato, non avrei lasciato Trento se avessi saputo che Couzy era partito per il Cerro Torre. Solo dopo la sua morte sono andato a Buenos Aires, dopo aver raccolto due milioni e mezzo di lire.

Non abbiamo avuto alcun aiuto ufficiale. Toni Egger ha partecipato per 250.000 lire. E uno dopo l’altro siamo partiti in silenzio per Buenos Aires. Non mi piacciono le fanfare che suonano all’inizio, preferisco quelle alla fine.

Su questa grande montagna, Toni ha lasciato la sua vita, ha pagato a caro prezzo il suo sogno. Ma ora sta dormendo pacificamente; né il freddo né l’ululato del vento lo disturberanno più. Dorme circondato dai colori che fluttuavano in alto. Perché tutte le bandiere del mondo riflettono i colori della splendida natura che circonda Toni. L’azzurro del cielo, il bianco della neve, il verde dei boschi e il rosso del caldo.

Adesso sta dormendo.

Ci ha lasciato il compito di scrivere questa storia, ma allo stesso tempo c’è nel mondo dell’alpinismo, come nei nostri cuori, un vuoto che niente potrà mai colmare.

Cerro Torre. Foto: Leo Dickinson, ex The American Alpine Journal 1973.

Ora procediamo a raccogliere qui di seguito, ed esposti in ordine di data, i primi articoli apparsi sulla stampa estera che mettevano in dubbio l’impresa di Cesare Maestri del 1959.
Al di là delle voci e dei sussurri, la prima nota che osò riportare l’ormai diffuso dissenso fu stampata su Mountain nel maggio 1970.
In essa e negli articoli seguenti siamo ancora ben lontani dal cercare (per iscritto) le prove della presunta menzogna. Perfino John Bragg, che nel febbraio 1976 con Jim Donini e Jay Wilson era salito al Colle della Conquista per poi conquistare la Torre Egger, nel suo articolo Torre Egger apparso su The American Alpine Journal del 1977 non faceva minimamente cenno al fatto di non aver trovato, dopo il Nevaio Triagolare, alcun segno di passaggio di Maestri, Egger e Fava. I tre lo dissero solo molto in seguito (la Redazione).

Cerro Torre: West Face
(Mountain, n. 9, pag. 26, maggio 1970)

La spedizione italiana menzionata in Mountain n. 8 non è riuscita a scalare la vetta. La spedizione di nove uomini, guidata da Carlo Mauri, non includeva, come originariamente riferito, Cesare Maestri. Dopo l’arrivo all’inizio di gennaio, la squadra ha tentato la parete ovest del Cerro Torre, che si affaccia sulla calotta glaciale. Questa era la linea provata originariamente da Walter Bonatti e Carlo Mauri nel 1958. Questa volta, il gruppo riuscì a salire fino a circa 200 m della vetta, prima di essere respinto dal maltempo a fine gennaio. Fino a quel momento l’arrampicata era caratterizzata per lo più da un lavoro su ghiaccio molto ripido sotto la costante minaccia di scariche. Ci sono stati diversi tentativi falliti sul Cerro Torre, che hanno coinvolto alcuni dei migliori alpinisti del mondo. Il fallimento di questa spedizione italiana forte ed esperta investe il Cerro Torre di un prestigio ancora maggiore, come una delle grandi mete dell’arrampicata internazionale. La prima salita, rivendicata da Maestri nel 1959, è oggi apertamente contestata in Italia. Eppure, in una recente intervista a una rivista italiana, Maestri ha ribadito le sue affermazioni di aver scalato la vetta. Ha anche dichiarato che, pur non avendo intenzione di ritornare al Torre, è interessato ad affrontare la vicina Torre Egger e spera di organizzare una spedizione per questo scopo. Una spedizione britannica ha già questa montagna tra i suoi obiettivi nella prossima stagione.

In alto sul Cerro Torre: le frecce indicano gli scalatori. Foto: Leo Dickinson, ex The American Alpine Journal 1973.

Enigma Cerro Torre: parla Maestri
(Mountain, n. 9, pag. 32, maggio 1970)
(traduzione di un’intervista a Cesare Maestri, pubblicata sulla Domenica del Corriere. Reporter: Guido Carretto)

“Vorrei davvero che Mauri fosse arrivato in cima al Cerro Torre”, ha detto Cesare Maestri. “Avrei speso tutti i soldi che ha speso lui. E se solo l’avesse tentato dalla mia parte, l’avrebbe sicuramente fatto. La sua spedizione avrebbe fatto più facilmente ciò che entrambi abbiamo voluta fare. Mauri è un grande alpinista e aveva con sé una squadra di prim’ordine. Secondo me hanno sbagliato a scegliere la via che hanno scelto, con quel vento infernale. Ho visto parti del loro film in televisione: un solido muro di ghiaccio. Ma sul nostro lato noi non abbiamo mai incontrato un muro di ghiaccio e per di più eravamo al riparo dal vento”.

Cesare Maestri scalò il Cerro Torre con Toni Egger, verso la fine di gennaio 1959. Tre persone si avventurarono nella prima parte dell’assalto finale. Poi, secondo il piano, Cesare Fava è tornato indietro e ha lasciato gli altri due a completare la via della parete nord della “montagna impossibile”. Durante la discesa, Egger è stato ucciso da una valanga. Spazzate via con lo scalatore tutte le prove fotografiche che la vetta era stata raggiunta.

Adesso, undici anni dopo, ero venuto quassù per parlare con Maestri dei giorni trascorsi al Cerro Torre, per ricostruire con lui i suoi ricordi della salita e per cercare di coinvolgerlo in una conversazione su un punto particolare, per quanto spiacevole potesse essere, vale a dire i dubbi che alcune persone hanno sul successo della sua impresa. Undici anni fa, oso dire che Maestri mi avrebbe detto di andare all’inferno. Ma ora, all’età di quarant’anni, il “ragno delle Dolomiti” sembra aver smussato la maggior parte degli spigoli vivi del suo temperamento, almeno in superficie. Parlava abbastanza volentieri, lentamente e lungamente, nel suo dolce accento trentino che ogni tanto lasciava il posto a coloratissime escursioni nel dialetto locale.

Cerro Torre: le frecce indicano gli scalatori. Foto: Leo Dickinson, ex The American Alpine Journal 1973.

“Mi parli di spedizioni che si sono ritirate dal Cerro Torre negli ultimi anni e che molte persone si sono chieste come due uomini avrebbero potuto scalare una montagna che ha resistito a tutti gli altri tentativi fino ad oggi. Beh, non sono un trombettiere e non mi piace parlare in questo modo, ma dovrò farlo comunque. Perché sono l’unico alpinista al mondo ad aver scalato vie di sesto grado in libera? Per quanto ne so, potrebbe non esserci nessun altro al mondo in grado di scalare il Cerro Torre. Si potrebbe dire che a quei tempi sapevo qualcosa sull’arrampicata e ancora adesso”.

Vuoi dire che, come alpinista, sei migliore degli altri che hanno fatto i tentativi?”.
“Credo che tutto quello che ho fatto sia stato fatto, non perché tecnicamente sono un alpinista migliore degli altri, ma per il processo mentale che avviene dentro di me e che matura prima delle salite. Qualsiasi salita ho deciso di fare, l’ho sempre fatta. Per quanto riguarda il Cerro Torre, credo di essere stato aiutato, all’inizio, dall’avere con me Toni, che è stato superbo sul ghiaccio. Per Toni, il Cerro Torre non era niente: una passeggiata della domenica pomeriggio. Toni dal canto suo è stato aiutato dalla mia determinazione a farcela: avevo deciso di raggiungere la vetta ed era tutto ciò che contava per me. Poi entrambi siamo stati aiutati da quei dieci giorni di maltempo che hanno coperto di neve la parte superiore della torre”.

Rendendo il compito più facile, se più facile è la parola?“.
“Giusto. Perché, vedi, le gravi difficoltà – le robe di sesto grado – sono nella parte bassa, che Fava ci aveva già aiutato ad attrezzare con corde fisse. Più in alto, il tratto difficile sarebbe stato tra il colle, dove ci ha lasciato Fava, e gli strapiombi di ghiaccio. Sembrano cavolfiori giganti, ma puoi metterti tra i cavolfiori, vero? Puoi scavare una buca per passare, se necessario. Non c’era un modo ovvio: si scavavano gallerie come fanno i conigli e Toni, povero diavolo, era fenomenale sul ghiaccio. La parte davvero difficile avrebbe dovuto essere quella che abbiamo fatto il 29, dal colle ai cavolfiori – trecento metri di dislivello. Mi chiedi come siamo riusciti a farlo in un giorno? Semplicemente perché non era strapiombante e per via della neve. Era come scalare un ripido pendio innevato che si sgretolava. Non c’era niente di verticale come quella roba che ho visto nel film della spedizione di Mauri. D’accordo, assomigliava più alla roulette russa che all’arrampicata, ci voleva pelo per il pericolo di valanghe che cadevano con il caldo. Ma, nervi a parte, è assurdo dire che c’era una tale differenza tra il Cerro Grande (presumibilmente Paine Grande, salita da Bonatti e Gobbi nel 1958 , NdR) e il Cerro Torre”.

Torneresti al Torre?”
“L’ho fatto una volta, e basta. Non lo rifarei, anche se potessi tornare indietro nel tempo: principalmente perché Toni è morto là. In ogni caso, è una vittoria che non ha significato niente per me: mi ha lasciato un vuoto, anche del malessere. Ma tornerò nello stesso gruppo. Penso di aver trovato i soldi per fare una spedizione alla vetta vicino al Cerro Torre, che ora abbiamo ribattezzato con il nome di Toni. È di quattrocento metri più bassa, ma ha le stesse condizioni meteorologiche. Voglio farla quando è inverno in Patagonia. Una spedizione di cinque alpinisti. E raggiungeremo la vetta. E questa volta riporterò indietro un paio di migliaia di foto!”.

In questo modo nessuno potrà avere dubbi“.
“Non ci sono prove fotografiche della salita del Fitz Roy, vero? Ma nessuno ha mai messo in dubbio che Guido Magnone ce l’abbia fatta. Ci sono decine di montagne per le quali non c’è alcuna prova della salita e la parola dello scalatore è accettata. Dobbiamo tornare di nuovo all’inizio? Se anche gli altri andranno a ripetere tutte le loro ascensioni, solo per avere una prova, allora anche io tornerò indietro e ripeterò la mia. Ho fatto cose da solo che nessuno ha mai fatto. E, in compagnia di un alpinista d’eccezione, ho fatto il Cerro Torre. Inaccessibile, dicono? Quindi è per qualcuno che non ha la capacità di farlo. Ma sono pronto a discutere con chiunque, in particolare con certi gentiluomini di paesi stranieri, a condizione che vengano a giocare le loro carte in modo equo. Lascia che vengano e ci mostrino che hanno fatto almeno un terzo di quello che ho fatto io, e risolveremo finalmente l’intera faccenda. Alcune di queste cose ti fanno star male: ti mostrano come sono veramente le persone. Forse non te lo ricordi, ma credo che nel 1956 feci da solo il Cervino in inverno. L’ho fatto in un tempo ridicolo, così ridicolo infatti che, dopo essere sceso, Pellissier e un altro hanno ripetuto la salita per vedere se ero davvero arrivato in vetta. Avevo lasciato un pezzo di carta di una tavoletta di cioccolato incastrato nella croce. È sceso e mi ha detto: “Sì, sei arrivato in vetta di certo”. “Pellissier” risposi “non era la mia salita che stavi mettendo in discussione in quel momento, era l’intero concetto di alpinismo”.

Ora dico a questi signori la stessa cosa che ho detto a Pellissier: “State mettendo in dubbio l’intero concetto di alpinismo”. Ho fatto l’assolo sul Cervino in inverno. L’ho fatto in un momento ridicolo, così ridicolo infatti che, dopo essere sceso, Pellissier e un altro hanno ripetuto la salita per vedere se ero davvero arrivato in vetta. Avevo lasciato un pezzo di carta di cioccolato incastrato nella croce. È sceso e mi ha detto: “Sì, sei arrivato in vetta benissimo”. “Pellissier,” risposi, “non era la mia salita che stavi mettendo in discussione in quel momento, era l’intero concetto di alpinismo.” Ora dico a questi signori la stessa cosa che ho detto a Pellissier: “State mettendo in dubbio l’intero concetto di alpinismo”. 

Eric Jones all’inizio della scala a chiodi del Cerro Torre. Foto: Leo Dickinson, ex The American Alpine Journal 1973.

Secondi pensieri sul Cerro Torre
di Douglas Tompkins
(da Ascent , vol. I, n.5, luglio 1971)

Non c’è successo come il fallimento e il fallimento non è affatto un successo (Bob Dylan)”.

6 gennaio 1971, Patagonia argentina. È passato quasi un mese dalla partenza della spedizione. Le lattine iniziano ad arrugginire, la carta è ammuffita. Il loro campo base sembra una discarica cittadina dove le persone portano le loro auto al bordo e spingono fuori tutta la spazzatura. Chi erano? Chi potrebbe lasciare un tale casino? Non potevano essere della nostra specie. E perché questo campo base sotto una delle vette più spettacolari del mondo dovrebbe essere così rovinato? Forse è stato visitato da un’orda di abitanti delle città, ignari dello spirito delle montagne. La risposta si è imposta lentamente…

Torniamo indietro di dodici anni in questo stesso posto. Due giovani alpinisti, ambiziosi e idealisti, sono venuti dall’Europa per cimentarsi in una prima salita così ardita che i loro compagni alpinisti in Europa non potevano nemmeno capire l’entità dell’impresa. La loro impresa divenne una tragedia, uno morì e persino il loro apparente successo fu offuscato da storie mutevoli e imprecise. Tuttavia, lo spirito affine della comunità di arrampicatori li ha accreditati del successo. In più, anche i più grandi acclamarono il loro trionfo. Eppure un piccolo residuo di dubbio è rimasto ad affliggere le nuove generazioni di alpinisti. Deve aver tormentato anche il leader sopravvissuto della controversa scalata, perché a quanto pare si è sentito obbligato a tornare, dodici anni dopo, per rifare la sua impresa.

Ma dodici anni avevano portato via molte pretese: dodici anni di dubbi che erodevano la fiducia in se stessi dei giovani, chissà? Ma questa volta invece dell’idealismo ha portato una massa di attrezzature così moderne e così bizzarre che, al confronto, il leggendario Mad Bolter californiano sembrerebbe un raffinato chiodatore di A5. La difficoltà, l’impossibilità, di quella scalata di dodici anni fa, aveva fatto una tale impressione? Era questo il risultato di dodici anni di energia psichica che lavorava per sopprimere un’immensa menzogna?

Questa spazzatura, quaggiù sotto la vetta, che riecheggia così perfettamente la spazzatura meccanica sollevata e abbandonata appena sotto la vetta, quella macchina pazza per fare buchi in pochi secondi. Spazzatura e compressori, si deve supporre che abbiano una specie di affinità, perché grazie a Maestri, questo oggi è lo spirito del Torre – un brutto inizio di polemiche – spazzatura…

Sì, Cesare Maestri ha stabilito oltre ogni dubbio che è stato davvero il primo uomo a salire in cima al Cerro Torre; ma diciamo chiaramente, pubblicamente, cosa ci indica questo nuovo successo (a me stesso e a tutti quegli alpinisti con cui ho discusso la questione). È immensamente improbabile che chiunque abbia scalato una vetta come il Cerro Torre, in un modo brillante, alpino e leggero, sia poi tornato per scalare la stessa montagna nello stile tecnologicamente più assurdo e discutibile. Vale a dire, i modi stessi dell’ascensione del 1970 smentiscono qualsiasi pretesa di ascensione precedente!

Quanto alla validità della nuova via fatta a macchina, possiamo dire che, seppur deplorevole, ha almeno chiarito i nostri dubbi sulla salita Maestri-Egger. Il Cerro Torre non può essere violato più di quanto il mondo dell’alpinismo possa essere ingannato.

Cerro Torre, la parte superiore. Foto: Leo Dickinson, ex The American Alpine Journal 1973.

Cerro Torre – Maestri parla ancora
(Mountain, n. 18, novembre 1971)
Quella che segue è una traduzione in italiano del testo che Alan Heppenstall tradusse da una lettera in italiano di Cesare Maestri.

Noto che ci sono state molte polemiche sulla mia salita del Cerro Torre (del 1970, NdR), e anche qualche incertezza sull’esatta via seguita. Per quanto riguarda quest’ultima, è stata proprio la via tentata dalle spedizioni britanniche, spagnole, giapponesi e argentine – ovvero la cresta sud-est (1). D’altro canto, non vedo motivo per cui non dovrei attaccare (con successo come si è visto) una via su cui molti altri avevano fallito semplicemente perché dieci anni prima avevo scalato la stessa montagna per una via completamente diversa. Non è raro realizzare più vie sulla stessa montagna: in Dolomiti ad esempio ho più vie diverse su una parete.

Provo a spiegare cosa mi ha spinto a salire una seconda volta sul Cerro Torre. Arrampico ad alto livello ormai da vent’anni o più. Ho scalato con compagni e ho scalato da solo; ho fatto prime ascensioni e prime ripetizioni di vie difficili; ho fatto gli stessi percorsi in salita e in discesa, in estate e in inverno, di giorno e di notte. In effetti, ero arrivato al punto in cui nessun problema alpinistico esistente poteva darmi la soddisfazione del risultato di cui avevo bisogno. La parola “impossibile” semplicemente non aveva più significato per me. Se un tiro qualsiasi era un esercizio di arrampicata libera, lo arrampicavo in libera: se richiedeva dell’artificiale, la usavo.

Quando i miei amici ed io abbiamo iniziato a chiodare a pressione abbiamo provocato una tempesta di critiche che non si è ancora placata. Si sono levate voci per protestare contro la “degenerazione dell’alpinismo”, “l’arrampicata facile”, “tattica da poltrona”. I puristi hanno detto che “le montagne non dovrebbero essere profanate praticandovi dei buchi” e che “la perforazione è disonesta”, “gli aiuti artificiali devono essere limitati”.
Abbiamo risposto: “posizioniamo i chiodi a pressione solo dove la roccia è priva di crepe e impraticabile con qualsiasi altro mezzo – o dove vogliamo proteggerci. A rigore tutta l’attrezzatura d’arrampicata è artificiale – se vogliamo limitare un gadget, dovremo limitarli tutti”. Davvero la mia posizione era inattaccabile. Nessuno provava a capire che io non sapevo come arrampicare, perché se lunedì faccio una nuova via su chiodi a pressione, il martedì posso fare in solitaria su e giù per la stessa via e il mercoledì posso fare una nuova via, in libera e in solitaria.

Cerro Torre: il fungo finale. Il più alto punto raggiunto da Maestri è alla base sinistra. Foto: Leo Dickinson, ex The American Alpine Journal 1973.

Quindi ho solo sorriso alle critiche, sapendo benissimo che la maggior parte proveniva da persone che non avrebbero potuto sollevarsi a 6 metri da terra con o senza aiuto! Verso la fine scalare per me è stato un piacere fisico, né più né meno, e parlare di etica alpinistica, accuse sussurrate, semplicemente non attaccava: appartenevano a un altro mondo da cui mi ero allontanato.

Ma quando lo scorso inverno una spedizione è tornata in Italia sconfitta dal Cerro Torre (2) e ho sentito il leader usare termini come “impossibile” e “inaccessibile” riferendosi alla montagna, allora mi è ribollito il sangue: ho sentito accendersi dentro di me la fiamma dell’azione e quella decisione che anni fa mi aveva spinto a compiere azioni inaudite e mai ripetute. Sono rimasto sveglio per notti intere ma la fiamma non si è spenta e la decisione si è trasformata in determinazione: sarei tornato al Cerro Torre. Per di più ci sarei andato in inverno e avrei attaccato la montagna per la sua via più difficile, che aveva sconfitto tutte le spedizioni che l’avevano provata fino ad oggi. La storia di ciò che è seguito è ormai ben nota: le nostre lotte con l’inverno della Patagonia, i 54 giorni che abbiamo trascorso sulla montagna, il ritiro quando il nostro cibo si è esaurito e il nostro ritorno in Patagonia – e il successo – l’estate successiva. Le mie emozioni mentre mi trovavo sulla vetta del Cerro Torre per la seconda volta, e dopo il mio ritorno, erano piuttosto diverse da qualsiasi cosa avessi mai provato su una montagna. Man mano che la tensione della salita si allentava, mi rendevo conto che davvero non avevo scalato una montagna fine a se stessa, e che, a differenza delle salite cui ero abituato, la bellezza estetica della vetta e della linea di salita aveva significato poco per me. Questa era un’ascensione cui ero stato costretto da altri uomini per difendere la mia reputazione e per dimostrare che ero ancora in grado di mettermi alla prova tra gli scalatori. E ancora più di questo, avevo dovuto mettermi alla prova ai miei occhi. Io stesso avevo bisogno di essere convinto di poter resistere di fronte alle critiche e all’incredulità, ed è stato solo quando questo è stato fatto che mi sono sentito in grado di tornare al tipo di arrampicata che conoscevo.

Ma l’esperienza è stata profondamente triste. Naturalmente al nostro ritorno in Italia le critiche si sono scatenate di nuovo, mentre il Capo dello Stato, uomini e personaggi importanti ai margini della strada ci ringraziavano per il nostro risultato, i perdenti hanno ripreso la questione. Non era più il chiodo a pressione ad essere attaccato ma il compressore. La crescente meccanizzazione dell’arrampicata è stata messa a fuoco, ma non si è pensato ai valori umani, atletici e sportivi della nostra impresa, che sono rimasti immutati anche con l’uso di quel macchinario e che erano lo scopo principale della nostra spedizione. Credo di essere sempre stato in prima linea nello sviluppo delle tecniche di arrampicata, ma non userò mai inutilmente alcun aiuto. Il compressore è stato utilizzato solo per velocizzare il lavoro di posizionamento dei chiodi a pressione e questi sono stati utilizzati solo dove era impossibile procedere senza (3).

Sulla cresta sud-est del Cerro Torre. Foto: ex La Montagne, gennaio 1973.

In ogni caso non ci interessa ascoltare le critiche. Stiamo inventando, diciamo, un nuovo marchio di arrampicata che integrerà, non sostituirà, il vecchio. Siamo grandi estimatori dei nostri predecessori, e ripetiamo le loro vie volentieri (spesso in solitaria) meravigliandoci delle loro conquiste, ma stiamo cercando di portare avanti la tecnica di arrampicata e attraverso tecniche rivoluzionarie per esaltare, senza sminuire, i valori umani dello sport, perché le nuove tecniche renderanno possibili maggiori conquiste che richiedono maggiori doti di carattere e migliori qualità umane. Il coraggio necessario per trascorrere 54 giorni sulla parete del Cerro Torre in inverno non è stato da meno perché avevamo il compressore; tuttavia senza il compressore non avremmo potuto raggiungere questo obiettivo.

Arrampico per l’aspetto umano di questo sport. Se dovessimo tornare ai giorni degli scarponi chiodati e farla finita con tutta la nostra attrezzatura moderna inclusa la nostra corda di nylon, dovrei comunque cercare di essere in prima linea nelle vie più difficili di quel tempo. Ma credo che sarebbero pochi, tra gli alpinisti di oggi, a farmi compagnia. Tuo ecc. Cesare Maestri.

Note
(1) Nonostante la sua affermazione, Maestri ha successivamente ignorato tutte le richieste di tracciare l’esatta linea di salita su una fotografia.
(2) La spedizione da Lecco, guidata da Carlo Mauri (vedi Mountain n. 11).
(3) Ciò contraddice un precedente articolo dello stesso Maestri (pubblicato su Mountain n. 16), in cui afferma che alcune sezioni del muro terminale avrebbero potuto essere salite usando chiodi normali, ma poiché questi erano stati lasciati ai piedi della montagna era necessario chiodare a pressione per tutto il percorso.

Sulla headwall della cresta sud-est del Cerro Torre durante l’ascensione del 1970. In primo piano: il dispositivo di perforazione; al centro delle lastre, molto più in basso, il compressore. Foto: ex La Montagne, gennaio 1973.

Cerro Torre: l’undicesimo fallimento
di Leo Dickinson
(da The American Alpine Journal, 1973)

Ora sembrerebbe possibile che undici spedizioni non siano riuscite a raggiungere l’inafferrabile vetta del Cerro Torre. L’unico successo è la via originale della parete nord di Maestri con Toni Egger. Dopo aver parlato con Maestri della sua via del 1959, ora credo che nessuno in vita saprà mai se sia effettivamente arrivato o meno alla vera vetta del Cerro Torre. Maestri è stato interrogato e ha ripetuto la sua storia tante di quelle volte (i suoi ricordi sono vaghi e mantengono i ricordi incentrati sulla tragica morte di Egger a tal punto che il fatto che abbia scalato o meno è ormai irrilevante) che se ne è auto-convinto.

A causa degli scettici Maestri tornò nel 1970, scalando la montagna con un compressore pneumatico, ma così facendo fece ricadere su se stesso un torrente di critiche e disprezzo. Per sua stessa ammissione, Maestri ha raggiunto solo il ripiano in cima alla headwall, ignorando gli ultimi 70 metri di fungo ghiacciato che segna la vera vetta; lo liquidò semplicemente dicendo: “È solo un pezzo di ghiaccio, non fa veramente parte della montagna: uno di questi giorni volerà via”. Ho fotografie che mostrano granito almeno 10 metri più in alto del ripiano raggiunto da Maestri, quindi se si stabilisce che la vera vetta è quella rocciosa ma anche se si considera vera cima solo i funghi ghiacciati al di sopra, in ogni caso Maestri NON ha raggiunto il punto più alto del Cerro Torre nella sua ultima spedizione… e almeno questo è assodato.

La nostra spedizione lasciò l’Inghilterra nel novembre 1971. Tre settimane dopo eravamo in viaggio verso la cresta sud-est e il Colle della Pazienza. Hans Peter Trachsel realizzò una grotta di ghiaccio tipo quelle che aveva imparato a costruire nell’esercito svizzero. C’erano due stanze: una cucina e una mensola per dormire. Questa era generalmente fornita delle comodità che ci sembravano più confortevoli. Il giorno dopo Santo Stefano abbiamo iniziato il nostro assalto al Torre. Prima c’era un camino pieno di neve e ghiaccio che portava a una vecchia traversata a corda che ricordava l’Hinterstoisser sull’Eiger. Ma questa era la “Traversata del Ritorno” – dove lo stesso Hinterstoisser mai avrebbe recuperato le sue corde. Eravamo come degli yo-yo: ognuno attraversò e riattraversò il corrimano fisso una dozzina di volte durante la spedizione.

Sopra c’erano altri due tiri di roccia che raggiungevano la cima della prima torre. Poi spigoli di neve, lastroni, camini, altra neve fino a stranamente un lastrone tempestato di chiodi a pressione. La mia prima impressione è stata quella di fotografarli. Ho preso la mia macchina fotografica e sono rimasto sorpreso di scoprire che potevo azionarla con entrambe le mani semplicemente stando in piedi su questa placca poco inclinata! Noi pensavamo che la scala di chiodi fosse solo su rocce ben più ripide, su muri lisci e inscalabili.

Non avevamo affatto intenzione di usarli perché li avevamo accettati solo per la headwall finale.

Di fronte a noi ora si profilava una massa di ghiaccio del peso di forse dieci tonnellate e impossibile da scalare, perché non sembrava davvero attaccata alla montagna, tranne che per le vecchie corde sbrindellate che emergevano dalla sua sommità.

Tra discussioni, dibattiti, esitazioni e frustrazioni ci siamo messi a scalare quella riga di chiodi a pressione di 130 metri. Per fortuna, dopo, i chiodi a pressione erano scomparsi e sono emersi camini simili (ma più duri) alle “fessure di uscita” dell’Eigerwand. Lì chiodi a pressione non ce n’erano, quindi l’arrampicata è migliorata. Sopra c’era un’altra scala a chiocciola (questa volta alta solo 20 metri ma ormai non c’era più nessuna regola) e non ci sembrava neanche più giusto attrezzare un tiro di A1 solo due metri più a sinistra.

Hans è andato da primo su un tiro così ripido e ostico che secondo Eric Jones conteneva dei tratti di scalata tra i più difficili che avesse mai fatto. Cosa aveva fatto Maestri lì? Il giorno seguente noi tre siamo stati sostituiti da Cliff Phillips e Gordon Hibberd. Si spinsero più in alto fino alle torri di ghiaccio.

Quando furono a soli 15 metri dalla headwall, con la linea di chiodi a pressione di Maestri che scompariva verso l’alto nella nebbia, le nuvole si avvicinarono. Quello rimase il nostro punto più alto. Per 40 giorni i venti ci hanno ricordato le leggende patagoniche della terra della tempesta. Al nostro ritorno le corde erano distrutte; i venti avevano vinto. Era la fine dell’estate: Lionel Terray aveva ragione.

Sommario
Area: Patagonia, vicino al confine cileno-argentino.
Ascensione tentata: cresta sud-est del Cerro Torre, dal novembre 1971 al febbraio 1972.
Alpinisti: Eric Jones, Cliff Phillips, Hans Peter Trachsel, Gordon Hibberd, Peter Minks, Leo Dickinson.
Nota del redattore: il lettore troverà affascinante l’intervista a Cesare Maestri che si può leggere su Mountain del settembre 1972. Questo include anche altro materiale interessante sul Cerro Torre.

Su un muro liscio della cresta sud-est del Cerro Torre: in salita sulla fila di chiodi a espansione. Foto: ex La Montagne, gennaio 1973.

Cerro Torre
(nella rubrica Climbs and expeditions de The American Alpine Journal, 1973, pag. 478)

Non accenna a diminuire il clamore per la salita del 1970 al Cerro Torre di Cesare Maestri, nella quale gli alpinisti italiani hanno piazzato un numero enorme di chiodi a pressione con l’ausilio di un trapano pneumatico. Si ricorderà che nel 1959 Maestri rivendicò la prima salita per parete est, colle nord e cresta nord. In questa salita era accompagnato da Toni Egger, che durante la discesa è stato travolto a morte da una valanga. Nel corso degli anni sono stati espressi sempre più dubbi sul fatto che fossero effettivamente arrivati ​​in cima. La salita di Maestri nel 1970 apparentemente non si è conclusa in vetta ma sulla spalla sotto l’ultimo fungo di ghiaccio, circa 70 metri dalla cima. Mountain n. 23 del settembre 1972 ha dedicato gran parte della questione al Cerro Torre. È incluso un pezzo sulle salite di Maestri e uno sul tentativo anglo-svizzero del 1972.

La Torre di Babele
di Alain de Chatellus
Da La Montagne n. 1, 1973, pag. 27

“ Per questo si chiamava Babele perché il Signore ha confuso la lingua dei popoli e li ha dispersi (Genesi XI)”.

Mentre si avvicinano ai limiti delle loro possibilità in quota, gli alpinisti moderni sembrano colti da una vertigine intellettuale. Come i loro predecessori biblici, sono colpiti da una confusione di spirito e linguaggio.

Le alte montagne pongono l’uomo in condizioni così estreme che tutta la tecnologia moderna gli consente solo di sopravvivere.

L’“uomo nudo” di Pierre Mazeaud non andrebbe lontano, ma si interroga sui limiti entro i quali ha il diritto di usare il suo genio inventivo.

Per i civilizzati, riconnettersi con la natura, dal campeggio all’Himalaya, è diventato una sorta di gioco essenziale. Tuttavia, qualsiasi gioco, qualsiasi attività sportiva sia essenzialmente intellettuale, deve quindi includere delle regole. L’alpinismo non è mai stato codificato come l’atletica, la boxe o il tennis e ciascuno rivendica con forza il diritto di applicare le proprie concezioni. Dialogo dei sordi, che genera confusione.

Questo conflitto, antico quanto l’alpinismo, è stato appena riportato alla luce grossolanamente nella vicenda del Cerro Torre.

Una parete di ghiaccio in mezzo a grandi muri di roccia. Foto: ex La Montagne, gennaio 1973.

Ricordiamo brevemente i fatti: il 25 gennaio 1959 Cesare Maestri, famoso alpinista italiano, specialista nelle Dolomiti, e Toni Egger, alpinista di prima forza, sia su roccia che su ghiaccio, provano il Cerro Torre nelle Ande della Patagonia, una sorta di mostruoso complesso di difficoltà estreme. Scelgono la parete est fino al valico nord, esposta alle valanghe, ma che non sembra peggiore del resto. Dal passo, raggiunto dopo un lungo lavoro di attrezzatura (una settimana per 400 m), seguono non il crinale ma una sfaccettatura larga alla base circa 200 m, intonacata di ghiaccio e neve dura di spessore da 25 cm a 1 m; il muro sottostante è completamente liscio. Il clima è freddo. La pendenza media è di 50° (secondo Maestri), altri dicono di più (70°, secondo le foto).

Prendendosi tutti i rischi, salgono 300 m, con chiodi da ghiaccio e sulle punte frontali di ramponi, piantando chiodi a espansione alle soste nella roccia sottostante che riescono a liberare senza far crollare le placche di ghiaccio (notare che non piazzano corde fisse come invece avevano fatto sotto al Colle). Si tratta di dieci lunghezze di 30 metri e ciascuna lunghezza richiede circa 1 ora.
Bivacco in una grotta di ghiaccio.
Il giorno dopo il tempo tiene, fa molto freddo, si prosegue allo stesso modo (300 m circa).
Secondo bivacco nel ghiaccio 100 m sotto la vetta.
Il terzo giorno… Vittoria.

Terzo bivacco durante la discesa effettuata in doppia sui funghi di ghiaccio in un percorso diverso da quello della salita, quindi senza l’utilizzo dei chiodi di risalita. La temperatura si alza, il vento gira verso ovest, la discesa continua, ma a 100 m sotto il passo si innescano le valanghe che travolgono Toni Egger con buona parte dell’attrezzatura. Gli alpinisti, a quanto pare, non erano legati, Egger teneva semplicemente la corda in mano! Questo punto della storia è oscuro.

Maestri, forse aiutato dall’esperienza maturata sulle Alpi di discese completamente in libera, riuscì a raggiungere le corde dell’attrezzatura e trascinarsi ai piedi della parete dove fu tratto in salvo da Cesarino Fava, il terzo compagno di squadra rimasto in appoggio.

La mancanza di precisione nella narrazione, la posizione molto personale di Cesare Maestri negli ambienti alpini italiani, le rivalità dei clan e le opinioni politiche hanno portato alcuni a dubitare della realtà della performance.

La durezza del calvario e la morte del coraggioso compagno hanno portato alcuni a sostenere che Maestri avesse trasformato in vittoria quello che era solo un coraggioso tentativo.

Una regola non scritta dell’alpinismo è dare pieno credito alle storie degli scalatori e, visto che bisogna fare una scelta, qui sceglieremo la fiducia. La carriera alpina di Maestri non può giustificare un simile sospetto e non si può far mentire un amico morto.

Sono passati undici anni. Il Cerro Torre aveva sventato tutti i tentativi successivi. Quale demone spinse Maestri a tornare su questa vetta che malediceva? Complesso di superiorità? Desiderio di vendicare la morte di Egger? Curiosità di provare un nuovo mezzo tecnico? Volontà di esprimere che avrebbe potuto battere sul loro terreno altri fortissimi arrampicatori?

Quindi è tornato con una squadra di alpinisti meno conosciuti di lui che poteva comandare a piacimento. La società Atlas Copco credeva di aver trovato lì una pubblicità originale e gli aveva fornito un compressore ad aria compressa e un’attrezzatura di perforazione per praticare 15 fori l’ora nel più duro dei graniti. Da quel momento in poi, la salita è stata solo una questione di forza, resistenza agli agenti atmosferici e tempo.

Orgogliosamente, Maestri scelse di attaccare in pieno inverno australe. Sono stati necessari più di quaranta giorni per attrezzare la nuova via prescelta: la cresta sud-est, all’inizio di un valico innevato, tentata senza successo nel 1968 da fortissimi alpinisti britannici.

Trecento chiodi sono stati piantati usando il compressore; Maestri dice che i classici chiodi erano rimasti in basso, ma le foto della parte finale sembrano contraddirlo. In pieno inverno la squadra è riuscita ad attrezzare la cresta fino alle torri di ghiaccio che, anche con il compressore, la dice lunga sul valore dei partecipanti e sulla loro resistenza al freddo e al vento. Da non dimenticare che al vicino Fitz Roy, Lionel Terray e Guido Magnone, che non erano boy scout, sono stati letteralmente sbalzati dalla montagna in tempesta, e d’estate!

Il terrificante muro terminale non è stato scalato fino a sei mesi dopo, durante l’estate meridionale successiva (la squadra nel frattempo era rimasta in Sud America). Tre giorni sono stati sufficienti per la salita completa. Il fungo di ghiaccio terminale, alto una sessantina di metri, non è stato scalato “per la sua natura effimera”…
Il compressore è stato lasciato quasi in cima sulla headwall.

Questa mezza vittoria è stata la prova dell’efficacia dell’attrezzatura Atlas Copco. La società aveva anche concesso un sostegno finanziario. Maestri non ne trasse ulteriore gloria, la sua vittoria nel 1959 fu molto più bella. È vero che in carriera era sempre stato orgoglioso delle sue salite e forse ha scoperto che il successo precedente era dovuto più a Egger che a lui stesso. Ha lasciato la montagna piena di chiodi, a parte quelli degli ultimi quindici metri rotti nelle loro sedi.

Il versante est del Cerro Torre. A sinistra, itinerario 1970 della cresta sud-est; a destra: via della parete est del 1959, salita a destra, discesa a sinistra, luogo dei bivacchi e dell’incidente Egger. Foto: ex La Montagne, gennaio 1973.

All’inizio del 1972 una fortissima squadra britannica riprende la sua via, ma subisce un fallimento, tutto sommato abbastanza umiliante, perché su una via salita quasi interamente in inverno e percorsa in tre giorni in estate, non sono riusciti neppure a raggiungere la headwall.

Brutto tempo senza dubbio, ma come dice giustamente Maestri: “Se vuoi scalare il Cerro Torre, devi risolverti ad arrampicare con il brutto tempo”.

Gli inglesi usavano i chiodi di Maestri. Anche loro, quindi, hanno utilizzato il compressore e, come circostanza aggravante, non dovevano trascinare con sé quell’orribile macchina da 180 kg. È tecnicamente probabile che il compressore richieda più chiodi a espansione da piantare, al fine poi di poterlo issare con un verricello, senza rischi.

Questi sono i fatti, ora vediamo la polemica.
L’intrusione della tecnica nell’arte dell’arrampicata è sempre stata oggetto di accesi dibattiti. Oltre a scarpette, piccozza e corda ammesse sin dalla partenza, ramponi, chiodi e anche le corde doppie sono state combattute furiosamente; tuttavia, i chiodi e le funi del Dente del Gigante, la scala del Grand Capucin, il pallone con cui Dollfus-Ausset voleva strisciare lungo il Cervino non furono discussi in linea di principio.

Pensiamo che nessuna cordata che raggiunga la vetta del Cervino per la parete nord durante una bufera voglia non toccare le corde fisse della via normale anche se sente di usare un qualcosa che ha deturpato la montagna.

L’ossigeno non è stato visto di buon occhio, anche se l’alpinista non esita, al giorno d’oggi, a utilizzare in caso di emergenza un’intera farmacopea che lo farebbe squalificare in qualsiasi altro sport.

Possiamo quindi capire che il compressore…
Questo dispositivo ha avuto almeno il merito di costringere gli alpinisti a un esame di coscienza: non può l’uomo ammettere che una montagna o almeno una via di montagna rimanga intatta?

Si può presumere che il Torre non sia scalabile senza chiodi a espansione, quindi, a nostro avviso, il compressore non cambia molto, se non per risparmiare una mano d’opera brutale che nulla ha a che fare con l’arte dell’arrampicata. Maestri ha anche detto che alla fine ha finito per essere più un ostacolo.

Se davvero una via è bloccata da lastroni lisci impossibili da salire senza piantare decine di chiodi a pressione, lasciamola alla sua solitudine.

Così ha fatto Lacedelli sulla parete liscia di Cima Scotoni. Ha preferito tornare indietro, per poi tornare con un terzo compagno per poter fare una triplice piramide umana su staffe.

La parte finale della headwall sulla cresta sud-est del Cerro Torre. Foto: Leo Dickinson, ex La Montagne, gennaio 1973.

Ma in fondo nessuno, o quasi, vuole fermarsi qui, né Maestri né i suoi detrattori. Le loro discussioni, durante un’intervista condotta da Ken Wilson, giornalista, e alla presenza di uno degli alpinisti del tentativo del 1972 sono interessanti perché segnano due tendenze che possono essere riassunte come segue:

Maestri:
Ascensione del 1959: “Ci siamo sempre fidati della parola degli alpinisti, perché per me si fa un’eccezione?…”.

Salita del 1970: “Pianto solo il numero minimo di chiodi. Ho salito in solitaria vie di VI grado e le ho discese senza scendere in corda doppia, ma se c’è una placca liscia, metto dei chiodi a pressione. Correre rischi in montagna è affare dei nazisti e io non voglio giocare d’azzardo né con la mia vita né con quella degli altri” (vediamo che non si preoccupa delle contraddizioni perché, alla fine, parla così uno che ha fatto del VI grado da solo, in salita e in discesa!).

L’alpinismo è l’espressione suprema della libertà individuale fino al diritto di piantare tutti i chiodi che voglio e come mi pare. Poco m’importa dell’opinione degli altri (allora perché scrive un libro?) E infine, tu che sei così forte, vai a cercare il compressore…”.

Interlocutori britannici:
C’è una regola non scritta dell’alpinismo che limita l’uso della tecnica in progressione. Il chiodo a espansione è al limite di tolleranza (piantato a mano). Hai irrimediabilmente sporcato la montagna lasciando tracce indelebili (ma le tracce sono altrettanto indelebili se i chiodi vengono piantati a mano…); il limite della libertà individuale è l’imbarazzo degli altri e i tuoi chiodi ci mettono in imbarazzo. Abbiamo usato i tuoi chiodi perché… il tempo era brutto, la placca era inaccessibile senza di loro e volevamo salire fino in fondo per seguire la tua salita (ma il compressore è rimasto lassù, per sfida). Dobbiamo piantare il numero minimo di chiodi e dobbiamo accettare i rischi”.

L’intero dibattito è dominato dalla risposta a due domande (non poste):
– Tutti i mezzi sono buoni per scalare una vetta vergine?
– Pratichiamo l’alpinismo a causa dei pericoli o nonostante questi?

Ma alla fine: Maestri ha salito il Cerro Torre.

Per una volta, quello che ha fatto un uomo, nessun altro poteva. Ha usato mezzi speciali, ad altri adesso dimostrare che questi mezzi non erano necessari. Solo allora potranno criticare.

Sulla stessa rivista in cui Maestri è messo alla gogna, vediamo un’intera pubblicità sugli ultimi ritrovati dell’attrezzatura. Il punto di non ritorno è passato. Quindi con che diritto di stabilire un limite?

La montagna sfigurata lascia che gli alpinisti continuino i loro dialoghi tra sordi… la Torre di Babele…

N.B. Le fotografie che illustrano il testo sopra ci sono state gentilmente concesse da Ken Wilson, direttore dell’interessantissima rivista inglese Mountain, al quale si inviano i nostri più sinceri ringraziamenti.

Egger: preferiva una salita rapida.
Maestri: confusione sui posti dei bivacchi.
Fava: si è ritirato da solo dal Colle della Conquista.

Ulteriori riflessioni sul problema del Cerro Torre
(da Mountain, n. 42, marzo-aprile 1975)

Alan Heppenstall esamina nuovo materiale sulla spedizione del Cerro Torre del 1959 che aggiunge ulteriori dettagli al dibattito che circonda questa controversa scalata.

Gli eventi accaduti durante quei sette giorni cruciali del 1959, quando Cesare Maestri e Toni Egger furono impegnati nella loro lotta mortale con il Cerro Torre, sono avvolti nel mistero. I due alpinisti hanno raggiunto la vetta, come è stato affermato? Come hanno trascorso esattamente il loro tempo sulla montagna? Solo due fatti sono assolutamente inconfutabili: primo, gli uomini erano sulla montagna nel periodo dal 28 gennaio al 3 febbraio, e dovevano aver fatto qualcosa; e in secondo luogo, Egger è morto… in qualche modo… a un certo punto… da qualche parte.

La letteratura pubblicata sull’argomento in inglese non è stata precisamente abbondante. L’ultima edizione di Mountain Craft (n. 81, autunno 1968) conteneva un articolo sulla salita, scritto da Maestri; non era tradotto direttamente dall’italiano, ma da un articolo in francese apparso su La Montagne, ed era generalmente criticato per essere “nebuloso” e privo di dettagli. Sicuramente una lettura entusiasmante per coloro che non sono abituati al tipo di presentazione e al grado di dettaglio che normalmente ci si aspetta dagli articoli di alpinismo, ma gli alpinisti esperti non sono stati in grado di ricavarne alcuna informazione utile a valutare che la vetta fosse stata raggiunta o meno. L’esperienza di Patagonia accumulata negli anni successivi fece sembrare le affermazioni di Maestri sempre più inverosimili. L’articolo di Mountain Craft ha fornito un resoconto molto insoddisfacente di alcune caratteristiche della salita: come, ad esempio, sono stati superati gli enormi cornicioni sommitali? Il racconto recita: “… una serie di canaloni conduceva, diabolicamente, direttamente al centro degli enormi strapiombi, e siamo saliti velocemente fino a una cengia per il nostro terzo bivacco”. Poi, dopo il bivacco, gli alpinisti “hanno attaccato la parete sommitale“. Cosa era successo agli strapiombi? Presumibilmente non erano scomparsi dall’oggi al domani, perché durante la discesa Maestri “li ha scavalcati senza la minima emozione e senza la minima traccia di disgusto o di paura“. Comprensibilmente, questa mancanza di coerenza nel racconto, quasi una contraddizione, ha portato a porre domande cui non è mai stata data risposta.

Quando Maestri nel 1972 concesse un’intervista a un gruppo di alpinisti britannici (vedi Mountain 23), si sperava che alcuni dubbi sarebbero stati risolti, ma non fu così. In effetti, Maestri si rifiutò di discutere in dettaglio la scalata del 1959, sostenendo che non poteva ricordare eventi di così tanto tempo fa e insistendo sul fatto che chiunque fosse interessato dovrebbe tornare alle relazioni scritte all’epoca, poiché solo queste potevano essere attendibili per l’accuratezza.

Il Cerro Torre domina le sue vette satellitari circostanti – una foto che mostra come la parte superiore della vetta s’incrosti di ghiaccio. Foto: Mick Burke, ex: Mountain 42.

Sembrava che, almeno per gli alpinisti anglofoni, si fosse raggiunto un vicolo cieco: lo stesso Maestri si rifiutava di collaborare, e l’unico resoconto della scalata disponibile in inglese era troppo vago e impreciso per essere preso sul serio. Chiaramente, per verificare le affermazioni di Maestri, non c’era altra alternativa che dare seguito al suo suggerimento e fare una ricerca nella letteratura italiana pertinente, nella speranza che il materiale fosse ancora esistente. E in effetti lo fu: non solo fu possibile portare alla luce una copia dell’articolo originale di Maestri (quello che fu tradotto in francese e poi di nuovo in inglese) ma furono resuscitati anche numerosi altri articoli pubblicati nello stesso periodo. Si ottenne una copia del Bollettino della SAT (Società Alpinisti Tridentini) del marzo-aprile 1959, che conteneva articoli di Maestri e Fava, un necrologio di Egger, e ulteriori note sulla salita del Cerro Torre. Ancora più interessante, è venuta alla luce una descrizione completa del percorso della salita del 1959, mai pubblicata in inglese. Questo materiale, insieme alle fotografie e ai diagrammi adesso disponibili, richiedeva una revisione dell’impresa Maestri-Egger (per tutto questo materiale, vedi Cerro Torre – 01, NdR.

Va sottolineato che i commenti che seguono non implicano alcuna critica al traduttore dell’articolo originale di Mountain Craft (Peter Crew). Qualsiasi testo tradotto due volte deve perdere un certo grado di accuratezza ed è impossibile dire se durante la traduzione dall’italiano al francese o dal francese all’inglese siano insorti degli errori. Tuttavia, un confronto diretto dell’articolo di Mountain Craft con l’originale italiano rivela alcune discrepanze interessanti e forse significative.

L’articolo di Maestri del 1959
Sulla questione dell’accumulo di rifornimenti, l’articolo originale menziona che una scorta di cibo e attrezzature è stata lasciata al di sopra del diedro iniziale di 400 metri, e che qui finivano le funi fisse. Per qualche ragione questo punto è stato perso nel racconto inglese. Un’altra piccola correzione sulla questione dell’attrezzatura: secondo l’articolo di Mountain Craft, i cento chiodi lasciati ai piedi della parete e coperti dalla neve durante la tempesta non erano stati trovati: invece lo furono! Altrimenti sembrerebbe difficile ogni ulteriore progresso nell’ascensione.

Poi c’è la questione della denominazione del Colle Nord, che si è rivelata un punto così spinoso quando Maestri è stato intervistato. Nel loro tentativo precedente, Bonatti e Mauri avevano chiamato il colle a sud-ovest Colle della Speranza, e la successiva denominazione del colle nord da parte di Maestri come Colle della Conquista era apparsa come molto beffarda. Anche qui il confronto tra i due articoli è interessante. Durante l’intervista del 1972, Maestri affermò di non ricordare come aveva formulato l’articolo originale, ma concluse  che il suo modo di dirlo in quel momento sarebbe “che la speranza era l’arma dei poveri e il desiderio l’arma dei deboli”. Sorprendentemente, la sua visione è rimasta del tutto coerente nel corso degli anni, poiché l’articolo originale, tradotto letteralmente, recita: “… in montagna non esiste speranza, solo volontà di conquista. La speranza è l’arma dei poveri”.

Nella versione inglese, tuttavia, l’osservazione di chiusura era resa come “la speranza è l’arma dei deboli”. All’epoca questo era ampiamente interpretato come beffa sprezzante nei confronti di Bonatti e Mauri. I critici di Maestri sosterranno senza dubbio che l’errata traduzione di una parola non influisce minimamente sulla questione se l’osservazione fosse intesa come un affronto contro Bonatti e Mauri o meno. Questo può essere vero; resta tuttavia da chiedersi se un commento sullo stato dei conti bancari di Bonatti sia del tutto appropriato in questo contesto.

Le discrepanze maggiori
Il racconto della salita dal Colle della Conquista alla vetta, e la successiva discesa, merita una certa attenzione, poiché questa è stata la parte dell’impresa su cui sono stati sollevati più dubbi. Per quanto riguarda le condizioni della neve non ci sono differenze significative tra i due articoli; il ghiaccio infatti non si “spaccava e si spezzava” e “pezzi grandi” non “cadevano”; infatti “dava rumori di crepitio” quando si depositava sotto il peso degli scalatori, e “si divideva in grandi segmenti”. Né il ghiaccio ha cominciato a sciogliersi e staccarsi verso sera – in realtà gli alpinisti “hanno iniziato a incontrare chiazze di ghiaccio più spesse”, migliorando la protezione. Altrove, Maestri sottolinea che la temperatura è stata sotto lo zero tutto il giorno.

Una vista più ravvicinata con la parete nord di profilo sulla destra. Foto: Mick Burke, ex Mountain 42.

Che dire degli strapiombi della vetta, su cui sono state poste tante domande? I passaggi cruciali dell’articolo inglese, che non spiegano in modo soddisfacente come sono stati affrontati gli strapiombi, sono già stati citati. La questione è di tale importanza, tuttavia, che vale la pena fare una traduzione completa delle frasi pertinenti dell’articolo originale, riprendendo la storia il secondo giorno di arrampicata sopra il colle: “Erano apparse alcune nuvole alte ed era freddo. Durante il giorno abbiamo scalato 250 metri su un terreno essenzialmente ghiacciato, a volte duro e buono, a volte marcio e incoerente. Ci siamo riusciti usando tutti i trucchi tecnici che conoscevamo. A un certo punto ho persino dovuto scavare una buca attraverso una sporgenza di ghiaccio che era troppo marcia per reggere i picchetti di ghiaccio, e ho abbattuto altre due cornici che apparivano su un tiro che stavo conducendo. Poi, verso sera, incontrammo una serie di canalini, scavati dal vento, che con un po’ d’astuzia permettevano la salita in mezzo a quel ghiaccio strapiombante e che ci condussero a una cengia per il nostro terzo bivacco”.

In altre parole, il bivacco più alto si trovava sopra i principali strapiombi della parete nord, mentre i restanti 150 metri erano solo su un ripido pendio di ghiaccio, come appunto dimostra la descrizione del percorso. Riprendiamo ora la storia dove si parla della discesa: “Erano le quattro quando Toni iniziò la discesa. Poi è stato il mio turno di seguirlo. La vetta che avevamo tanto desiderato era sotto i nostri piedi, una tozza chiazza di neve, circondata da cornici sporgenti per 50 metri nello spazio. Gli ho voltato le spalle (il tondo è mio, NdA) con decisione, senza alcun sentimento di emozione, solo di odio e di paura“. Quindi anche qui le cornici presumono un ostacolo alla salita meno di quanto suggerirebbe l’articolo in inglese; infatti, la descrizione del percorso dice specificamente che la sommità aveva cornici solo su tre lati – a est, ovest e sud, ma non a nord.

La descrizione della discesa regge abbastanza bene al vaglio. È chiaro che il secondo bivacco in discesa è stato su chiodi a pressione e non, come ha detto Maestri durante la sua intervista, su “chiodi a U conficcati nelle fessure ghiacciate”, ma probabilmente si trattava semplicemente di una dimenticanza. Un altro punto che emerge con chiarezza è che la via di discesa evitava il Colle della Conquista: dove l’articolo in inglese dice “siamo arrivati ​​al colle e al riparo della parete est”, questo dovrebbe essere più preciso con un “siamo giunti a un punto sotto e ad est del colle”. Ci sono pochi dubbi sull’effettivo percorso di discesa, ma c’è qualche incertezza sul motivo per cui gli alpinisti hanno scelto una linea più ad est di quella presa in salita. Nella sua intervista, Maestri ha dichiarato di aver commesso un errore e di aver scelto la linea sbagliata per scendere, ma gli articoli del Bollettino della SAT, e la descrizione del percorso, non lo confermano; al contrario, chiariscono che la linea di discesa è stata scelta in seguito ad una precisa decisione basata sulla prevista difficoltà di fare a ritroso il lungo traverso che porta al colle, da cui Fava aveva tolto la fune fissa per favorire la propria discesa. Non vi è alcun indizio che sia stato commesso un errore. Ancora una volta, sembra che questa contraddizione debba essere attribuita all’incapacità di Maestri di ricordare i dettagli, che lui stesso ha sottolineato.

La parete est del Cerro Torre è variamente stimata tra 1300 e 1500 metri. La parete nord, più stretta, è sulla destra. La croce segna la scena dell’incidente di Egger. Foto: Hermann Wolf, ex Mountain 42.

L’ultimo punto che spicca è che il luogo dell’ultimo bivacco (teatro dell’incidente di Egger) non era come nella foto a pagina 23 di Mountain n. 23, ma più in basso; precisamente sul lato in alto a destra del grande manto nevoso e a soli 100 metri dal nascondiglio in cima alle corde fisse. Ciò rende l’entusiasmo di Egger di raggiungere le corde più comprensibile che se ci fosse stato un ulteriore lungo tratto di roccia da scendere.

Questo per quanto riguarda la relazione pubblicata su Mountain Craft. I commenti precedenti mostrano che una certa quantità di vaghezza e inesattezza si è insinuata nell’articolo a causa della sua doppia traduzione. Ma, rifacendosi all’originale, si può dire che l’affermazione di Maestri di aver raggiunto la vetta nel 1959 è così resa più attendibile? Non ci sono ancora molti punti interrogativi intorno alla questione? E può fare ulteriore luce un esame della ‘descrizione del percorso’, così come appare nella relazione originale ma senza trovare riscontro nella traduzione in inglese?

Date le circostanze, sembra opportuno fornire una traduzione completa della descrizione del percorso, soprattutto perché contiene dettagli che non si trovano altrove. È un documento curioso, a metà tra una semplice descrizione della salita e un autentico racconto tecnico. Eccolo qui di seguito (le note in corsivo sono state aggiunte ovunque fosse necessario espandere o commentare uno dei punti di Maestri):

Relazione tecnica
di Cesare Maestri
(pubblicato su Rivista Mensile del CAI n.7-8 del 1961)

(questa relazione è già stata pubblicata in Cerro Torre – 01, ma la riprendiamo qui (con le note di Heppenstal) per comodità)

L’ascensione al Colle della Conquista
La parete est del Cerro Torre è alta circa 1300 m. La sua parte centrale presenta difficoltà tali da non poterla prendere in considerazione. Due sono i suoi punti deboli. La cresta est (in realtà sud-est, NdR) che scende verso il Fitz Roy fino a formare una tozza cima denominata El Mocho, e un gran diedro situato sulla destra di questa formidabile parete.

La cresta porta con passaggi difficili alla base di grandi torri a circa 400-500 metri dalla cima.

Sarebbe stata nostra intenzione, dopo rilievi aerei fatti dalla nostra prima spedizione, di risalire tutta la cresta per poi alla base delle torri attraversare tutta la parete sud, fino ad un grande strapiombo di ghiaccio sul filo della cresta sud-ovest, e di qui risalire per il versante ovest (questa traversata attraverso la parete sud, che collega la cresta sud-est con la via dei Ragni, era una delle alternative considerate dagli inglesi nel 1971. Non era precedentemente noto che Maestri ci aveva pensato prima del 1959. Le sue ragioni per la scelta della seconda alternativa sono fornite alla fine della descrizione, NdA). 

Decidiamo di attaccare il gran diedro che porta ad un piccolo nevaio e successivamente ad una forcella situata a nord del Torre.

Il tratto per arrivare al nevaio pensile è di circa 300-350 metri e parte dal ghiacciaio sottostante a quota 1850 m. Questo diedro che presenta difficoltà di quinto e sesto grado con lunghissimi tratti di sesto grado artificiale e artificiale a espansione, è stato attrezzato con corde fisse fino al suo termine dove abbiamo posto un piccolo magazzino depositando tutto il materiale rimasto.

Fin qui usiamo, per superare questo tratto di parete, circa 80 chiodi, cinque dei quali ad espansione e lasciamo attrezzato il tratto usando circa 50 chiodi ai quali sono assicurati circa 300 metri dì corda di canapa dello spessore di 12 mm.

Maestri che scala il diedro sotto e sopra il nevaio sospeso. Foto ex Mountain 42.

Per la salita effettiva, usufruendo delle corde fisse, ci portiamo alla base del nevaio a forma conica che termina sul bordo superiore del gran diedro

(apprendiamo altrove che Maestri era effettivamente favorevole alla preparazione della via e al fissaggio delle corde fino al Colle della Conquista. Era Egger che preferiva una spinta più rapida, e alla fine vinse la tattica della giornata, NdA).

Lo tagliamo e ci portiamo con una traversata diagonale alla base di quella serie di fessure che partono dal bordo del nevaio e portano fin sotto ad un gran diedro strapiombante che va da destra verso sinistra. Fin qui, dal nevaio, sono circa 150 metri di quarto e quinto grado (chiodi usati circa 15-20).

Dal terrazzino alla base del diedro suddetto, che lasciamo alla sinistra, si comincia ad attraversare la stretta parete nord che scende dalla cima a forma di triangolo con la base rivolta alla forcella fra il Torre e la cima che chiameremo «Cima Egger». La traversata di circa 200 metri tende a salire finché si tramuta in una fessura da una costola che porta alla base di un pilastrino di circa 50 metri sulla cresta che limita a destra (è sinistra, NdR) la parete nord.

Lasciamo nella traversata una corda doppia fissa di 100 metri che verrà in seguito usata dal Fava per discendere e recuperata, per poi calarsi a corda doppia.
Fin qui quarto, quinto e un tratto di sesto grado (chiodi usati 10-15).

Poniamo il posto di bivacco sulla forcella stessa scavando un foro nella neve orientandone l’apertura verso est.

La parete nord
Da qui si presentano due soluzioni: tagliare per cenge e canali tutta la parete ovest per entrare in un gran camino che intravvediamo e che porterebbe alla base del gran strapiombo di ghiacci sulla cresta sud-ovest, oppure usufruendo di una particolare condizione di innevamento che ricopre il tratto di parete nord per circa 300 metri semi-nascondendo placche, fessure e canali molto ripidi.

(La traversata della parete ovest, prima alternativa di Maestri, è anche menzionata altrove. Appare molto dubbio che l’uscita sulla cresta sud-ovest sia realmente possibile, NdA). 

Preferiamo questa seconda soluzione essendo la parete nord leggermente più riparata dal vento. Dalla forcella, per via tortuosa e a volte illogica, ci portiamo da canali a fessure cercando di sfruttare al massimo le condizioni di innevamento e sfruttando i tratti meno ripidi. L’assicurazione, data la precarietà e l’insufficiente consistenza dello strato di neve dura e gelata che ricopre la parete, è stata fatta scavando la crosta ghiacciata fino a trovare la roccia, usufruendo per assicurazione, di chiodi ad espansione.

Puntando sempre verso il primo terrazzino di ghiaccio che s’incontra sulla cresta a nord-ovest, ci alziamo così di circa 300 metri. Sotto questi strapiombi di ghiaccio poniamo il secondo bivacco scavando nel ghiaccio stesso, ora abbastanza solido, una nicchia capace di ripararci da eventuale vento (quota data dall’altimetro 2720 m – chiodi usati: 30 ad espansione, 15 da ghiaccio).

Da qui la salita presenta le particolarità di una parete di ghiaccio ed è un susseguirsi di giri viziosi, sfruttando piccoli canali formati dal vento per aggirare piccole pareti verticali o grandi cavolfiori dì ghiaccio che a volte non possiamo fare a meno di salire direttamente. Saliamo ora quasi sempre verso il versante ovest essendo quello a nord troppo ripido e difficilissimo (non sembra ci sia alcun motivo per supporre che la parte superiore della parete nord sia più difficile di quella inferiore, che i due comunque avevano già salito Le fotografie suggeriscono più o meno la stessa inclinazione, NdA).

Poniamo il terzo bivacco su quella grande terrazza a circa 150 metri dalla cima (quota data dall’altimetro 3250 m, l’apparecchio segnava in anticipo l’arrivo del brutto tempo; in realtà il terzo bivacco è a circa quota 2980 m, chiodi usati circa 20, pendenza variabile tra i 50° e 60°, in tutti i 250 metri).

Dal terzo bivacco si supera una ripida e verticale parete di ghiaccio di circa 60 metri (20 chiodi) per poi usufruire di canali e della calotta nevosa che porta a pochi metri dalle grandi cornici che strapiombano sulla parete est, sud e ovest (l’altimetro segna 3200 m).

La discesa
In discesa usufruiamo di funghi di ghiaccio ai quali assicuriamo dei cordini di perlon. In tre corde doppie ritorniamo al punto del terzo bivacco dove passiamo la quarta notte (sappiamo dall’articolo che la tecnica utilizzata per la discesa in corda doppia prevedeva l’abbassamento del primo uomo come contrappeso contro il vento (due moschettoni usati come dispositivo frenante). Chiaramente questo è stato ritenuto un dettaglio superfluo per quanto riguarda la “descrizione del percorso”, NdA). 

Riprendiamo a scendere all’incirca lungo la via di salita usufruendo ancora dei funghi e chiodi da ghiaccio. Le ultime due corde doppie della giornata sono state fatte su chiodi a espansione avendo superato il limite del ghiaccio e trovando ora, dato il forte scirocco che viene dall’ovest, tutta la parete nord priva della neve che ci aveva permesso di salire. Bivacchiamo la quinta notte a quota 2550 m circa (nove corde doppie). Di qui tagliamo la parete nord lungo la superiore di due fessure sovrapposte, per non toccare la forcella e dover così rifare la traversata resa difficile dal fatto che Fava aveva recuperato la corda lasciata fissa.

Obliquando verso est, ci troviamo quasi sopra all’inizio della traversata da dove parte il diedro strapiombante che va verso sinistra. Arriviamo a quota 2250 m dove poniamo il sesto bivacco (11 corde doppie). Qui succede la disgrazia.

(come nella maggior parte dei resoconti, la descrizione degli sforzi di questa giornata è piuttosto approssimativa. La via di salita era presumibilmente unita alla sporgenza sotto il diedro strapiombante, quando forse otto delle undici calate erano state fatte)

Il giorno dopo continuo a scendere solo con uno spezzone di circa 120 metri di corda così da usufruire di soli 60 metri di corda doppia. Con tre corde doppie assicurate a funghi di ghiaccio, taglio il nevaio e scendo sempre a corde doppie fino alla base della parete.

Le due foto pubblicate su L’Europeo (a sinistra) e La Montagne poco dopo la salita. Notare i diversi punti di bivacco e le variazioni nella linea del percorso. Foto ex Mountain 42.


Circa 175 ore di permanenza in parete. Chiodi da roccia usati circa 120, chiodi da ghiaccio circa 65, chiodi a espansione circa 70, cunei di legno circa 20. Alla partenza il nostro equipaggiamento era di due corde da 200 metri (una di queste servirà a Fava per scendere dopo averla lasciata fissa sulla traversata), 10 staffe, 50 chiodi da roccia, 100 chiodi a espansione, 30 chiodi da ghiaccio, cunei di legno e 30 metri di cordini, viveri per tre-quattro giorni, ed equipaggiamento vario per il bivacco.

I motivi che mi hanno spinto ad attaccare il Torre dal lato est possono essere così elencati:
1) estrema facilità di accesso. La base del Torre dista dall’Estancia Fitz Roy, circa 20 km dei quali i primi 11 da farsi a cavallo;
2) poter lavorare in una zona relativamente riparata dal vento che proviene sempre da ovest;
3) la parete est presenta difficoltà tecniche molto forti ma superabili dalla nostra tecnica dolomitica;
4) estrema sicurezza contro i venti su tutta la parete est;
5) conoscenza della zona per averla in precedenza studiata durante la prima spedizione in Patagonia.

I nostri campi erano situati: campo 1 a quota 750 m in località Laguna Torre, campo 2 ai piedi di «El Mocho» a quota 950 m, il campo 3 era situato a quota 1650 m, l’attacco della parete a quota 1850 m.
Nel conteggio dei chiodi sono esclusi i chiodi di assicurazione e da bivacco.

Le domande senza risposta
Questo nuovo materiale, per quanto abbondante, non consente ancora di trarre conclusioni molto certe sul fatto che la salita del 1959 sia terminata in vetta. Sono stati ora inseriti alcuni dettagli, in particolare per quanto riguarda la salita dell’ultimo giorno in vetta, e questo certamente fa sembrare l’impresa relativamente più plausibile. Certamente, la maggior parte delle incongruenze e delle ambiguità di altre relazioni sono state risolte. Ma una domanda fondamentale rimane senza risposta: il terreno sulla parete nord è tale da poter essere scalato, in qualsiasi condizione, al ritmo di circa 300 metri al giorno? Questa parete di 70°-80° (come appare nelle fotografie) è davvero divisa da canalini e fessure, tutti collegati da linee di traversata, in modo che si possa ricostruire una via che non supera mai i 45°-50° di inclinazione? Da molti punti di vista, se tracciamo una linea a 45° dalla vetta del Cerro Torre si va a toccare la cima della Torre Egger. Perché la parte alta della parete nord, descritta come estremamente difficile e ripida, dovrebbe essere considerata così tanto più formidabile di quella bassa, quando tutte le foto indicano un’inclinazione identica?

Queste domande non troveranno mai una vera risposta fino a quando una cordata non raggiungerà nuovamente il Colle della Conquista e la parete nord non sarà esaminata da vicino.

Le pareti ovest della Torre Egger e del Cerro Torre (a destra) con la parete nord, incrostata di ghiaccio, di profilo sullo skyline sinistro. Il vertice è nascosto. Il primo bivacco era al Colle della Conquista (centro), e il secondo bivacco era situato sotto il caratteristico strapiombo di ghiaccio in cima alla foto. Foto: Carlo Mauri. Ex Mountain 42.

Cerro Torre 3128 m
Da Vertical, n. 3 ottobre-dicembre 1985

Ben Wyvill e Brian Campbell-Kelly avevano tentato in febbraio e marzo 1978 l’enorme diedro strapiombante della parete est, salendo per 250 m. Nel gennaio 1981, Philip Burke e Tom Proctor completarono la salita in 6 giorni (ma senza arrivare in vetta, NdR); Wyvill, che li aveva accompagnati, ferito, ha dovuto fermarsi. Sono 1300 metri, dove le maggiori difficoltà si sono incontrate nel diedro, 5c inglese (6c/ 7a francese) e A4. Mettono in dubbio la prima salita di Maestri a lungo contestata. All’uscita del diedro, proseguono sulla parete nord per unirsi alla via del 1959; ma le difficoltà che presentava loro non corrispondevano a quelle del racconto di Cesare Maestri. 7 lunghezze a 70° con movimenti di 5b (cioè 6b) che hanno fatto in 12 ore, mentre la nota tecnica indicava pendenze a 45°!

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