… E se la vita continua
(Cerro Torre: la montagna della mia vita)
di Cesare Maestri
(dal libro … E se la vita continua, Baldini&Castoldi, 1996)
Nella primavera del 1957 con Giulio Gabrielli avevamo salito la diretta alla Paganella e al ritorno scegliemmo di scendere slegati seguendo l’impluvio lungo il quale, in certi periodi, scorre l’acqua piovana o quella dovuta al disgelo. Il canalone roccioso era asciutto e le sue rocce, levigate dallo scorrere dell’acqua, non presentavano difficoltà tali da preoccuparci. La giornata era bellissima e avevamo tempo, perciò scendevamo in allegria gustandoci il piacere di percorrere un terreno a noi sconosciuto, noto solo a qualche sporadico cacciatore. Io scendevo per primo prendendo in giro Giulio che non essendo abituato ad arrampicare da solo mi seguiva rimanendo sempre a una trentina di metri da me. Alla fine del canalone mi fermai sul ghiaione aspettando il mio amico che scendeva tenendosi a un vecchio cavo metallico abbandonato durante i lavori per costruire la funivia. Gli urlai di non toccare il cavo ma ormai lo stava usando come una corda fissa. Improvvisamente il cavo, male ancorato, si staccò e Giulio perse l’equilibrio, si girò verso valle e incominciò a cadere. Le rocce non erano verticali così la sua struttura atletica e il suo sangue freddo gli permisero di frenare la caduta facendo dei salti da una roccia all’altra come un camoscio inseguito da un cacciatore. Con lui e il cavo stava precipitando anche una grossa pietra che si era staccata una quarantina di metri più in alto. In pochi secondi Giulio atterrò di schianto sul ghiaione che attutì l’impatto. Gli chiesi se andasse tutto bene e lui mi fece segno di sì. Solo allora mi ricordai della pietra. Alzai gli occhi ma ormai era a pochi metri da me. Mi girai di scatto e cercai di ripararmi la testa con il braccio.
Troppo tardi. Il sasso mi colpì con violenza alla nuca e perdendo i sensi rotolai lungo il ghiaione. Mi risvegliai molti metri più in basso. Il grosso sasso per fortuna mi aveva colpito di piatto ma mi aveva ugualmente aperto una vasta ferita dalla quale sgorgava sangue come da una fontana. Mi tolsi la canottiera e con quella Giulio mi fece un bendaggio. Barcollando ripresi il cammino e dopo tre ore, aiutato dal mio amico, arrivammo in paese. Non c’era molto tempo da perdere, la ferita continuava a sanguinare e in più avevo un fortissimo male di testa. Giulio non se la sentiva di guidare la mia grossa moto, così non mi rimase altro che salire in sella e guidare fino al pronto soccorso dell’ospedale dove arrivai fra lo stupore dei medici che mi ricoverarono di urgenza.
Un mese dopo tutto era di nuovo in perfetto ordine anche se portavo ancora un bianco turbante di bende e la ferita non si era completamente rimarginata. In quel periodo venni contattato da Cesare Togni, il famoso domatore, che con il suo circo si era fermato a Trento. Le cose non andavano proprio bene e il pubblico non affollava gli spettacoli. Togni mi chiese di aiutarlo. Mettemmo in scena la scommessa che non avrei avuto il coraggio di entrare con lui nella gabbia dei leoni. I giornali locali montarono la sfida e alla sera stabilita il circo era stracolmo di pubblico accorso per vedere se me la sarei fatta sotto dalla paura. Ero felicissimo di essere stato utile alla famiglia circense perché, pur non avendo mai vissuto la vita dei miei genitori, sentivo una profonda tristezza ogni volta che assistevo a uno spettacolo non sostenuto da un folto pubblico. Quando fu il mio turno entrai nella gabbia insieme al domatore. C’erano ad aspettarci 16 bellissimi leoni, alcuni a terra altri appollaiati sui loro sgabelli. Per un attimo mi vidi riflesso nei loro occhi sotto forma di 32 costate e fu una spiacevole sensazione. A mano a mano che passavano i minuti mi sentivo sempre più a mio agio. Togni mi aveva detto che i leoni, come tutti gli animali, avrebbero annusato la mia paura e questo li avrebbe fatti sentire forti e quindi pericolosi. Il domatore mi diede una frusta e con quella in mano mi sembrò d’essere meno disarmato. Feci qualche passo staccandomi da Togni e con il nerbo incominciai a grattare il naso del leone che a mio parere sembrava il più mansueto. La belva però non si lasciò incantare dallo sfoggio del mio coraggio e con un ruggito e una zampata ristabilì le gerarchie, ricordandomi che io ero solo un ospite tollerato unicamente perché stavo facendo un piacere al loro padrone. Un’ovazione salutò la mia uscita dalla gabbia e Togni mi ringraziò con un lungo, affettuoso abbraccio.
Più o meno in quel periodo entrò nella mia vita l’uomo che l’avrebbe incisa e condizionata tanto profondamente da sconvolgerla come un uragano.
Nell’inverno del 1953 Cesarino Fava, un appassionato alpinista trentino residente da una decina di anni in Argentina, mi scrisse esprimendomi la sua ammirazione e la sua stima.
Sembrava la solita lettera di un ammiratore ma concludeva invitandomi laggiù per tentare di salire una montagna chiamata Cerro Torre che secondo lui era pane per i miei denti. Una montagna della quale si diceva che il solo pensiero di salirla era cosa vana e ridicola.
Nel 1955 la sezione del CAI di Buenos Aires, della quale facevano parte molti trentini compreso Fava, mi invitò ufficialmente a capeggiare una spedizione al Torre dandomi ampia libertà nella scelta dei compagni. Finalmente avrei avuto la mia spedizione extraeuropea. Purtroppo verso la fine dello stesso anno la sezione del CAI si sciolse per beghe interne e tutto andò in fumo. L’anno dopo Fava, che non demordeva, mi invitò in Argentina a nome del Circolo Trentino di Buenos Aires il quale aiutato dai locali industriali trentini, mi assicurava i viaggi interni e le spese il loco. Nella primavera del 1957, per accelerare i preparativi, arrivò in Italia Cesarino Fava. Lo incontrai a Trento. Mi venne incontro ondeggiando come un ubriaco e mi resi conto che il suo camminare dinoccolato era dovuto all’amputazione dei suoi poveri piedi, racchiusi in scarpe ortopediche speciali che assomigliano più a un largo zoccolo che a scarpe vere e proprie. Aveva subito l’amputazione a causa di un congelamento che lo aveva colpito mentre, scendendo dall’Aconcagua, cercava con ostinazione di salvare la vita a un alpinista americano abbandonato poco sotto la vetta da una scellerata guida argentina (vedi la Grande Storia Verità e bugie all’Aconcagua, NdR).
Ci abbracciammo commossi come due amici che non si vedevano da tanto tempo e incominciammo a parlare della nostra vita. Nel 1957 Cesarino aveva trentasette anni, era nel pieno della sua forza e fisica e psicologica. Dal suo raccontare scaturivano un entusiasmo e una carica di vitalità che contagiavano. Dopo tanti anni di Argentina aveva mischiato il fatalismo sudamericano con la testardaggine e la furbizia della gente della Val di Sole. La menomazione non gli aveva tolto l’entusiasmo e la passione per la montagna, tanto che con la metà dei piedi che gli era rimasta aveva portato a compimento molte prestigiose salite sulle montagne argentine.
Parlammo del Torre. Per molti giorni consultammo carte geografiche e fotografie finché quella montagna divenne per me qualcosa di familiare come se fosse una cima del Brenta e non uno sperduto puntino in fondo all’Argentina. Il Cerro Torre è alto 3128 metri, le sue pareti di granito incombono per circa 2000 metri sopra grandi ghiacciai situati a 800 metri sul livello del mare. Ubicato sotto il cinquantesimo parallelo latitudine sud, dista dall’Antartide qualche migliaio di chilometri, pertanto risente del freddo polare ed è costantemente investito da fortissimi venti che raggiungono i 180 chilometri all’ora.
Quasi a cavaliere fra il Cile e l’Argentina il Torre è il primo baluardo che le correnti, provenienti dalle coste dell’oceano Pacifico, incontrano nella loro corsa verso est. Queste correnti, di aria molto umida, richiamate dall’aria calda della pampa accelerano la loro andatura verso l’oceano Atlantico e quando sorvolano lo Hielo Continental, che è il più grande ghiacciaio del mondo non collegato direttamente con la calotta antartica, queste masse di aria si raffreddano e l’umidità diventa neve che si schianta contro la parete ovest del Cerro Torre creando enormi e pericolanti strapiombi di ghiaccio che assomigliano a giganteschi cavolfiori. Naturalmente, essendo ubicato nell’emisfero australe, il nostro inverno corrisponde alla loro estate e viceversa.
Rincontrai Fava al rifugio Brentei insieme ai fratelli Detassis e in mezzo alle montagne del Brenta gettammo le basi della spedizione. Cesarino non stava più nella pelle dalla felicità, e io mi vedevo già alle prese con gli strapiombi del Torre. Si stava realizzando un sogno che avevo accarezzato da alcuni anni. Senza pensarci su due volte offrii a Bruno Detassis l’ambito ruolo di capo spedizione nella certezza che la sua maggiore età e soprattutto il suo glorioso passato alpinistico fossero una garanzia per il buon esito della nostra spedizione Trentina al Cerro Torre. Concordammo i ruoli: Bruno Detassis capo spedizione con i compiti di organizzazione; Cesare Maestri e Marino Stenico i componenti della cordata di punta; Catullo Detassis, Fava ed Luciano Eccher avrebbero costituito la cordata di appoggio per assicurarci i rifornimenti in parete.
La Provincia Autonoma di Trento e altri enti pubblici e privati riuscirono a racimolare il denaro sufficiente a sovvenzionare quella piccola spedizione. Avevamo pochi mezzi, ma eravamo carichi di orgoglio, ambizioni, sogni e fermamente decisi a mostrare al mondo il valore degli alpinisti trentini.
A settembre Cesarino ritornò in Argentina per mettere a punto e concretizzare il lavoro organizzativo e io rimasi in Italia agitato, come se mi avesse morso una tarantola. In quell’estate del 1957, per abituarmi a muovermi su terreni sconosciuti, portai a termine da solo e in cordata alcune vie nuove e diverse salite e discese solitarie di sesto grado, ma ogni momento libero lo passavo studiando le foto del Torre cercando di scoprire il percorso ideale per attaccarlo e vincerlo. Di una cosa ero sicuro, avremmo attaccato quella montagna e l’avremmo vinta e così avremmo dimostrato a noi stessi e al mondo che non esistevano montagne impossibili.
Verso l’Argentina
Il 19 dicembre, con grande risalto della stampa italiana, salpammo dal porto di Genova a bordo di una vecchia bagnarola argentina spacciata per transatlantico. Mi avevano accompagnato mio padre e mia sorella e quando la nave con i suoi lugubri e strazianti colpi di sirena, lasciò gli ormeggi, li vidi diventare sempre più piccoli e per lungo tempo nei miei orecchi risuonarono come un’eco infinita le loro implorazioni sussurratemi abbracciandomi: “Ti prego Cesare, ritorna”.
La nave lentamente si allontanò e le figure care diventano un informe muro grigio che vedevo attraverso le lacrime. Non avrei mai immaginato di amarli tanto e quanto fosse straziante lasciarli.
A metà traversata ci pervenne via radio dall’Italia la notizia che alcuni ex dirigenti della disciolta sezione del CAI di Buenos Aires, in rotta con i trentini, avevano fatto arrivare nella capitale argentina, gli alpinisti lombardi Walter Bonatti e Carlo Mauri i quali, nonostante la nostra precedenza morale e di fatto, usufruendo di un volo di linea ci avevano sorpassato senza tante remore, allo scopo di osteggiare la nostra spedizione. Benché ci fosse noto che l’alpinista monzese non era certo nuovo a questo tipo di colpi bassi ai danni di amici e di colleghi alpinisti, la notizia ci mise a terra come se avessimo ricevuto un violento pugno nello stomaco. Non riuscivamo a spiegarci come mai i due lombardi, pur sapendo della nostra partenza, si fossero prestati al basso gioco di chi li aveva reclutati e sovvenzionati per fomentare quella assurda e sciocca guerra fra emigranti.
Sull’onda dell’amarezza provocata da quel tiro sleale continuammo l’attraversata con il morale a terra, e al ventunesimo giorno di navigazione la nave attraccò al porto di Buenos Aires. Ci aspettava Fava con tutto il Circolo Trentino. Ci caricarono sulle loro macchine alla volta della sede sociale. Viaggiammo per ore attraverso quella immensa metropoli, sbigottiti che una città potesse essere così estesa. Arrivati al circolo avemmo l’impressione di aver navigato mezzo mondo per ritrovarci in un pezzo di Trentino di 100 anni fa: la vecchia osteria di montagna; la pergola dell’uva; quattro che giocavano a tressette; il piazzale sterrato con il gioco delle bocce, un vecchio con lunghi baffi bianchi alla Cecco Beppe seduto a un tavolo di legno che si scolava mezzo litro di vino rosso; e, come sottofondo di quel quadro d’epoca, un parlottare in dialetto antico di cui a volte ci sfuggiva i significato di arcaici vocaboli.
Due giorni dopo il nostro arrivo a Buenos Aires, l’Aviazione militare mise a nostra disposizione un DC3 sul quale caricammo i viveri e il materiale della spedizione. L’aereo decollò puntando direttamente la prua verso sud sorvolando la sconfinata pampa, triste e dolce come il tango argentino e l’animo dei gauchos. La nostra grande avventura era cominciata. Sotto di noi scorrevano le coste dell’Atlantico, le bianche case di Trelew, le torri dei pozzi di petrolio di Comodoro Rivadavia che visti dall’alto assomigliavano a grossi fiori neri piantati nell’immenso blu dell’oceano.
Finalmente arrivammo in vista delle montagne. Incontrammo la mole del Fitz Roy, la montagna più alta del gruppo, vinta qualche anno prima dai francesi. Poi l’aereo virò verso ovest e improvvisamente si parò di fronte a noi il Torre. Era in assoluto la più bella montagna che io avessi mai visto. Riconobbi subito ogni sua parete, ogni suo spigolo, ogni suo ghiacciaio e la sua sommità coperta di ghiaccio. L’avevo sognata così tante volte che quella visione mi sembrò un deja vu. Il pilota gli girò più volte attorno a quote diverse e noi, passando da un oblò a un altro, non riuscivamo a staccare gli occhi da quella montagna. Eravamo tutti ammutoliti e buon per noi che il rombo dei motori copriva il furioso battito dei nostri cuori altrimenti ognuno avrebbe potuto rendersi conto dello stato d’animo dell’altro.
Atterrammo al Lago Argentino su una pista di terra. Scaricammo l’aereo e caricammo un vecchio camion che ci trasportò sulle rive del Rio de las Vueltas dove piantammo le tende. All’alba del mattino dopo ci accorgemmo che la spedizione di Bonatti si era accampata nelle vicinanze. Avevamo avuto notizia che la spedizione avversaria, nonostante il vantaggio che aveva accumulato su di noi, era stata fermata per molti giorni a Buenos Aires a causa di problemi doganali e impasse burocratiche. Trovarceli lì mentre li pensavamo già in parete, ci ridiede una certa speranza. E buon per noi che le coincidenze, penalizzando la loro falsa partenza, ci riallinearono tutti ai blocchi di partenza senza vantaggi per noi ma sicuramente senza svantaggi.
L’arrivo del gruppo creò una pesante atmosfera di disagio che nemmeno la bellezza della natura riuscì a dissipare. C’era nell’aria una tale sensazione di tensione che sembrava di sedere su un barile di dinamite. E in quello stato d’animo ci accingevamo entrambi ad attaccare la montagna più difficile del mondo.
Per fortuna i contatti furono rari e gli scontri limitati. Racconto il più significativo. Mentre passeggiavo da solo per la pampa fui fermato da un giovane italo-argentino capo organizzatore della spedizione Bonatti. Dall’alto del suo cavallo, il gradasso, spacciandosi per il Governatore della provincia di Santa Cruz, mi impose di lasciare la zona entro 24 ore. Io non mi scomposi. Estrassi la pistola che portavo con me per allontanare qualche puma troppo invadente e puntandogliela sotto il naso gli dissi solo: “E io ti do trenta secondi per sparire dalla mia vista”.
Cosa che lo spaccone fece immediatamente e senza fiatare.
Dopo qualche giorno arrivarono i carri con i quali avremmo guadato il fiume. Erano fatti di legno massiccio, alti almeno quattro metri. Pesavano qualche tonnellata e l’asse di ferro che univa le due ruote, alte più di due metri, aveva un diametro di una decina di centimetri. Ogni carro era trainato da dieci buoi mastodontici, robusti come i carri. Attraversammo il fiume con l’acqua all’altezza delle ruote, seguendo un percorso noto solo ai gauchos che guidavano il carro urlando a squarciagola incitamenti che davano forza e sprone agli animali immersi fino al garrese in un’acqua gelida, color della terra, turbinosa e repellente. Viaggiammo tutto il giorno e tutta la notte per piste dove le uniche tracce erano i solchi lasciati da altri carri che normalmente trasportavano tonnellate di lana merinos ricavata dalla tosatura di milioni di pecore allevate dagli estancieros. Attorno a noi centinaia di volpi argentate, migliaia di lepri, branchi di guanachi e solitari puma riempivano di vita la pampa bruciata dal vento che la spazzava continuamente.
La mattina del 15 gennaio, lasciati i carri, partimmo carichi alla ricerca di un luogo riparato dove piantare il campo base. Scoprimmo una piccola spianata da dove iniziava la morena che ci avrebbe condotti al Torre. Dopo avere montato la grande tenda che ci avrebbe ospitati tutti e cinque, con tronchi d’albero costruimmo una spaziosa capanna adibita a cucina e magazzino, un tavolo, le panche per sederci e, deviando un piccolo corso d’acqua, ci assicurammo l’acqua corrente. Sotto di noi la seraccata del Torre precipitava in un lago dello stesso colore del ghiaccio.
Il Torre, sempre coperto da nuvole nere, si fece vedere il 19 gennaio. Era maestoso, inondato dal sole, provocante. La sua stupenda figura snella sembrava veramente un urlo pietrificato. Discutemmo sulla necessità di attaccarlo approfittando di quell’inatteso bel tempo inconsueto per la Patagonia. Avevamo disposto fin dalla partenza che le decisioni alpinistiche sarebbero state sottoposte a votazione e in caso di parità avrebbe prevalso il voto del capo spedizione.
Cesarino, Luciano e io eravamo della opinione di attaccare subito, Marino era indeciso, i fratelli Detassis erano dell’idea che sarebbe stato opportuno portare a termine una accurata ricognizione sulle montagne limitrofe. Bruno, sul quale gravava la responsabilità dell’incolumità di noi tutti, dopo un attento esame della montagna espresse il suo parere sfavorevole. Il Torre, secondo la sua indiscussa esperienza, era troppo difficile per la nostra compagine. Avremmo così risolto altri problemi alpinistici ma il Torre non lo avremmo attaccato.
Solo oggi, a distanza di tanti anni, riesco a spiegarmi le ragioni che spinsero Bruno a quella sofferta decisione. Lui, il grande alpinista che aveva vinto ogni cima delle Dolomiti, aveva temuto per la nostra incolumità. Forse, fin dall’inizio, aveva visto nel Torre un mostro al quale non voleva sacrificarci e questo gli diede la forza di prendere una decisione così drastica.
Di quella spedizione, che mi aveva tanto entusiasmato, mi rimase un ricordo di marce forzate, di un estenuante andare e venire per salire delle montagne che, pur essendo di notevole interesse, non potevano certo essere paragonate al Torre la cui presenza mi ricordava ogni minuto del giorno e della notte che io ero andato laggiù per attaccarlo e vincerlo. Quella spedizione mi fece capire una volta per sempre che la mia vocazione di realizzarmi come alpinista solitario proveniva da un profondo senso di rivolta verso chiunque volesse indicarmi cosa avrei dovuto fare. E nello stesso tempo mi insegnò che quando si concordano prima le regole di un gioco al quale si decide di partecipare, quelle regole devono essere rispettate anche a costo di umiliare la propria personalità e i propri istinti.
Di quella spedizione voglio anche ricordare i momenti felici: la professionalità di Bruno, le capacità tecniche e fisiche dei miei compagni e alcuni episodi vissuti in completa solitudine al cospetto di quel Torre che riempiva i miei pensieri.
Ricordo la notte quando Marino, Catullo, Luciano e io capitammo per errore in mezzo alla seraccata che precipita sulla Laguna Torre. Alla luce delle torce elettriche cercammo di attraversare da ovest a est quel labirinto di seracchi e crepacci. Improvvisamente dal Torre spuntò una luna così piena e così vicina da poterla toccare. La sua luce rendeva tutto ovattato e irreale. Noi da troppe ore ci trascinavamo da un crepaccio all’altro sfiniti e con i piedi doloranti. Il nervosismo si impadronì di noi e io decisi di puntare a nord dove sapevo che la seraccata si perdeva incontrando il quasi pianeggiante ghiacciaio. I miei compagni avevano deciso di proseguire nell’attraversata. Ci salutammo e io iniziai la mia notturna passeggiata solitaria. In meno di due ore uscii dal dedalo di crepacci e sbucai nel ghiacciaio. Sopra di me la nera mole del Torre sembrava un castello stregato. La luce lunare appiattiva tutto e illuminava dolcemente il Fitz Roy e le montagne che gli facevano corona. Decisamente puntai a est certo che in poco tempo avrei incontrato il sentiero che avevamo tracciato con il nostro andare e venire. Zaino sulla schiena, ramponi nei piedi e piccozza in mano camminavo estasiato da tanta bellezza, quando incontrai sul mio percorso un lungo, profondo e largo canale che incideva il ghiacciaio da nord a sud. Alla luce della luna sembrava un enorme tubo tagliato longitudinalmente che avrei dovuto in qualche modo attraversare. Per risolvere velocemente il problema mi sarei lasciato scivolare lungo un bordo e, una volta arrivato sul fondo, sarei risalito dall’altro usando piccozza e ramponi. In canale, profondo sette ad otto metri e largo dieci, perfettamente liscio come una pista di bob mi attirava come una sirena. Mi sedetti sul ciglio e mentre stavo per lasciarmi scivolare fui colto da una sensazione di grave pericolo. Mi rialzai e con un colpo di piccozza staccai un pezzo di ghiaccio che cadde nello scivolo rivelandomi un fiume che correva silenzioso dentro quello splendido e liscio canale. Seguii la condotta per un centinaio di metri fin quando un’enorme bocca, spalancata nel ghiacciaio, inghiottì con un rumore mortale quella massa d’acqua. Quella scampata morte del topo mi perseguitò per molti anni e ancora oggi quando ci ripenso un brivido freddo mi scende lungo la schiena.
Ricordo ancora il 2 febbraio quando, dopo aver sprecato tempo ed energie in inutili tentativi, non seppi resistere oltre e riassaporai il piacere di arrampicare da solo. Avevo lasciato il campo alla mattina presto, attorno a me il cielo era terso e limpido e il Torre era addirittura magnifico. Attraverso un ghiacciaio mi portai ai piedi del Fitz Roy dal quale si staccavano due cime inaccesse. Dal campo giungevano, nitidi ma lontani, rumori amici: un canto, il picchiare di un martello, un richiamo, suoni che diventavano sicuri punti di riferimento per la mia solitudine. Alla base della parete che stavo per affrontare ritrovai me stesso, la voglia di lottare e il mio cuore pulsò per un attimo più velocemente, poi ritrovò il suo ritmo e venni invaso dall’entusiasmo di trovarmi davanti a una inviolata parete di 500 metri deve nessun uomo era mai passato. Arrampicando su quelle calde, solide rocce raggiunsi la prima cima e poi la seconda. Mi stesi sul caldo granito beandomi dentro quella meravigliosa cerchia di montagne che mi avvolgeva a 360 gradi. La roccia sulla quale mi ero steso mi trasmise un dolce tepore che passando attraverso gli scarponi e i vestiti riscaldava il mio corpo dandomi un senso di sonnolenza. In mezzo a quella pace sentii un soffio leggero. Sopra la mia testa volava maestoso un condor. Stringendo sempre di più le spirali della sua planata si avvicinò meno di una decina di metri senza che uno avesse paura dell’altro. Ci facemmo compagnia per quasi un’ora. Mi alzai pigramente e raccolte le mie cose incominciai a scendere. Il condor continuava a seguirmi. Ogni tanto si allontanava per riapparire sempre più distante finché sparì definitivamente dalla mia vista.
Rifeci a ritroso il ghiacciaio e prima di arrivare al campo guardai indietro. Sopra le mie cime c’era un puntino nero. Era il condor. Lo salutai con la mano e improvvisamente mi sentii stanco.
Verso la fine di gennaio il tempo a nostra disposizione era agli sgoccioli. Salimmo ancora qualche cima in attesa del giorno della partenza. Smontammo il campo e quando abbandonai la Patagonia avevo dentro un profondo senso di sconfitta che mi avvolgeva come una cappa togliendomi il respiro
E le forze. Riposi nello zaino le mie cose e senza voltarmi a guardare il Torre mi incamminai verso la valle in preda a un impellente bisogno di vomitare che trangugiai insieme alle lacrime che mi riempivano gli occhi. Chissà quanto tempo ci sarebbe voluto prima che si placasse quella pesante sensazione di aver lasciato lassù qualcosa di incompiuto. Chissà quanto tempo ci sarebbe voluto prima di poter ancora riassaporare il piacere della vittoria. In quel momento mi pesava addosso un amaro e struggente senso di sconfitta, ma anche la certezza che sarei ritornato al Torre e lo avrei vinto.
Ritorno al Torre
Ritornai in Italia affranto. Niente mi interessava. Il mio corpo era a Trento ma tutto il resto di me era rimasto in Patagonia ad aspettare che ritornassi laggiù per recuperare i cocci della mia volontà e del mio entusiasmo sparpagliati ai piedi di quel Torre che non avevo potuto attaccare. Per tutta l’estate 1958 arrampicai con addosso una violenta, incontrollabile rabbia. Scaricavo sugli appigli la mia delusione afferrandoli con tanta veemenza da tenere di poterli strappare dalla montagna. In quelle condizioni di spirito ritrovai Claudio Baldessari, un vecchio amico che non vedevo da tempo. Lo conoscevo fin da ragazzo, ai tempi dei “Casoni”, quando era caposquadra dei “Balilla moschettieri” e suonava la tromba con portamento marziale. Molti anni dopo era diventato un ottimo ufficiale delle truppe alpine. Aveva creato dal nulla il plotone paracadutisti, era un buon istruttore di alpinismo, coraggioso, bello, elegante, amato dalle donne e dai suoi uomini che per lui stravedevano. Insieme aprimmo alcune vie nuove nelle Dolomiti e da quel giorno Claudio divenne il mio fortissimo “secondo di cordata”. Con lui, per il solo gusto di dimostrare che non era “impossibile”, affrontai un impressionante diedro di 400 metri che si erge proprio sopra il lago di Toblino. In quattro giorni di arrampicata superammo quel susseguirsi di tetti e strapiombi e mi resi conto di aver trovato il compagno ideale da portare al Torre con me. Ne parlammo durante i bivacchi e Claudio ne fu entusiasta. E il Torre mi sembrò improvvisamente più vicino.
Agli inizi di ottobre in Argentina, Cesarino Fava e gli amici del Circolo Trentino stavano racimolando il denaro necessario per acquistare a Buenos Aires i viveri per la spedizione, mentre io ero riuscito a trovare gran parte del materiale alpinistico necessario. La Sezione universitaria della SAT mi diede tutto quello che poteva darmi per non farmi sentire solo: il patrocinio morale, qualche corda e un mazzo di chiodi arrugginiti. Verso la metà di ottobre Baldessari, quasi piangendo dalla rabbia, mi disse che il suo Corpo d’Armata non gli aveva concesso il permesso per partire. Ero disperato, ma sarei partito ugualmente anche da solo. Vendetti la mia macchina e con il ricavato, che non era molto, riuscii ad acquistare il biglietto aereo di sola andata.
Verso la fine di ottobre la famosissima guida alpina di Innsbruck Toni Egger, uno dei più forti arrampicatori e ghiacciatori del mondo, mi scrisse: “Caro Cesare, ho sentito che vai al Torre, se vuoi vengo con te. Dovrebbe riuscire un grande successo…”.
Lo avevo incontrato più volte a Trento in occasione del Festival dei film di montagna, ed eravamo diventati amici, ma non avevo mai arrampicato con lui. Sapevo che aveva al suo attivo una formidabile attività alpinistica sia nelle Dolomiti che nelle Alpi occidentali e da poco tempo aveva vinto una delle montagne più alte e difficili del Perù. Quando resi nota la notizia i miei amici dissero che il Torre aveva i giorni contati e, conoscendo le capacità del mio nuovo fortissimo compagno, lo pensai anch’io. Fissai la mia partenza alla fine di novembre e 15 giorni dopo Toni mi avrebbe raggiunto in Argentina.
Non avevo paura. Ero solamente addolorato e avvilito, perché stavo infrangendo l’imperativo che mi ero imposto e che avevo insegnato a tanti allievi: “Non si deve gettare via la propria vita per una cima”.
Mi ero chiesto mille volte come mi sarei comportato su quella montagna e la risposta era sempre la stessa: mi costasse anche la vita, con compagni o senza sarei arrivato in vetta. Con rabbia mi rendevo conto che stavo barattando la mia vita con la vetta del Torre perché ero un uomo orgoglioso, un campione abituato a vincere, a osare l’inosabile, a misurarmi con l’impossibile. No. Non sarei mai ritornato indietro. E quella risposta umiliava i miei principi mettendo in risalto le mie contraddizioni. Ma non era certo solo per orgoglio che mi stavo giocando la vita al Torre. C’erano altri fattori che mi spingevano verso quella montagna: il denaro che gli amici mi avevano dato, l’avere promesso a me stesso che sarei arrivato in vetta, l’aver dichiarato che non esistono montagne impossibili, l’impegno preso con i trentini residenti in Argentina. Tutti questi obblighi mi schiacciavano e non mi permettevano di essere obiettivo. Ciononostante sapevo che quelli che chiamavo obblighi erano solo scusanti verso me stesso per giustificare l’assurdo aut aut che mi ero imposto e che umiliava i miei principi.
Il giorno che partii da Trento mi sentivo nelle stesse condizioni di spirito di uno che va al fronte e con questa sensazione sbarcai all’aeroporto di Buenos Aires dove c’era ad aspettarmi Cesarino con tutti gli amici che avevo lasciato una decina di mesi prima. Ritornai al Circolo Trentino dove fui circondato dall’entusiasmo e dal calore umano di tutti i soci che mi stavano aiutando, certi che una mia vittoria avrebbe, una volta di più, dimostrato al mondo il valore e il senso del dovere della gente trentina. Feci conoscenza con quattro ragazzi che ci avrebbero accompagnati con funzioni di portatori. Erano timidi e impacciati, ma robusti, molto determinati e, quel che contava forse di più, traboccanti di entusiasmo.
Sommando le loro età superavano forse appena gli ottanta anni, ma mi sembravano carichi di responsabilità e fin dal primo momento compresi che sarebbero stati degli ottimi compagni. Pochi giorni prima della partenza il governo argentino, in preda a una delle sue tante crisi politiche che stavano dissanguando il Paese, ci comunicò che non sarebbe stato in grado di fornirci un aereo militare per trasportarci in Patagonia. Per caso trovammo un autotrasportatore romano emigrato in Argentina che con i suoi camion copriva periodicamente i tremila chilometri che separano Buenos Aires dalla Patagonia. Pattuimmo il prezzo e ci accordammo sulle modalità del trasporto. Velocemente feci i miei conti. Dopo aver comperato i viveri, qualche fornello a gas e l’occorrente per allestire il campo base, mi sarebbero rimaste trecento mila lire che avrei tenuto in serbo per il biglietto di ritorno in Italia. Non ci pensai su due volte e pagai il camionista. Per il ritorno in Italia ci avrei pensato a spedizione finita.
Toni Egger ci raggiunse a Buenos Aires a preparativi ultimati. Era arrivato il momento di partire. All’alba del 21 dicembre lasciammo le ultime frazioni di Buenos Aires per inoltrarci nella sconfinata pampa, piatta, bruciata dal sole e dal vento. Ben presto anche le ultime case sparirono e per giorni e giorni attraversammo un monotono e interminabile panorama di erba dove, insieme a milioni di pecore, vivevano guanachi, volpi argentate, lepri, conigli selvatici e qualche solitario puma. A volte percorrevamo anche 400 chilometri senza incontrare una sola casa. Dopo cinque giorni di sterrato, soffocati dal caldo e dalla polvere, arrivammo a Comodoro Rivadavia. Era il giorno di Natale. Quaranta gradi all’ombra, una manciata di case a un piano e la gente che, vedendoci vestiti da montagna, ci guardava incuriosita. Riprendemmo il viaggio verso sud. Dopo due giorni e due notti arrivammo dove circa un anno prima avevamo allestito l’attendamento della prima spedizione. I gauchos proprietari dei carri che l’anno prima ci avevano fatto guadare il fiume non c’erano più: si diceva che si fossero ammazzati tra loro per questioni di soldi. Risolvemmo il problema dell’attraversamento del fiume, approntando una rudimentale teleferica servendoci di un cavo metallico abbandonato e di alcuni tronchi insabbiati nel greto del fiume. Usando le corde di arrampicata come “traenti”, in un giorno trasbordammo uomini e materiale dall’altra parte del fiume dove ci attendeva uno sgangherato autocarro arrivato lì durante un anno di magra senza essere stato più in grado di ritornare. Da quel giorno faceva servizio fra le Estancias e il fiume trasportando lana, viveri e materiali. Per pochi pesos ci portò fino al Rio Fitz Roy. In quel vorticoso, gelido e pericoloso affluente del Rio de las Vueltas, qualche anno prima era morto annegato un alpinista francese (si tratta di Jacques Poincenot, NdR).
Con Toni e Cesarino perlustrammo la riva nella speranza di trovare un guado quando improvvisamente mi franò il terreno sotto i piedi e precipitai in mezzo alla corrente che immediatamente mi trasportò verso valle. In pochi secondi fui trascinato verso il centro del fiume. I miei compagni correndo lungo l’argine mi urlavano di ritornare indietro. Mi sentii perduto. Immediatamente mi resi conto che da qualsiasi parte avessi deciso di andare il rischio di annegare era identico. Decisi perciò di nuotare verso la riva opposta. Pur appesantito dagli abiti da montagna e dagli scarponi incominciai a nuotare con ferocia lasciandomi portare dalla corrente resa più impetuosa dall’avvicinarsi delle rapide. L’acqua gelida mi bloccava i movimenti. Picchiando continuamente contro grossi massi sommersi, cercai disperatamente di avvicinarmi alla riva prima che la violenza delle acque mi travolgesse dentro una gola rocciosa dove il fiume sarebbe diventato una trappola mortale. Terrorizzato, forzai l’andatura fino a farmi scoppiare i muscoli e i polmoni e atterrai dall’altra parte cercando di afferrarmi a qualche cespuglio che inevitabilmente sradicavo. Finalmente mi aggrappai a un resistente blocco di terra. Ero salvo. Mi trascinai carponi in mezzo ai sassi per qualche metro e quando fui sicuro di essere sulla terraferma mi alzai e mi girai trionfante verso i miei compagni che dall’altra parte stavano facendo salti dalla gioia.
Gocciolante e appesantito dall’acqua mi incamminai verso la estancia dove fui accolto dai peones che, dopo avermi offerto mate bollente e abiti asciutti, mi fornirono sette cavalli con i quali ritornai a prendere i miei compagni. Il 31 dicembre, carichi di pesanti zaini e trainandoci dietro i cavalli da soma, iniziammo il trasporto degli approvvigionamenti. In prossimità del nostro vecchio campo base accelerai il passo per arrivarci da solo. Lo trovai in completo stato di abbandono. La casetta di tronchi era crollata e ovunque c’erano barattoli arrugginiti e vecchie casse vuote con la scritta Expedicio Trentina. Provai una stretta al cuore ripensando alle estenuanti fatiche e ai momenti di scoramento che avevano contraddistinto quella nostra fortissima ma indecisa compagine.
All’arrivo dei compagni la piccola radura si animò, piantammo le tende, accendemmo il fuoco e immediatamente ripristinammo il campo. I ragazzi erano instancabili e pieni di buona volontà. Era l’ultimo dell’anno, il giorno dopo sarebbe iniziato il 1959. L’anno in cui avrei scalato il Torre.
Toni accusò subito un’infezione a un piede che non gli permise di camminare per molti giorni. Mentre i ragazzi si davano da fare per attrezzare e approvvigionare il campo base, Cesarino e io riattivammo il campo ai piedi del Mocho, l’imponente contrafforte del Torre. Sul grande masso c’era ancora infisso il cartello: Spedizione Trentina campo 2.
Fu proprio in mezzo a quello straordinario scenario che incominciai a grattarmi con insistenza. Preoccupato di essermi beccato qualche brutta infezione mi calai i pantaloni e guardai in mezzo alle gambe. Ero pieno di piattole. Ero stato infestato dagli indumenti prestatimi dai pastori. Mi spogliai nudo come un verme e al cospetto di quella stupenda corona di montagne Cesarino, che di piattole se ne intendeva, mi rasò tutti i peli del pube e del sedere e mi cosparse di benzina. In pochi secondi impazzii dal bruciore. Non avrei mai pensato che la benzina sulle palle e sul buco del culo provocasse un dolore così lancinante. Urlando come un ossesso saltai dentro una profonda buca di acqua ghiacciata trovando un po’ di refrigerio. Lentamente il bruciore diminuì ma rimasero le ustioni provocate dalla benzina. Piattole e uova erano stecchite e fortunatamente le parti del mio corpo che le avevano ospitate non avevano subito danni irreparabili. Mi stesi su di un sasso caldo aspettando che le ustioni e il gonfiore diminuissero e intanto ispezionai i miei indumenti. La mia splendida calzamaglia brulicava di uova e di parassiti. Secondo Cesarino l’unico rimedio per eliminare quello schifo consisteva nello spruzzare un po’ di benzina sull’indumento e dargli fuoco. Sempre secondo Cesarino, tecnico delle piattole, la benzina bruciando avrebbe distrutto tutti i parassiti lasciando intatto il tessuto. Appiccai il fuoco e aspettai. Le fiamme distrussero piattole e uova, ma anche le mie stupende mutande riducendole in un mucchietto di ceneri. Mi arrangiai infilando le gambe dentro le maniche di una maglia creando così lì per lì un nuovo indumento.
Visto che l’infezione al piede di Toni non accennava a guarire, Cesarino e io approntammo un terzo campo in un profondo crepaccio ai piedi della parete est dove avevamo individuato un probabile percorso caratterizzato da una serie di diedri che portavano a una “forcella” posta a nord del Torre.
Alle 12.20 del 6 gennaio non seppi resistere. Superai la crepaccia terminale e sotto una leggera pioggia attaccai la parete del Torre. Mi legai con solennità, quasi officiassi un rito. Posai le mani sulle prime rocce accarezzandole dolcemente come un cow boy accarezza il collo del puledro che dovrà domare. Afferrai gli appigli in una sequenza che veniva spontanea e naturale e in pochi minuti mi allontanai da Cesarino che mi stava facendo sicurezza. Più in alto piantai il primo chiodo. Sentivo che stavo incastrando nella roccia il chiodo più importante della mia carriera di alpinista. Si stava avverando quello che avevo sognato da tanto tempo. I gesti erano quelli di sempre. Con la sinistra mi tenevo in equilibrio, con la destra frugavo fra i chiodi per trovare quello giusto, lo puntavo nella fessura, con il martello lo picchiavo prima dolcemente per non farlo schizzare via poi, picchiandolo con sempre maggiore violenza, lo incastravo nella roccia fino al suo anello. Con quel gesto liberatorio scaricavo tutta la mia rabbia, tutte le umiliazioni subite, le ansie e la mia sete di vittoria rimpiangendo solo di non aver avuto lì con me anche i miei compagni Stenico e Baldessari.
Mi innalzai per un paio di filate di corda, quel tanto per dimostrare a me stesso che la nostra sfida era incominciata, e ritornammo al campo 2 dove trovammo i ragazzi orgogliosi di quello che stavano facendo.
Qualche giorno dopo Toni, completamente ristabilito, riprese l’attività. Incominciammo ad attrezzare il diedro con corde fisse che ci avrebbero aiutato a salire e scendere con più facilità e sicurezza i tratti appena conquistati. In una alternanza di tempo buono e tempo cattivo riuscimmo a salire oltre il ghiacciaio pensile. Il 16 gennaio iniziò il cattivo tempo. In alto nevicava fortissimo e in basso pioveva. Dopo qualche giorno passato dentro il crepaccio, decidemmo di scendere al campo base per vedere un po’ di verde, ma anche laggiù il tempo era pessimo così scendemmo fino all’estancia. Passavano i giorni e il Torre era sempre avvolto da nere nuvole cariche di tempesta. Il cattivo tempo si scatenò fino al 24 gennaio quando svegliandoci trovammo la valle inondata dal sole.
Salutammo gli amici estancieros e carichi come muli salimmo verso i campi superiori. Il sentiero era coperto da mezzo metro di neve e a mano a mano che ci avvicinavamo al Torre ci rendemmo conto che il maltempo, che aveva imperversato per due settimane, aveva ricoperto le sue pareti di uno spesso strato di neve rendendolo tutto bianco come un fantasma.
Era chiaro che il Torre aveva assunto una veste invernale. La sua parete nord, corrispondente alla parete sud del nostro emisfero, quindi la meno verticale delle pareti, era così colma di neve da sembrare una parete di ghiaccio che avremmo potuto superare con ramponi e piccozza.
Discutemmo a lungo di quel problema e all’unanimità decidemmo che era giunto il momento di attaccare definitivamente il Torre per approfittare di quelle condizioni di innevamento. Il 28 gennaio a notte fonda Toni, Cesarino e io lasciammo il nostro campo situato nel crepaccio, per avviarci verso la parete est del Torre. Ognuno di noi era solo con la propria paura e io sentivo rimbombare nella mia testa quello che avevo scritto sul mio diario prima di partire: “Nella vita di un uomo c’è sempre il momento nel quale tutto viene pesato, nel quale altro non vale che lasciare la speranza per il volere. Oggi questo momento è mio. Se non tornassi direte che ho cercato il mio senso alla vita lassù sul Torre e ricordatemi”.
All’alba avevamo già superato il tratto attrezzato con le corde fisse. La parete era coperta di uno spesso strato di neve che rendeva più veloce la nostra salita. Cesarino, carico come un mulo, era sempre ultimo mentre Toni e io ci alternavamo al comando della cordata. Se il passaggio era di roccia spettava a me, se invece incontravamo un tratto ricoperto dalla neve era di Toni, grande specialista della tecnica di ghiaccio.
Nel pomeriggio, forzando i tempi arrivammo alla forcella (Colle della Conquista, NdR). Dietro alle nostre spalle l’imponente Fitz Roy inondato dal sole, davanti a noi lo sconfinato Hielo Continental, sulla nostra destra una strapiombante parete incombeva sopra la forcella e sulla nostra sinistra, bianca come una parete di ghiaccio, c’era la Nord del Torre chiusa in cima da grandi strapiombi di ghiaccio che visti da sotto sembravano enormi cavolfiori.
Cesarino depositò il suo carico e incominciò a scendere a corde doppie lungo la parete appena salita. Ci lasciò con dentro una profonda tristezza che trapelava da uno sguardo che non riusciva a celare il timore di non vederci più. Rimasti soli Toni e io incominciammo ad approntare il bivacco scavando una truna nella neve e una volta sistemata la nostra tana scrutammo la parete per cercare il percorso migliore. Decidemmo che saremmo saliti sfruttando una serie di placche inclinate che l’abbondante nevicata aveva ricoperto di neve livellandole come una pista di discesa libera. Per esperienza sapevamo che quella coltre di neve ci avrebbe sicuramente aiutati a salire, ma in caso la temperatura fosse aumentata, la parete si sarebbe trasformata in un fiume di valanghe e sarebbe diventata una trappola mortale.
Per due giorni e mezzo, arrampicando anche di notte ci giocammo le nostre vite su quella instabile crosta di ghiaccio che rimbombava come una cassa da morto, lasciando dietro di noi solo una nitida traccia di tacche profonde. Una assurda scala che puntava decisa verso lo sfavillio della cima che brillando contro il cielo ci attirava come quegli specchi usati dai cacciatori per catturare allodole. Il 31 gennaio verso mezzogiorno arrivammo in prossimità della vetta. Un paio di filate di corda senza particolari difficoltà ci portarono a un pianoro delimitato a destra da rigonfiamenti che precipitavano sulla parete sud e a sinistra dal grosso strapiombo di ghiaccio fatto a fungo che sporgeva minaccioso sopra le pareti nord ed est. Eravamo in vetta. Improvvisamente un forte e caldo vento proveniente dal Cile investì la montagna spazzando la cima come un mare forza 10 spazza la tolda di una nave. Noi due stavamo aggrappati alle nostre piccozze come due alberi ancorati alle loro radici. Quello che avevamo temuto si stava avverando. La temperatura stava aumentando e fra non molto si sarebbe scatenato l’inferno.
Nuvole nere cariche di umidità e di elettricità correvano con la velocità di un fiume in piena. Lasciammo la cima investiti dalla potenza di quel vento che ci sbatacchiava qua e là come foglie. Ci rendemmo subito conto che c’eravamo ficcati nella merda fino al collo. La prima volta che recuperammo la corda doppia lo facemmo con il fiato sospeso. Aspettammo che il vento ci desse un attimo di tregua poi mollammo il capo della corda recuperandolo immediatamente prima che il vento lo portasse in alto con il grave pericolo di incastrarsi contro qualche asperità. Vedemmo il capo alzarsi in aria e sparire alla nostra vista come un palloncino sfuggito dalle mani di un bimbo durante una fiera. Recuperammo dolcemente ma con decisione la corda che metro dopo metro si ammucchiava ai nostri piedi. Sapevamo che la nostra vita dipendeva solo da quei 200 metri di corda che ci avrebbero permesso di portare la pelle a casa. La difendevamo come la cosa più cara del mondo e in realtà lo era. Se si fosse incastrata o ci fosse scappata dalle mani non ci sarebbe stato scampo per noi.
Dopo qualche corda doppia rinvenimmo la truna dell’ultimo bivacco e decidemmo di passarci la notte. Il vento aveva in parte otturato l’entrata, ma rinvenimmo ugualmente i pochi viveri che avevamo lasciato. Passammo la notte ossessionati dal vento che martoriava l’entrata della nostra piccola grotta. Ognuno chiedeva a se stesso cosa sarebbe successo domani e quel pensiero diventava un incubo. La mattina del primo febbraio uscimmo dal nostro bivacco. L’aria era pesante, nevicava e il vento era ancora fortissimo. Per tutta la notte la cima aveva scaricato lungo la parete nord valanghe su valanghe, e noi di lì a poco avremmo dovuto affrontarla calandoci non una decina di corde doppie, lungo quel mortale fiume di neve. La stanchezza si faceva sentire e soprattutto i nostri nervi erano a pezzi. Eravamo stati tutto il giorno investiti da piccole e grosse valanghe e sottoposti alla tortura di un vento brutale che spazzava di traverso la parete sbatacchiandoci qua e là. Le nostre condizioni fisiche ci obbligarono ad allestire il quinto bivacco su un ripiano esposto alla caduta di valanghe. Infilati nei nostri sacchi non riuscimmo ad accendere il piccolo fornello ad alcool solido con il quale avremmo potuto sciogliere un po’ di neve per prepararci un goccio di tè caldo. Così, abbrutiti dalla sete e dalla fame passammo la notte. Attorno a noi c’era il finimondo. Sembrava di essere in una galleria buia dove continuamente sferragliavano assordanti treni che da un momento all’altro avrebbero potuto investirci e stritolarci.
Venne la mattina del 2 febbraio. Il tempo era ulteriormente peggiorato, ma noi avevamo deciso di non morire. Calandoci in diagonale arrivammo in prossimità della forcella e scapolammo sulla parete est. Su quella parete trovammo un po’ di calma. Dopo tante ore passate in mezzo al vento e alle valanghe ci parve di arrivare in un altro mondo. Su quel versante eravamo a ridosso del vento che soffiava furioso da ovest. Continuava a nevicare e sopra alle nostre teste vedevamo passare a velocità impressionante nuvole e blocchi di ghiaccio trasportati dalla forza del vento. La parete continuava a scaricarci addosso cumuli di neve che cadevano dall’alto, ma quello stillicidio era niente in confronto a quanto avevamo subito. Iniziammo la discesa per poter arrivare alle corde fisse che erano qualche centinaio di metri sotto di noi. Come animali feriti annusavamo l’odore della salvezza e senza che uno lo dicesse all’altro incominciammo a sperare che ci saremmo salvati. La valle era coperta da pesanti nuvole cariche di neve. Nevicavano fiocchi larghi come piattini da frutta. Provammo a chiamare Cesarino ma nessuno rispose. Verso le sette di sera arrivammo all’inizio del ghiacciaio pensile. Un centinaio di metri sotto di noi avremmo trovato le corde fisse che ci avrebbero aiutato a scendere. Eravamo al limite delle nostre forze. Toni era tentato di forzare i tempi. Voleva trovare le corde fisse e scendere di notte. Io sentivo il bisogno di bivaccare per poter recuperare le forze. Due fisici diversi chiedevano soluzioni diverse. Il compagno mi chiese di calarlo fino alle corde fisse. Voleva vedere se, una volta arrivato al tratto attrezzato, sarebbe stato in grado di continuare per i 400 metri che ci separavano dalla salvezza. Si legò ai capi delle corde e io, assicurato alla parete, incominciai a calarlo. Scendeva di fianco per vedere dove mettere i piedi. Con la mano destra si teneva alle corde per mantenersi in equilibrio e con la mano sinistra impugnava la piccozza. A un certo punto in mezzo al fragore del vento, che infilandosi nella forcella sopra alle nostre teste inondava la valle del Torre, sentii un rumore estraneo. Fermai Toni, guardai in alto, ma eravamo avvolti dalla nebbia e da pesanti nuvole che non mi permettevano di vedere a venti metri sopra di me. Toni diede uno strattone alle corde e mi fece segno di continuare a calarlo. Sempre guardando verso l’alto lo calai diminuendo l’azione frenante delle corde che passando contro la mia schiena e dentro i moschettoni agganciati ai chiodi arrivavano al mio compagno. Improvvisamente, annunciato da un soffio mortale, sbucò dalla nebbia una terrificante montagna di ghiaccio. Urlai: “Toni attento”. Lo spirito di conservazione mi spinse ad appiattirmi contro la parete al riparo di una piccola cornice di roccia. Un rumore assordante mi aggredì e il peso della corda si fece insopportabile inchiodandomi contro la roccia. Tutto durò una manciata di secondi, durante i quali si scaricò su di noi mezza montagna. Lentamente quella valanga si affievolì e per qualche attimo passarono fischiando altri pezzi di ghiaccio. Quando tornò il silenzio mi accorsi che le corde erano senza peso. Guardai in basso. Sul piccolo ghiacciaio pensile non c’era nessuno. Toni era stato spazzato via e i due monconi delle corde erano la certezza che non c’era più. Lo chiamai nella speranza che mi rispondesse, ma non c’era più. A pochi metri dalla salvezza non c’era più. Non c’era più. Mi accucciai affranto sul piccolo terrazzino ricoperto dalla neve e maledissi il giorno che avevo incontrato il Torre. Sono passati quasi 35 anni ma da quel giorno mi è rimasto addosso un profondo senso di solitudine che da allora avvelena la mia vita. Avevo un bel ripetermi che Toni era un grande alpinista e che la sua scelta era sovrana e pertanto insindacabile, ma mi rimaneva dentro ‘sto sgomento che il sopravvissuto ero io, che mi ero sempre imposto la sacralità del compagno. Fu la notte più lunga della mia vita. La più sofferta. La più terrificante e non per timore della mia morte, ma per la perdita del compagno e la rabbia per la mia impotenza e per essere rimasto vivo.
L’alba del 3 febbraio mi alzai dalla mia cuccia, raccolsi il materiale e incominciai a scendere da solo. Quante volte avevo ripetuto quei gesti avviandomi verso una vittoria solitaria. Quel giorno però non c’era nessuna vittoria ad attendermi, perché non esiste vittoria quando è stata pagata a così caro prezzo. Incominciai a scendere a corde doppie con il terrore di incontrare il corpo dilaniato del mio compagno. Qualche schiarita lasciava intravedere la valle del Torre. Ero affranto dalla stanchezza e dal dolore, ma continuai a scendere perché ero abituato a stringere i denti contro ogni avversità e a non calare le braghe per nessun motivo; speravo di lasciarci la pelle così anch’io avrei chiuso il conto. Dopo mezzogiorno arrivai a circa una ventina di metri dalla crepaccia terminale. Preparai l’ultima corda doppia. Nonostante la presenza delle corde fisse, non avevo più la forza di scendere attaccandomi solo a quelle. Improvvisamente persi l’equilibrio. Con un riflesso condizionato mi aggrappai alla corda doppia, ma annebbiato dalla stanchezza e dalla paura afferrai una sola delle due corde e con quella in mano precipitai nel vuoto. Uno dei tanti flash della mia vita è la visione di quel volo. I miei occhi sbarrati si riempirono di neve e di nuvole mentre volavo all’indietro inutilmente aggrappato a una corda che inesorabilmente scorreva nel suo rinvio superiore come se un muratore avesse mollato l’altro capo della corda con la quale stava issando un secchio di cemento.
Il 3 mattina anche Cesarino uscì affranto dal suo bivacco. Dopo averci lasciato, era rimasto sei notti e cinque giorni nel crepaccio attrezzato a campo 3. Ogni giorno cercava di avvicinarsi al Torre per creare una pista, ma il cattivo tempo lo ricacciava nella sua tana. A volte camminava per ore sommerso dalla neve senza riuscire ad avanzare di un solo metro. La mattina del 3 Cesarino abbandonò ogni illusione di rivederci vivi. Uscì dal crepaccio e approfittando di una schiarita incominciò a scendere verso il campo 2. Sarebbe risalito con i ragazzi e insieme avrebbero cercato di rintracciare i nostri corpi. Affranto dal dolore diede un’ultima occhiata al Torre nella speranza di vederci scendere ma la parete era completamente vuota. Per un attimo il suo sguardo incontrò un punto scuro un centinaio di metri sotto la crepaccia terminale, e riprese la sua triste discesa. Si fermò nuovamente e riguardò la macchia scura. Per scrupolo di coscienza, arrancando in due metri di neve fresca si portò sotto la direttiva della via di salita e man mano che si avvicinava a quella macchia gli sembrava di intravedere una forma umana. Forzò l’andatura e capì che era un corpo. Cesarino sul suo diario così ricordò: “… Ora la sagoma umana immersa nella neve sull’orlo di una crepa è a pochi metri da me, ma ancora non so chi dei due sia. La giacca a vento di nylon sulla quale la neve non fa presa ha salvato chi la portava. Sollevai quella massa inerte. Solo tre parole uscirono tra i denti e la spessa crosta di ghiaccio della barba: “Toni. Toni. Toni”.
Cesarino mi aveva salvato la vita.
La salma di Toni Egger venne ritrovata 17 anni più tardi da una spedizione svizzera e i resti del mio compagno vennero sotterrati ai piedi del Fitz Roy.
Il dolore di vivere
Rimasi a Buenos Aires il tempo necessario per dar modo al Circolo Trentino d’organizzare una serie di conferenze nella capitale per pagarmi il viaggio di ritorno.
Quando lasciai Buenos Aires per ritornare in Italia i miei amici mi accompagnarono all’aeroporto e staccarmi da loro fu molto penoso. A Roma mi stavano attendendo mia sorella, mio fratello e mio padre. Il giorno dopo ripartii per Trento. Durante il viaggio in treno lessi e rilessi un telegramma che Claudio Baldessari mi aveva spedito a Buenos Aires nel quale addolorato scriveva: “… Pur sapendo come è finita avrei voluto ugualmente essere con te al posto di Toni”.
La mia città mi aspettava fuori dalla stazione. Il sindaco, la SAT, gli amici e migliaia di persone con una fiaccola in mano mi diedero un affettuoso benvenuto che io vissi come fossero le mie esequie certo che da un momento all’altro mi avrebbero sepolto sotto due metri di terra.
Avevo creduto che quella notte sul Torre sarebbe stata la più triste della mia vita, ma mi accorsi che quelle tristi avevano ancora da venire. Ogni notte mi svegliavo di soprassalto stringendo le lenzuola fradice di sudore mentre urlavo disperato con nelle orecchie il rombo della cima del Torre che crollava. Il dolore invece di attenuarsi aumentò giorno dopo giorno come se uno strato si accumulasse su di un altro fino a diventare un macigno che mi schiacciava. Ogni giorno mi ripetevo che sarebbe stato mille volte meglio morire laggiù al Torre piuttosto che soffrire il giornaliero tormento dei ricordi. Non era più vivere, era solo trascorrere i minuti e le ore della vita assistendo allo scorrere dei giorni sul calendario. Odiavo la montagna. Odiavo me stesso. Odiavo il mio orgoglio. Odiavo il Torre e odiavo il mio odio.
Avrei voluto cambiare vita, smettere di arrampicare, ma non sapevo fare altro che scalare montagne e sfruttare il mio coraggio. Non avevo un mestiere, una professione. Cosa cavolo avrei potuto fare? Avevo pensato anche di correre in macchina scaricando sull’acceleratore tutta la mia rabbia repressa, la mia tristezza, il mio dolore e la mia voglia di disintegrarmi. Mi resi presto conto che stavo facendo una cosa utopica e inutile. Per correre in macchina ci volevano un sacco di soldi che io proprio non avevo. Non mi sarebbe rimasto altro che ritornare a fare la guida. Mi sentivo come un moribondo che assiste lucido alla propria agonia. Vivevo una vita in apparenza normale, mangiavo, camminavo, facevo la corte alle ragazze, partecipavo alla vita sociale ma ogni cosa che facevo mi lasciava indifferente, scorreva su di me come l’acqua sul vetro e lo struggimento si faceva ogni giorno più insopportabile.
Gli amici facevano a gara per distrarmi. Mi invitarono in Bondone a sciare. Fui investito da una piccola slavina e mi ruppi una gamba. Fui operato e per una decina di giorni ricoverato all’ospedale in una stanza riservata. Mi avevano bloccato l’arto con un gigantesco gesso che per 90 giorni mi avrebbe immobilizzato dall’inguine alla caviglia obbligando la gamba in una fastidiosa posizione.
Fra le tante persone che mi facevano visita all’ospedale c’era Fernanda, una amica di mia cugina. Bionda, alta, spigliata, provocante. Era una delle più belle donne di Trento e sapeva di esserlo. Avevo cercato inutilmente di corteggiarla ma senza nessun risultato. Era nata a Trento, aveva vissuto 18 anni a Milano dove si era diplomata. Ritornata a Trento si era sposata giovanissima ma il suo matrimonio era naufragato pochi anni dopo. L’avevo corteggiata in tutti i modi, dolcemente, con insistenza, timidamente o sfacciatamente ma lei niente. Mi snobbava prendendosi gioco di me. Io confidavo sulla mia fama ma lei, pur con gentilezza, riusciva sempre a fuggirmi. Con il palese scopo di stancarmi accettava appuntamenti ai quali non veniva. Con testardaggine io continuavo a proporre nuovi incontri e lei, con altrettanto impegno, camuffato da civetterie, sorrisi e nuove scuse, mi bidonava a ripetizione. Anche il giorno che mi ero infortunato avrei dovuto incontrarla, ma all’ultimo momento mi telefonò una scusa per non farsi vedere così andai in Bondone e in seguito all’ospedale. Fu certamente il rimorso a spingerla a venire a trovarmi in clinica. Era un pomeriggio tiepido, stranamente non c’era nessuno e mi ero appisolato nel mio letto. Bussarono alla porta e Fernanda entrò. Era bellissima, portava le gonne sopra al ginocchio che la facevano sembrare ancora più alta. Era veramente bellissima.
Con un sorriso reso ancora più dolce dal rimorso di essere stata la causa del mio infortunio mi propinò un’altra scusa per non essersi fatta viva e, per farsi perdonare, mi diede la mano lasciandola per un attimo nella mia. L’ingombrante gesso non mi permetteva di muovermi, ma ugualmente l’attirai dentro il letto stringendola a me. Il suo profumo e il suo caldo corpo mi diedero la stessa sensazione di felicità di quando iniziavo una solitaria importante sognata per tanto tempo. La strinsi a me con la stessa disperazione con la quale si afferra un appiglio e finalmente Fernanda non riuscì più a trovare altre scuse per sfuggire al mio corteggiamento.
Da quel giorno le sue visite si fecero più assidue e dolcissime e ci rendemmo conto di esserci innamorati. Dimesso dalla clinica andai alla “Cervara” dove nella mia cameretta, pur sapendo che i pensieri tristi sono molto più assidui di quelli allegri, avrei avuto modo di pensare alla mia vita futura. Incominciai a scrivere il secondo libro che avrei intitolato Arrampicare è il mio mestiere. Fernanda saliva da me ogni momento libero e mi aiutava a battere a macchina i pezzi che scrivevo durante la sua assenza, ma l’attrazione che sentivamo l’uno per l’altra rallentava molto la stesura del dattiloscritto e il più delle volte nella mia, anzi nella propria stanza non si sentiva il ticchettio della macchina per scrivere.
Durante l’immobilizzazione avevo superallenato tutti gli altri muscoli del mio corpo fino ad assomigliare a Maciste e quando agli inizi di luglio mi tolsero il gesso, la gamba sembrava un osso spolpato. Con molta fatica ripresi gli allenamenti per riabilitare l’arto ma il rifiuto verso la montagna era totale. Considerato che non sapevo fare altro che arrampicare, se volevo vestirmi, mangiare e vivere dovevo riprendere la mia attività di guida. Mi riavvicinai alla montagna con la stessa diffidenza di uno che si riavvicina al cane che ha cercato di sbranarlo. Mi diedero l’incarico di dirigere un corso per aspiranti guide alpine e attraverso quell’impegno ritrovai lentamente, faticosamente, dolorosamente la forza per rientrare nell’ordine di idee che la mia vita era legata indissolubilmente alla montagna.
In quella riabilitazione fisica e psicologica mi furono di grande aiuto Fernanda e gli amici più cari che mi usavano mille attenzioni. Vivevo alternando giornate
profondamente tristi a notti angoscianti. La mia testa era continuamente lacerata dall’urlo del vento che non smetteva mai di rintronarmi negli orecchi. Ogni volta che facevo salire un compagno di cordata rivivevo la tragedia di ritrovarmi fra le mani i due capi delle corde tranciati dalla valanga come fossero stati due fragili fili di lana.
In quelle condizioni di profondo disagio psicologico e fisico, mentre sfiduciato mi trascinavo per le montagne zoppicando vistosamente, il 13 agosto di quel maledetto 1959 ricevetti la notizia che il mio amico Giulio Gabrielli era morto sulla parete sud-ovest della Marmolada. Toni Masè, il suo giovanissimo compagno di cordata, era rimasto incrodato su una cengia a 200 metri da terra. A rendere più tragica la situazione, una violenta bufera di neve imperversava da due giorni sulla zona impedendo qualsiasi operazione di salvataggio. Al rifugio Contrin si erano nel frattempo radunati i più forti alpinisti trentini in attesa che le condizioni atmosferiche migliorassero quel tanto da permettere di iniziare l’opera di soccorso. La mattina del 14 l’elicottero del soccorso alpino di Trento, proprio in considerazione della mia momentanea menomazione, mi trasportò sul luogo della tragedia con l’incarico di portare a termine il sopralluogo della parete e di organizzare il rifornimento dei materiali. Già in fase di avvicinamento la situazione si presentò subito tragica. La Marmolada, avvolta da nuvolaglie nere, era coperta da uno spesso manto di neve che la rendeva spettrale. In mezzo a quel lenzuolo bianco si stagliava la sagoma di una figura umana. Nonostante il forte vento e le pessime condizioni atmosferiche il pilota riuscì ad avvicinarsi alla parete tanto che riconobbi Masè, in piedi sulla cengia. Quando arrivammo a un centinaio di metri da lui avvistammo anche il corpo inerte di Giulio. Stava una trentina di metri più in alto appeso a una corda a testa in giù con la schiena appoggiata alla parete e le braccia abbandonate oltre il capo come in segno di resa. Sembrava una bestia macellata appesa a un gancio.
Via radio avvisammo la squadra di soccorso che si apprestò a partire. Il pilota manovrò più volte il pesante e inadatto elicottero avvicinandosi il più possibile alla parete per darmi il modo di tranquillizzare il superstite e per facilitare il lancio di coperte e viveri di conforto che però fallirono il bersaglio. Nel frattempo, le squadre di soccorso si erano già alzate su quella terribile parete coperta di ghiaccio trascinandosi dietro delle corde che salendo fissavano alla roccia per facilitarsi il ritorno.
Vista dall’alto la scena appariva apocalittica. Gli uomini del soccorso, legati in un’unica cordata, salivano lentamente vincendo metro dopo metro quella difficilissima via che lo spesso strato di neve e ghiaccio rendeva mortalmente insidiosa. Masè impossibilitato a collaborare, si era accovacciato sulla cengia in mezzo alla neve ormai certo di essere salvato. Sembrava una scena di un film di guerra girata al rallentatore. Verso mezzogiorno i primi soccorritori lo raggiunsero e dopo averlo rifocillato precipitosamente iniziarono la discesa. Il tempo intanto si era rimesso al brutto impedendo ai soccorritori di recuperare la salma di Giulio che rimase appesa alla parete come un macabro trofeo.
Più tardi Masè raccontò la tragedia rivivendola metro dopo metro. Avvolto in una coperta dalla quale spiccavano le labbra violacee e gli occhi dilatati, appariva molto più giovane dei suoi vent’anni e ascoltandolo sembrava di assistere a una metamorfosi che parola dopo parola lentamente cambiava un bambino in un adulto.
Tutto era cominciato verso le 11 del giorno 11 agosto quando attaccarono la grande parete. Arrampicarono tutto il pomeriggio e verso sera raggiunsero la grande cengia posta a 200 metri dall’attacco dove bivaccarono. Il giorno seguente ripresero l’arrampicata e verso le 10 incominciò a nevicare. Superarono il grande strapiombo e, sempre sotto una fitta nevicata, proseguirono lungo un facile canalino ghiacciato. A quel punto Giulio fece un volo di una decina di metri uscendone illeso ma fortemente scioccato. Il volo, la neve e la fatica influirono negativamente sul suo morale, così Gabrielli, sconvolto dalla fatica e dalla caduta, prese la decisione di rinunciare di scendere a corde doppie lungo quei 500 metri che avevano superato con tanta fatica. Per raggiungere la cima dal punto massimo in cui erano arrivati sarebbe bastato superare un centinaio di metri di media difficoltà, perciò i due compagni discussero sulla validità di quella scelta ma la superiorità alpinistica di Giulio e la giovane età del suo secondo frenarono le deboli proteste di Masè, tanto che alla fine prevalse la decisione del capocordata. Verso mezzogiorno, mentre continuava a nevicare, iniziarono la discesa che si presentava piena di pericoli e di incognite. Dopo il volo Giulio era fisicamente e psicologicamente provato tanto che il suo compagno aveva dovuta sobbarcarsi il duro lavoro di attrezzare le corde doppie pur di farlo riposare. Verso le sette di sera arrivarono a una sessantina di metri del luogo dove avevano passato la notte precedente. Masè si calò per primo, ma si rese conto che per arrivare alla cengia gli mancavano circa 20 metri. Si legò allora al capo di una delle due corde e Giulio lo assicurò fino al pianoro. Dopo averlo calato, Giulio si era certamente reso conto che lui non avrebbe potuto arrivare alla cengia. Perciò annodò le due corde da 40 metri ricavandone una lunga che bloccò a un chiodo. Così facendo sarebbe stato certo di poter arrivare dal compagno. Nello stesso tempo non avrebbe più potuto proseguire. Forse avranno pensato che all’indomani, dopo aver ripreso le forze, in qualche modo sarebbero riusciti a recuperare la corda. Ma a quel punto Giulio, forse dimenticandosi del nodo, fece il gravissimo errore di calarsi usando il cordino e il moschettone, un sistema che permetteva di scivolare meglio lungo le corde soprattutto se bagnate, ma da non usare con corde annodate.
Verso le 8 di sera Giulio incominciò la sua discesa ma, dopo una ventina di metri, qualcosa bloccò la sua calata. Masè sentiva il compagno imprecare contro un nodo che si era incastrato nei moschettoni ma il buio non gli permetteva di rendersi conto di quanto stesse succedendo. Il compagno, dal basso, rimasto senza materiale, non poteva fare nulla per aiutarlo. Cercò di incitarlo ma Giulio continuava a imprecare contro l’intoppo che lo bloccava a metà percorso. Nella speranza che io suo compagno potesse trovare qualche appiglio al quale aggrapparsi, Masè, incamminandosi lungo la cengia, tentò di spostare la corda verso sinistra dove la parete sembrava più articolata. Ma Giulio gli urlò che così facendo lo stava tirando giù. A quel punto Masè disperato si accasciò impotente in mezzo alla neve mentre 30 metri più in su Giulio continuava a imprecare perdendo le forze nel tentativo di liberarsi. Con il passare del tempo le imprecazioni si affievolirono finché divennero un mugolio sempre più debole. Poi seguirono lunghi silenzi rotti da qualche sospiro. Verso mattina Giulio ebbe ancora la forza di mormorare un soffocato: “Mamma mia”, poi fu veramente silenzio.
Ascoltando quel racconto appariva evidente che Masè aveva subito il grande carisma che Giulio aveva su di lui e su tutti noi, ma apparve altrettanto evidente che Giulio, come un ragno suicida, ora dopo ora aveva tessuto la sua tela nella quale avrebbe trovato la morte.
Il giorno 17 ci fu uno spiraglio di sole e ci preparammo a partire ma risultò essere un falso allarme. Al rifugio il papà di Giulio ogni minuto usciva a scrutare il cielo in attesa di quella schiarita che ci avrebbe permesso di recuperare quel povero corpo. Con gli occhi ormai senza lacrime mi prese da parte e accarezzandomi con dolcezza mi scongiurò di portargli giù il suo ragazzo. Come un disco rotto continuava a sussurrarmi: “Giulio era il tuo più caro amico. Ti prego non lasciarlo lassù da solo. Ti prego non lasciarlo lassù da solo”.
Sembrava che quel padre affranto non fosse straziato dalla morte del figlio ma soprattutto dall’ossessione che Giulio fosse rimasto lassù senza nessuno che lo accarezzasse o gli tenesse compagnia. Il giorno 19 il tempo migliorò decisamente. Partimmo dal rifugio quando il sole non era ancora sorto. La gamba mi faceva arrancare con fatica ma volevo essere io ad arrivare per primo da lui. Arrivammo all’attacco della via molto presto. Faceva freddo e la parete era incrostata di ghiaccio. Eravamo una specie di “task force” che veniva impiegata in quei salvataggi o in quei recuperi ritenuti al limite dell’impossibile e quella operazione nella quale eravamo impegnate era proprio uno di quei casi. Verso mezzogiorno, aiutati dalle corde fisse lasciate in quella parete dalla precedente squadra di soccorso, arrivammo alla cengia. Sopra le nostre teste a meno di trenta metri c’era il corpo di Gabrielli. La parete lungo la quale Giulio avrebbe dovuta calarsi era liscia come il marmo perciò, per arrivare fino a lui, avrei dovuto sfruttare la stessa corda alla quale era rimasto appeso. Con dei cordini approntai tre nodi speciali che spinti verso l’alto scorrono lungo la corda mentre, caricate del peso del corpo, si bloccano. Mi alzavo una ventina di centimetri alla volta e ogni movimento faceva sobbalzare il corpo di Giulio. A mano a mano che mi avvicinavo a Giulio l’odore della sua morte si faceva sempre più forte. Quell’odore che non sopportavo ma che riconoscevo per averlo annusato troppe volte. Lentamente mi avvicinai fino a toccargli una mano. Vestiva il suo piumone nero, aveva perso il berretto di lana e i suoi bellissimi capelli biondi erano bagnati. Aveva gli occhi spalancati quasi fosse sbigottito della sua morte. Mi alzai ancora un po’ e gli accarezzai il suo bel viso. Gli chiusi gli occhi con la delicatezza di una madre che vuol fare addormentare il suo bimbo e piangendo mi arrampicai su di lui come in una tragica piramide umana. I suoi capelli, la sua pelle e i suoi abiti impregnati di pioggia e di orina emanavano l’inconfondibile, fetido odore della morte in montagna. Lo oltrepassai calpestandolo con i miei scarponi cercando di non fargli ancora male. Legai attorno alla sua vita una corda e dal basso lo calarono dolcemente fin sulla cengia. Lo chiusero nel ruvido sacco salme e mi fecero scendere dolcemente con lo stesso sistema usato con Giulio.
Riprendemmo a calare il nostro compagno cercando di risparmiargli ulteriori ingiurie e finalmente a notte inoltrata arrivammo alla base della parete.
Lo seppellimmo qualche giorno dopo a Predazzo, dove era nato. Mai dolore fisico fu più forte di quello provato nel calare la sua bara dentro la fossa. Mai corde mi sembrarono così incandescenti quanto quelle che usammo per calarlo dentro la terra. Mai provai tanto rancore verso Giulio. Così forte così atletico, così giovane e così responsabile della sua assurda morte. Mai come quel giorno odiai la montagna sulla quale Giulio si era ucciso. E per molto tempo odiai anche Masè. Forse perché come me era un sopravvissuto o forse perché anche lui aveva assistito impotente alla morte del suo compagno. O forse solamente perché Giulio era morto. Poi il tempo mi fece riflettere e compresi che la tragedia che aveva colpito Masè non si limitava solo alla perdita fisica di un compagno ma si sommava alla caduta di un mito che venerava e al quale si era affidato con estrema fiducia. Oggi Toni Masè, diventato uno stimato professionista, continua ad andare in montagna per passione. E pur rimanendo scosso da quanto era avvenuto, l’ama ancora profondamente perché quel giorno gli ha insegnato che si diventa uomini nello stesso momento in cui si è in grado di assumersi la responsabilità delle proprie decisioni, soprattutto se implicano scelte dolorose e gravi giudizi.
Solo con il passare del tempo il ragazzo d’allora si è reso conto che quel giorno la sua giovane età e la sua ammirazione per Giulio gli avevano impedito di contestare decisamente il suo primo di cordata fisicamente e psicologicamente provato. Questo è quello che ancora oggi tormenta Masè: non aver avuto la determinazione di opporsi alla illogica scelta del suo capocordata pur sapendo che quel pomeriggio lui, giovanissima aspirante guida alpina, sarebbe stato in grado di guidare la cordata fino in vetta. Purtroppo per rispetto, ammirazione e subordinazione non ebbe la determinazione di insistere fino a imporre la sua volontà.
Questo è il rimorso che ancora oggi intristisce il suo sguardo. Un rimorso che, nello stesso tempo, gli ha rinforzato la volontà dandogli per il futuro non solo quella determinazione che non aveva avuto, ma anche la consapevolezza che quel giorno la morte di Giulio lo aveva fatto diventare uomo.
In pochi mesi avevo perso due compagni. La morte di Egger aveva sconvolto la mia vita lasciandomi affranto e atterrito perché avevo sempre creduto che i miei compagni di cordata fossero immortali come gli dei. La morte di Gabrielli invece mi aveva colpito mentre, ancora in ginocchio, cercavo faticosamente di raccattare i cocci della mia vita. Non era servito ficcarmi nella testa che si nasce e si muore come il giorno, le piante, gli animali e gli amori. Non era servito a nulla impormi di considerare la morte solo e unicamente come la naturale fine della vita. Non era servito a niente. Non riuscivo a convincermi che i miei compagni fossero definitivamente morti.
Mi resi conto invece che non era possibile rimanere insensibile di fronte a una vita stroncata. Eppure durante la guerra la morte era una componente giornaliera. Si poteva morire al fronte, per la strada, sotto una casa crollato o dilaniati da una bomba. Ogni posto era buono per rimanere uccisi, e quella costante realtà paradossalmente ci aveva abituati alla vista di quegli scempi. Solo più tardi, quando incominciai ad arrampicare e a convivere con il pericolo, mi fu chiara la differenza fra il morire per cause fortuite e morire perché si disprezza la vita. Questa distinzione, dapprima vaga e indefinita, con il passare degli anni cambiò radicalmente la mia concezione della morte tanto che mi ha sempre angosciato di più la facilità con la quale si getta la propria esistenza, piuttosto che la vista di un corpo straziato e senza vita.
Una morte inutile è un’offesa a quell’esercito di eroi che giorno dopo giorno si batte per il diritto di vivere, per di diritto di essere diversi, per il diritto di essere rispettati e per il diritto di essere liberi dalle schiavitù sociali, etniche e religiose. Per questo, pur soffrendo, non sono mai riuscito a provare giustificazioni verso le morti assurde. Verso chi muore incastrato sotto un tir per avere guidato a velocità sostenuta in un banco di nebbia. Verso chi muore a vent’anni schiantandosi con la vettura contro una pianta, drogato e impasticcato dopo una notte passata in discoteca. Verso chi muore per overdose o abbrutito dalla droga o verso chi, per faciloneria, si sfracella alla base di una parete o muore assiderato in mezzo alla tormenta. Mi ha sempre profondamente colpito quanto aveva scritto mezzo secolo prima il poeta John Donne: “… Ogni morte di uomo mi diminuisce perché io partecipo all’umanità, perciò non mandare a chiedere per chi suona la campana. Essa suona per te”.
Alla luce di questo concetto ogni operazione di soccorso in montagna finita in tragedia è stata per me un pesante trauma. Ogni qualvolta chiudevo nel sacco salma un alpinista caduto, avevo la sensazione di incastrargli dentro anche un pezzo di me stesso. Per difendermi da quel pericolo, avevo imparato ad assumere un distacco che poteva sembrare cinismo privo di pietà e comprensione ma che in verità era solo un modo per non morire un po’ anch’io a ogni tragedia. Non è umano provare rancore verso un morto che fino a un attimo prima parlava, pensava, amava, era atteso, nutriva speranze e cullava sogni. Eppure, ogni volta che ho recuperato il corpo di una persona in qualche modo responsabile della propria morte, ho sentito dentro di me un sentimento di pietà misto a rabbia. La rabbia di non riuscire a trovare una risposta alla domanda: “Perché un uomo deve gettare via la propria vita?”
Quella rabbia spariva di fronte alle assurde morti di poveri ragazzi che si erano affidati a persone esperte che poi esperte non erano, o di fronte alle assurde morti di quelli che non ho potuto salvare e di quelli che hanno chiesto di tenergli la mano nel terribile momento del trapasso. Di fronte a quel povero ragazzo morto per sfinimento mentre rannicchiato in mezzo alla neve, sentendo arrivare la fine, si era sfilato la cintura e, con mano tramante, vi aveva inciso sopra con un chiodo da roccia: “mamma addio”.
Tanto mi hanno sgomentato quelle morti atroci, tanto penso alla mia come a una buona compagna di viaggio che ha arricchito la mia vita con scariche di adrenalina rendendo più emozionante l’impresa di vivere. Oggi, al colmo della maturità, vivo il rapporto con la mia morte guardando a lei come la logica conclusione della mia vita, e nei momenti di sconforto arrivo persino a considerarla una buona soluzione. So che farò soffrire le persone che più amo e questo mi addolora profondamente ma questo fa parte della vita. Sono certo che per me morire sarà dolce come passeggiare dentro un meraviglioso bosco, avvolto da una leggera nebbia che renderà tutto più silenzioso e ovattato proteggendomi come una calda coperta, mentre il sole tramontando si infilerà di sbieco fra gli alberi creando meravigliosi giochi di luci che di daranno una grande serenità. Ho sempre avuto una concezione romantica della mia morte e il rapporto tra me e lei si è sempre basato sulla continua competizione. Una gara che fino a questo momento ho vinto per uno scatto finale, per un millesimo di secondo e qualche volta per un briciolo di fortuna. E, pur sapendo che a lungo andare la vittoria finale sarà sua, non la temo. Anzi il costante rischio di uccidermi mi ha portato a considerare ogni scampato pericolo una grandissima lezione per sopravvivere e uno sprone per amare sempre più profondamente la vita. Vorrei solo che la mia morte sopraggiungesse improvvisa e possibilmente non in montagna. Vorrei inoltre saperla accogliere con dignità e se potessi, come Cyrano de Bergerac: “In piedi e con in mano la spada”.
Nuovi compagni di cordata
La morte di Gabrielli scardinò la mia vita e mi avvicinò ancor più a Fernanda. Sentivo la necessità di aggrapparmi a qualcuno che mi volesse bene e che mi desse quel calore umano di cui sentivo il bisogno. In una città bigotta e bacchettona come Trento la nostra relazione aveva fatto chiacchierare tanta gente degenerando in uno scandalo quando decidemmo di partire per Canazei dove avremmo messo su famiglia. Partimmo di nascosto il 16 dicembre. Caricai sul mio Alfone le nostre poche cose e senza rimpianti lasciammo Trento. Per la strada ci fermammo a comperare uno zelten (Lo zelten è un dolce a base di frutta secca e canditi tipico della regione Trentino-Alto Adige, NdR) e riprendemmo la nostra fuga. In macchina avevo tutto quello che possedevo: 50.000 mila lire, uno zelten, la mia donna e nostro figlio Gian.
Avevo scelto Canazei perché era abbastanza distante da Trento, vicino alle Dolomiti e forse perché era l’ultimo posto dove avevo visto Giulio. Prendemmo in affitto una casa. Villa Margherita era grande, gelida e disadorna. Ci demmo da fare per renderla abitabile e incominciammo a vivere la nostra stupenda avventura. I soldi non durarono molto, così accettai una serie di conferenze nelle quali raccontavo le mie esperienze alpinistiche e l’odissea del Torre. Vendevo il mio dolore per far fronte agli obblighi che mi ero assunto. Bisognava mangiare, vestirsi, comperare il carbone per riscaldare la casa, pagare la luce e pensare al futuro di nostro figlio. Cercavo di combinare quattro o cinque conferenze in città non troppo distanti fra loro. Facevo il pieno di benzina e con in tasca cinquemila lire per gli imprevisti, partivo per i miei debutti. La ruota della vita mi aveva portato a ripercorrere la strada dei miei genitori, di mio fratello e di mia sorella. Raccontavo a un pubblico attento una tragedia e per questo venivo applaudito e pagato. Ricevuto il gettone di presenza, la mattina dopo spedivo a Fernanda un vaglia telegrafico e partivo alla volta della città seguente. La nostra fuga aveva fatto notizia schierando Trento su due posizioni diverse. Una piccola parte ci dava ragione ma la maggioranza biasimava e asseriva che non poteva durare. Passò l’inverno e il nostro trio diventava sempre di più una famiglia. Mio padre con mia sorella e mio fratello rimasero sbalorditi dalla mia decisione, non perché mi ero messo insieme a una donna separata ma perché era l’ultima cosa che si sarebbero aspettati da uno come me. Giancarlo ci aveva fatto gli auguri e Anna passò una decina di giorni con noi, e la sola cosa che la sbalordì non fu vedermi marito e padre felice, ma il freddo che faceva dentro Villa Margherita dove, durante la notte, quando la stufa a legna era spenta, l’acqua del bicchiere che mia sorella teneva sul comodino si gelava insieme all’acqua della vaschetta del gabinetto.
Il primo amico che rompendo la quarantena venne a farci visita fu Franco Giovannini, poi vennero Giulio Giovannini, Rolly Marchi, Claudio Baldessari e via via tutti i miei amici alpinisti si fecero vivi piano piano rendendosi conto che Fernanda non mi aveva stregato ma anzi mi accudiva e mi coccolava facendomi mettere la testa a partito. Quanto ci siamo amati in quella casa. Freddo o caldo, giorno o notte ce perdevamo l’uno nell’altra e non pensavamo alla fatica di vivere, alla mia vita pericolosa, ai soldi che non erano mai abbastanza e alla vita che conducevamo in un paese chiuso in piccoli e impenetrabili clan.
[…]Ritorna l’incubo del Torre
“Scusi Maestri, sul Torre c’è arrivato davvero?” Era la primavera del 1970 quando un giornalista di un popolarissimo settimanale illustrato, con quel suo articolo dal titolo provocatorio fece rifranare nella mia vita l’incubo del Cerro Torre. Per la verità era già qualche mese che un paio di alpinisti italiani non perdevano l’occasione per parlare del Cerro Torre come di una montagna impossibile la cui inviolata vetta sferzata dal vento un giorno o l’altro sarebbe stata calpestata. A un lettore frettoloso quegli aggettivi potevano passare come strafalcioni o refusi, ma a me suonavano come un gravissimo oltraggio che feriva la mia dignità e il mio onore.
Cercai di capire chi manovrava quell’attacco e il perché di tanta acrimonia, ma mi scontravo con un anonimato sorridente e vigliacco che non aveva il coraggio di assumersi la diretta responsabilità di accusarmi esplicitamente di non aver raggiunto la vetta del Torre. In quel meschino modo mi ripiombò addosso con la violenza di mille valanghe quella montagna che mi aveva ucciso il compagno e sconvolto la vita.
Cesarino Fava, profondo conoscitore di tutto quello che accadeva in Patagonia, mi documentò sugli ultimi tentativi di ripetere il Torre dopo che nel gennaio del 1959 Egger e io raggiungemmo la vetta salendo la parte bassa della difficilissima parete est e la parte alta della parete nord, più facile ma estremamente pericolosa. Quel nostro itinerario fu dimenticato. Nessuno lo voleva attaccare, forse a causa della disgrazia che aveva funestato la prima salita, oppure perché continuava esposto al crollo del fungo, l’enorme strapiombo di ghiaccio che incombeva pericolosamente su entrambe le pareti. Sta di fatto, per anni, tutti gli aspiranti ripetitori del Torre concentrarono i loro sforzi nei tentativi di vincere la cresta sud-est, diametralmente opposta alla nostra via del 1959 dove scendendo trovò la morte il mio compagno.
Per anni giapponesi, argentini, spagnoli e inglesi si ostinarono su quella cresta inaccessa ma, superati i primi 600 metri, venivano tutti inesorabilmente respinti da difficoltà insormontabili. Sul versante sud-ovest invece i sogni di Bonatti e Mauri si erano frantumati poco sopra un colle facilmente raggiungibile dallo Hielo Continental. Insuccessi dopo insuccessi, questi alpinisti, che si consideravano i più forti al mondo, arrivarono alla conclusione che se loro non erano stati capaci di vincere il Torre per altri versanti, voleva dire che nemmeno Maestri poteva aver vinto la parete nord.
Quelli che i miei detrattori chiamarono eufemisticamente l’enigma al Torre divenne con il passare degli anni il mio enigma. Mi sono sempre chiesto cosa sarebbe successo se io fossi morto e Toni Egger fosse sopravvissuto. Gli avrebbero creduto? Forse perché lui era austriaco e io italiano?
Ma un altro dubbio mi assilla da sempre.
Sapevano i miei detrattori che in quegli anni ero sicuramente il più forte alpinista solitario e che ero stato il primo alpinista al mondo a portare a termine in arrampicata libera le più difficili pareti delle Dolomiti allora riservate a pochissime e preparatissime cordate?
Sapevano i miei detrattori che ero stato il primo e per tantissimi anni l’unico alpinista al mondo capace di scendere, in libera senza corde, tutte le vie di sesto grado che loro facevano in salita?
E ancora, sapevano i miei detrattori che ho sempre considerato la parete nord del Torre una trappola mortale sulla quale ci eravamo cacciati per sfruttare una eccezionale e forse irripetibile condizione ambientale, ma nello stesso tempo una delle salite meno impegnative della mia carriera di alpinista?
Una salita che qualsiasi normale arrampicatore che se ne fregasse della sua vita avrebbe potuto portare a termine.
Capivo che avrei dovuto fregarmene di quelle idiote conclusioni esternate per camuffare le loro sconfitte, ma proprio non ci riuscivo. E il Torre ritornò a sconvolgere la mia vita con una furia mista di acrimonia e prosopopea. Mi restava una sola cosa da fare. Ritornare al Torre.
Avrei attaccato e vinto proprio quella cresta sud-est che li aveva umiliati e, per rendere più cocenti le loro sconfitte, l’avrei attaccata in pieno inverno patagonico per dimostrare che non esistono montagne impossibili ma solo uomini che non sono capaci di salirle.
Aver preso la decisione di ritornare al Torre leniva la mia rabbia, ma rimanevano due grandi scogli da superare: trovare il denaro per sovvenzionare la spedizione e dirlo a Fernanda alla quale avevo promesso che non avrei mai più fatto spedizioni. Fernanda aveva assistito alle mie crisi depressive, agli incubi notturni, aveva visto i miei sguardi persi nel vuoto e aveva vissuto in prima persona il peso della tragedia che non riuscivo a dimenticare. No. Non mi avrebbe mai lasciato partire.
Trovai invece il denaro e Fernanda, in preda all’angoscia, mi lasciò partire. Mi sentivo un essere spregevole. Anteponevo i doveri verso mia moglie e mio figlio per dimostrare a me stesso e a una decina di coglioni il mio valore. Non riuscivo a comprendere se ero un lurido egoista che per il proprio orgoglio calpestava e ignorava gli obblighi assunti, oppure un eroe che metteva a repentagli la propria vita per difendere l’onore dei suoi familiari. Ancora una volta c’erano in me due verità che si fondevano in una sola. Ero un lurido egoista che metteva a repentaglio la vita per amore verso le due persone che mi erano più care.
Il mio amico Giuliano Salvadori del Prato, in qualità di presidente di quattro quotidiani, sovvenzionò la spedizione riservandosi l’esclusiva di ogni reportage e, per rendere meno straziante la mia partenza, diede l’incarico a Fernanda di improvvisarsi cronista della spedizione. Si sarebbe stabilita a Buenos Aires con nostro figlio. Via radio l’avremmo tenuta al corrente del nostro proseguire e lei avrebbe mantenuto i contatti telefonici giornalieri con un giornalista italiano che avrebbe diramato il progredire della nostra impresa.
L’idea di essermi d’aiuto e di seguirmi in Argentina calmò in apparenza Fernanda ma in realtà dentro di sé covava il terrore di non vedermi mai più. Mia moglie fingeva entusiasmo per non crearmi ulteriori problemi. Io fingevo di non accorgermi di quella sua eroica finzione altrimenti sarebbe stato mio dovere mandare tutti a cagare e badare alla mia famiglia. Non ebbi quel coraggio e vigliaccamente scelsi la parte che più mi si confaceva: quella dell’eroe.
Così, chiudendo gli occhi per non vedere quanto dolore procuravo ai miei, scelsi i miei compagni di spedizione. Li volevo amici fidati, che avessero una cieca fiducia in me, che possedessero un profondo spirito di abnegazione e una provata resistenza al sacrificio. La scelta non fu difficile. Proposi l’idea ai miei compagni di cordata che ritenevo essere i migliori, e loro accettarono con entusiasmo. La spedizione era fatta. Con loro la mia spedizione sarebbe stata un esempio di volontà, di cooperazione, di bravura e di coraggio.
Carlo Claus accademico del CAI, 45 anni. Cesarino Fava andinista di provata capacità, 50 anni. Pietro Vidi guida alpina, 34 anni. Ezio Alimonta guida alpina, 24 anni. Renato Valentini guida alpina, 25 anni. Due vecchi, anzi tre con me che compivo i 40 anni. Mancava Claudio Baldessari, il fidato compagno della Roda di Vael, della ripetizione invernale alle Lavaredo e di tante altre imprese, il quale, ancora una volta, aveva dovuto rinunciare al Torre.
Per quanto mi sforzassi non riuscivo però a capire perché tutte le spedizioni si fossero fermate allo stesso punto, dopo aver fatto solo poche centinaia di metri, quando rimanevano da vincere più di 1500 metri di cresta. Tenendo per buono che gli sconfitti fossero realmente i più forti alpinisti del momento, rimaneva una sola spiegazione. Da quel punto in avanti la parete doveva presentarsi liscia come il vetro. Non riuscivo proprio a trovare altre spiegazioni. Perciò decisi che, qualora non avessi trovato più una fessura, io avrei usato i chiodi a pressione e sarei arrivato in vetta. Bisognava però fare i conti con la realtà. Piantare un chiodo a pressione nel granito richiedeva circa 20 minuti e la distanza media tra chiodo e chiodo era di circa un metro. Dal punto dove si arrestavano tutti i tentativi rimanevano ancora circa 1500 metri di parete da chiodare. Perciò, avanzando alla media di tre chiodi all’ora, per arrivare in vetta avremmo impiegato alcuni mesi. A quel punto decisi di cercare un marchingegno che mi permettesse di forare la roccia con rapidità. E lo trovai. L’Atlas Copco mise a mia disposizione un aiuto economico e un compressore con motore a scoppio che avrebbe azionato un trapano con il quale avrei forato la roccia là dove fosse risultato impossibile piantare chiodi normali. Pur sapendo che mi sarei tirato addosso le ire degli alpinisti classici, decisi che avrei sperimentato quel mastodontico attrezzo del peso di oltre un quintale, che avremmo dovuto issare a forza di braccia ogni 40 metri. Mi ero prefisso che la nostra spedizione avrebbe dovuto essere un prototipo di modernità. Avremmo sperimentato materiali, equipaggiamento e soluzioni tecniche di estrema avanguardia: indumenti termici ricavati dalle esperienze spaziali, scarponi di plastica con l’interno di pelliccia e avremmo usufruito di una baracca di legno illuminata con corrente elettrica ricavata da un gruppo elettrogeno; avremmo installato un ponte-radio con il quale dare giornalmente a mia moglie nostre notizie, e avremmo mantenuto i collegamenti tra noi e il campo base mediante piccole radio ricetrasmittenti. Il 18 aprile Fernanda, Gian, Ezio Alimonta e io partimmo alla volta di Buenos Aires. Gian era al suo primo viaggio importante. Avrebbe perso dei giorni di scuola ma avrebbe vissuto un’esperienza irripetibile, visitando un mondo nuovo e fatto compagnia a sua madre.
All’arrivo ci stavano aspettando tutti i vecchi amici. Ci portarono al Circolo Trentino dove, in quegli ultimi dieci anni, nulla era cambiato. Come in una vecchia fotografia ingiallita dal tempo sembrava che anche i soci fossero rimasti immobili ai loro posti, chi giocando alle bocce, chi mescolando un mazzo di carte, chi bevendo il suo mezzo litro. Per un attimo ripiombai nell’incubo di rivedere lo strazio degli addii quando ero ripartito da solo verso l’Italia. Poi il calore con il quale venimmo accolti e la presenza di Fernanda e Gian dissiparono quegli attimi di turbamento e il tempo riprese a scorrere dopo essersi bloccato su quelle immagini come se il proiettore della mia vita si fosse improvvisamente guastato.
In attesa che i compagni ci raggiungessero, Fernanda, Gian, Ezio e Cesarino passavano i loro giorni al Circolo Trentino lavorando dalla mattina a notte inoltrata per imballare 3000 chili fra viveri e materiale. Io giravo per ministeri nel tentativo di affittare un elicottero, un aereo o qualsiasi cosa che avesse delle ali e un motore purché in grado di portare la spedizione e il carico ai piedi del Torre.
Fra ritardi, impasse e mille promesse non mantenute riuscimmo a lasciare Buenos Aires solo il 17 maggio grazie a un elicottero della compagnia Agip Petroliera, di stanza a Comodoro Rivadavia. La mattina dopo stavamo finalmente volando verso la nostra montagna la quale, per non smentire la sua pessima fama, ci accolse con una bufera di vento che mise in grave pericolo l’aeromobile e a dura prova l’abilità del pilota il quale, dopo aver rischiato di schiantarsi al suolo, ci depose, con tutte le nostre casse, nel mezzo del ghiacciaio disteso fra il Torre e il Fitz Roy.
L’elicottero, volando a bassa quota, ci lasciò dileguandosi all’orizzonte fino a diventare un punto nero che si confuse con gli uccelli. E quando anche il rombo del suo motore smise di rimbalzare da una montagna all’altra dissolvendosi nel silenzio, l’euforia di quel primo passo avanti scemò e solo allora realizzammo che la nostra sfida al Torre era iniziata. Eravamo soli, ma proprio soli. In quel momento scese in me una grande calma. Per l’ultima volta guardai l’orologio. Era mezzogiorno del 18 maggio del 1970. In mezzo a una tormenta di neve che flagellava la valle del Torre incominciammo a trasportare tutto l’occorrente ai piedi della nostra montagna. La mia sfida era iniziata. Da quel momento il tempo per me avrebbe perso il suo consueto significato. Avrei sostituito le ore con i metri conquistati, i giorni del calendario con i bivacchi passati in parete, la mia famiglia con i miei compagni e sarei diventato un robot senza sentimenti programmato solo per vincere e vendicarsi.
Già in Italia i miei compagni all’unanimità mi avevano riconosciuto il privilegio di guidare la cordata d’assalto e Carlo Claus sarebbe stato il mio secondo. Vidi, Alimonta e Valentini avrebbero formato la cordata di appoggio mentre Cesarino Fava si sarebbe accollato le responsabilità dei collegamenti radio, di tutti i problemi logistici e della cucina.
Il 23 maggio il campo base era sistemato. Con Claus ci avviammo verso la base della parete sotto una forte nevicata. Passammo poche centinaia di metri dal punto dove nel 1959 era scomparso Egger. L’idea che forse gli stavamo camminando sopra mi opprimeva. Dolore e tristezza mi pesavano addosso più del sacco sotto il quale arrancavo affondando in un metro di neve fresca. Verso mezzogiorno eravamo all’attacco della cresta sud-est. Dopo aver calzato i ramponi ed esserci legati, superammo la crepaccia terminale e attaccammo la ripida parete iniziale. Con rabbia piantai la piccozza dentro la neve immaginando di ficcarla nel cuore di chi mi aveva obbligato a tornare al Torre. Ma con quel gesto liberatorio non riuscii né a dissipare il disprezzo e l’odio che sentivo per loro, né tanto meno a lenire il senso di colpa che provavo per le sofferenze che stavo dando a mia moglie e a mio figlio che forse non avrei mai più rivisti.
Qualche giorno dopo arrivammo sulla sommità di El Mocho, il contrafforte dal quale parte la cresta vera e propria. Più in alto si erano fermati tutti i tentativi fatti dai nostri predecessori. Entrammo in un ampio crepaccio e, scavando come i soldati dell’Adamello nella guerra ’15-’18, ricavammo un ricovero dove approntammo un bivacco che chiamammo el Bus. Da quel momento Carlo e io ci installammo in quel frigorifero per poter cominciare ad arrampicare prima dell’alba. Il giorno dopo arrivammo agli ultimi chiodi piantati durante i precedenti tentativi. Poi più nulla. Da quel momento in avanti avremmo affrontato quelle difficoltà che avevano respinto i più forti alpinisti del mondo. A ogni filata di corda che riuscivamo a superare in arrampicata tradizionale ci chiedevamo come mai gli alpinisti che ci avevano preceduto fossero stati costretti a ritirarsi. Non riuscivamo a renderci conto come mai loro fossero stati inesorabilmente respinti in piena estate dalle stesse difficoltà che noi superavamo con relativa facilità nonostante fossimo ostacolati dal cattivo tempo, dalla parete ricoperta di ghiaccio e appesantiti dall’inutile compressore. Con molto ottimismo, avevamo calcolato di rimanere in parete 25 giorni. Avevamo perciò portato con noi viveri e gas per un mese circa. Le difficoltà alpinistiche, il cattivo tempo, l’immane fatica di recuperare ogni 40 metri il compressore e le ridotte ore di luce avevano rallentato moltissimo il ritmo di salita. In poco meno di un mese, arrampicando con qualsiasi condizione meteorologica, eravamo arrivati poco oltre la metà a circa 800 metri dalla vetta.
I viveri incominciarono a scarseggiare e fummo costretti a mangiare una sola volta al giorno e qualche volta digiunavamo per due giorni di seguito.
Ogni mattina uscendo dal bivacco sognavo le Dolomiti. Desideravo ardentemente di arrampicarmi sulla calda, verticale roccia del Brenta, con sotto i piedi i ghiaioni e più sotto ancora il verde dei boschi e dei pascoli pieni di fiori. In equilibrio sulle punte dei ramponi infissi dentro una sottile crosta di ghiaccio sognavo di arrampicare su uno spigolo affilato immerso nel sole e nel vuoto. Incastrato in una fessura scivolosa per la presenza di ghiaccio avrei dato tutto quello che avevo per trovarmi su una delle mie pareti leggermente strapiombante e ricca di appigli. Invece ero lì. Su una montagna che odiavo, che maledicevo mille volte al giorno, come maledicevo il giorno che l’avevo vista per la prima volta e tutti quelli che mi avevano spinto a ritornarci.
Più o meno in quei giorni Carlo e io iniziammo a bivaccare in parete dentro le amache che durante la notte venivano sommerse da metri di neve. I ragazzi intanto svolgevano con entusiasmo il necessario ma ingrato compito riservato alla «cordata di appoggio». Dovevano approvvigionarci ogni giorno di viveri e del materiale di cui avevamo bisogno e in più piantare nuovi chiodi in modo da rendere più sicure le «corde fisse» che la nostra cordata aveva sistemato in modo precario. Giorno dopo giorno quel lungo filo d’Arianna, che ci permetteva di salire e scendere in completa sicurezza, si allungava verso l’alto come un grafico di una industria in pieno boom. Un lungo cordone ombelicale che dava a me e a Carlo la possibilità di sopravvivere in parete. Il compressore ci serviva solo per attrezzare i posti di bivacco. Scoprimmo che mettendolo in moto potevamo sciogliere la neve mettendola dentro un recipiente che appoggiavamo al tubo di scarico ricavandone qualche litro di acqua tiepida e puzzolente che sapeva di benzina e di olio, nella quale versavamo zucchero e del caffè solubile per calmare la sete che ci torturava. Quel maledetto compressore che ci faceva perdere quasi due ore ogni volta che lo dovevamo issare, che non partiva mai perché la carburazione era sbagliata, che durante la notte diventava un blocco di ghiaccio e soprattutto che fin lì non si era presentata l’occasione di usare per piantare chiodi di arrampicata. Ma che cazzo di alpinisti erano quelli che avevano mollato le braghe di fronte a difficoltà sicuramente forti ma non tanto da far desistere gente preparata e decisa? A ogni filata di corda superata si consolidava in noi la certezza che i nostri predecessori si erano cagati sotto. Come potevamo altrimenti spiegarci il perché noi passavamo là dove loro, arrampicando in piena estate, erano stati costretti a ritirarsi? Eppure noi salivamo in pieno inverno, con la parete incrostata da metri di neve, violentati dal più spaventoso inverno che la Patagonia ricordasse, tirandoci dietro inutilmente 180 chili di compressore. Non c’era rapporto fra i loro tentativi e la nostra salita. Noi dovevamo bivaccare sotto metri di neve e per mangiare qualcosa che non fosse diventato un blocco di ghiaccio ci ficcavamo una scatola di carne in mezzo alle gambe, e quando il calore del nostro corpo l’aveva scongelata solo allora la trangugiavamo con ingordigia. Quello era eroismo e volontà di vittoria. Non certo le passeggiatine fatte in piena estate quando il sole scalda le rocce e si hanno a disposizione 18 ore di luce come era successo agli «eroi» che ci avevano preceduto nei loro vani tentativi e sputtanato.
Il 17 giugno il tempo era brutto ma con tendenza al miglioramento. Tutta la spedizione era impegnata in parete, improvvisamente in mezzo al rumore del vento sentimmo il rombo del motore di un aereo che forzava al massimo. Girava, girava, girava ma non riusciva ad avvicinarsi al Torre. In quel preciso momento ebbi la sensazione che su quell’aereo ci fossero Fernanda e Gian. Era come se la loro presenza fuoriuscisse dai finestrini come acqua che straripa da una falla. Pur sapendo che era ridicolo, cercai di mettermi telepaticamente in contatto con loro. Ero certo che in quell’apparecchio che sfidava il Torre con tanta insistenza c’erano le cose più care che avevo al mondo. Mia moglie e mio figlio.
Più tardi avrei saputo che Fernanda, preoccupata per la mancanza di notizie, si era spostata insieme a Gian a Rio Gallegos e che già il giorno prima avevano cercato di avvicinarsi al Torre senza successo.
Il 18 giugno il Torre ci regalò la terza giornata di bel tempo. Ero certo che l’aereo sarebbe tornato. Infatti verso mezzogiorno, mentre Carlo e Cesarino mi assicuravano su un difficile tratto, intercettammo il rumore di un aereo in avvicinamento. Volava molto alto, girando attorno alla vetta del Torre. Certamente Fernanda, conoscendo la mia velocità di arrampicata presumeva che fossimo già in prossimità della cima. Quel piccolo aeroplanino che sembrava fatto di carta incominciò ad abbassarsi a spirale. Noi ci sbracciavamo come forsennati e urlavamo anche se sapevamo che non avrebbero potuto sentirci. Per farmi vedere mi tolsi il rosso piumone e incominciai a sventolarlo. Eravamo a circa 800 metri dalla vetta, La nostra cordata era stesa lungo una cresta di neve affilata come la lama di un coltello. Era impossibile non vederci. E loro ci videro. L’aereo puntò deciso verso di noi. Si avvicinò moltissimo al Torre facendo ondeggiare le ali e accendendo le luci a intermittenza. Il mio cuore impazziva dalla paura che provavo per loro. Non c’erano più dubbi: Fernanda e Gian erano a bordo e sfidavano il Torre per rendersi conto se eravamo ancora vivi. Volarono attorno a noi per più di un’ora, scivolando d’ala e ondeggiando su e giù come un delfino attorno a una barca. Quando l’aereo ci lasciò ci prese una tristezza improvvisa come se la moglie e il figlio di tutti ci avessero abbandonati. A quel punto le mie preoccupazioni si moltiplicarono. Fernanda aveva visto che mostro era il Torre e in più, conoscendo la sua caparbietà, ero certo che sarebbe tornata volando su quel fragile giocattolo.
L’arrivo dell’aereo spinse Cesarino a prendere la sofferta decisione di lasciarci e scendere alla prima estancia dove avrebbe potuto esserci più utile. Ci lasciò il 21 giugno. Partì con addosso la sensazione di rivivere una tragedia già vista. Mise nello zaino le sue poche cose e senza portare via una sola zolletta di zucchero si incamminò lungo il ghiacciaio con la morte nel cuore. Dall’alto seguimmo la sua discesa. Quel puntino nero perso in mezzo al ghiacciaio portava con sé tutta la tristezza del mondo, ma anche tutta la generosità di quel gesto che rendeva sublime la sua rinuncia. Partendo mi abbracciò sussurrandomi: “Vai in cima Cesare ti prego. Vai in cima”.
Arrivato all’estancia avrebbe contattato Fernanda, l’avrebbe rassicurata e le avrebbe dato le lettere che ognuno di noi aveva scritto alla persona amata. Il 23 giugno la Patagonia ci regalò la quarta bella giornata che ci permise di superare circa 80 metri. La pagammo molto cara. Durante la notte il tempo precipitò e le nostre tendine da bivacco furono sommerse da alcuni metri di neve la mattina dopo. In mezzo a quel finimondo provai a salire una filata di corda ma continuare sarebbe stato pazzesco. Scendemmo al Bus dove trovammo Pietro ed Ezio. Sentendoci arrivare avevano preparato un pentolone di tè e una pastasciutta. Erano 8 giorni che non mangiavamo qualcosa di caldo. Il giorno dopo il tempo sembrava buono, con noi c’erano anche Alimenta e Vidi per aiutarci a far salire il compressore che continuava a non servirci. Verso mezzogiorno si alzò un forte vento che trasportava neve e ghiaccio a velocità pazzesca. Carlo accusava un gonfiore alle mani che erano bluastre, ma non aveva nessuna intenzione di mollare. Con monotonia continuava a ripetere: «Con le mani o senza voglio arrivare in cima».
Verso la fine di giugno avevamo salito circa 1200 metri di parete attrezzandola completamente, ma le provviste cominciavano a scarseggiare. L’unica soluzione sarebbe stata quella di tentare un lancio di viveri con il «Piper» usato da Fernanda e Gian. Ezio e Renato decisero che sarebbero scesi all’estancia per organizzare il lancio.
I ragazzi mantennero la promessa. La mattina del 28 tentarono di lanciare un sacco contenente circa 60 chili di viveri. Il cattivo tempo e il vento troppo forte fecero fallire anche quel tentativo e l’aereo sparì alla volta di Rio Gallegos. I primi di luglio Carlo, Pietro e io rimanemmo quattro giorni in parete senza mangiare. Conquistammo qualche centinaio di metri, sballottati da un vento che soffiava a oltre 150 chilometri all’ora, bivaccando per tre notti in mezzo al finimondo. Al limite della resistenza decidemmo di scendere alla «Casota». La trovammo sepolta da 20 metri di neve. Se non lo avessimo visto con i nostri occhi sarebbe stato incredibile. Trovammo Ezio e Renato sfiniti per la marcia forzata. Prudentemente avevano portato con loro una ventina di chili fra formaggio e prosciutto, ma erano proprio sfiniti. Avevano incontrato Fernanda, Gian e Cesarino i quali volevano sapere ogni cosa e loro pazientemente ripeterono lo stesso racconto centinaia di volte. Mia moglie e mio figlio diedero a Ezio una lettera per me che lessi centinaia di volte raggomitolato nel mio sacco-piuma, e ogni volta la commozione mi riempiva gli occhi di lacrime che scivolando lungo le guance portavano via dal mio cervello la volontà che mi era rimasta. In quella lettera mio figlio mi raccontava la paura che provava volando sul Torre, dei continui vuoti d’aria che sembrava volessero inghiottire l’aereo, della emozione che gli faceva tremare la cinepresa e lo faceva sudare così copiosamente da appannare i finestrini così tanto che si scusava con me se le riprese non sarebbero state così nitide come avrebbe voluto. Fernanda invece, impazzita dal terrore per avere visto il Torre da vicino, mi scongiurava di tornare vivo perché ero tutta la sua vita. I primi giorni di luglio il tempo era stato talmente brutto che non potevamo nemmeno pensare di muoverci. Avevamo provato a fare qualche metro oltre la «Casota» ma affondavamo in un mare di neve fresca. La notte fra il 3 e il 4 luglio verso mezzanotte fummo svegliati da un boato che fece tremare il ghiacciaio. Il «fungo» che formava la sommità del Torre era precipitato, proprio come nel ’59 quando travolse e uccise Egger. Per nostra fortuna la casetta di legno era stata sepolta dalle nevicate altrimenti sarebbe stata spazzata via da quella furia devastatrice che era piombata su di noi dopo un volo di quasi 2000 metri. Il crollo della sommità del Torre occluse completamente la via di uscita intrappolandoci dentro la «Casota». A turno ci infilammo nel tunnel scavando come talpe la neve pressata che ammucchiavamo dentro la casetta. Dopo sette ore di lavoro sbucammo all’esterno. Eravamo vivi ma la nostra fatica non era ancora finita. Dovemmo trascinare su per il tunnel un centinaio di sacchi di neve per sgomberare l’interno della «Casota». Verso mezzogiorno eravamo sfiniti. Non ci era solo crollato addosso il «fungo» ma anche la realtà della situazione.
Eravamo alla fine. Carlo aveva le mani semicongelate. C’erano rimasti viveri per una decina di giorni, la radio non funzionava, il morale era a terra, mancavano ancora 700 metri alla vetta e il tempo era schifoso. Ci rimanevano poche scelte: piantare tutto e tornare a casa, scendere tutti all’estancia, rifornirci di viveri e risalire al campo base, oppure rimanere in valle il tempo di riposare qualche giorno per poi riprendere l’arrampicata. Ezio e Renato con la razionalità dei giovani proposero una soluzione radicale. Ci avrebbero lasciato i loro viveri e sarebbero scesi all’estancia. Con un po’ di fortuna Carlo, Pietro e io avremmo potuto raggiungere la cima. Quella proposta pur rattristandomi risultava la più realistica. Guardai i miei compagni e dissi loro: «Bene. Domani chi vuole parta. Io rimango qui fino alla fine».
Il 5 luglio i ragazzi partirono. Sparirono in mezzo alla tormenta con i sacchi vuoti. Avevano rinunciato a realizzare il loro sogno facendoci dono di qualche chilo di formaggio, del loro dolore e dei loro sacrifici. Il tempo come sempre era brutto. Decidemmo che Carlo sarebbe rimasto alla «Casota» per qualche giorno in attesa che le sue mani migliorassero. Lo lasciai con tristezza e con Pietro mi avviai verso la nostra cresta. In 4 giorni riuscimmo ad avanzare altri 150 metri. Arrampicammo in mezzo a una continua tormenta di neve, passando notti tragiche, senza bere qualcosa di caldo e mangiando pezzi di formaggio congelato. La mattina dell’8 luglio Pietro, che dormiva nell’amaca sotto la mia, lamentò forti dolori ai piedi. Mi avvicinai a lui. Non riusciva più a entrare negli scarponi. I piedi si erano gonfiati e un brutto color rosso-viola confermava una diagnosi fin troppo facile. Gli sferzai i piedi per riattivare la circolazione, tagliai le tomaie per fargli calzare gli scarponi e incominciammo a scendere. Dal «Bus» in avanti la discesa non presentava più grosse difficoltà, accompagnai ancora per un po’ il mio compagno e quando fui certo che stava avviandosi verso la «Casota» ritornai sui miei passi, entrai nel crepaccio e mi infilai nel sacco-piuma crollando in un sonno profondo.
Il 9 luglio attaccai la salita in piena notte. Nevicava dolcemente. Il fascio di luce che scaturiva dalla mia lampada frontale illuminava la roccia rendendo tutti i passaggi quasi irreali. Mi sentivo fortissimo. Il mio corpo vibrava come nei giorni delle mie imprese solitarie come quando, con disprezzo, gettai nel vuoto la corda prima di scendere in «libera» per la via delle Guide al Crozzon di Brenta. C’era in me una forza sovrumana che mi dava una grande carica ma che mi rendeva cinicamente insensibile al rischio che stavo facendo correre ai miei compagni, e al dolore che stavo procurando a mia moglie e a mio figlio.
Con il sorgere del sole il vento incominciò a investire la parete e questa nuova difficoltà invece di stroncarmi eccitò il mio orgoglio e la mia forza. Mi trovai a imprecare contro il vento, contro il ghiaccio, la neve, gli strapiombi, contro chi mi aveva spinto in mezzo a quel casino. Forse stavo impazzendo. Arrivato al punto massimo raggiunto con Pietro riuscii ad avanzare ancora una quarantina di metri. All’ora del collegamento con la «Casota» Carlo e Pietro con la voce rotta dall’emozione mi comunicarono che il gas della cucina era terminato. Non avrebbero più potuto procurarsi nemmeno un po’ d’acqua di fusione.
Quello significava la fine di tutto.
Pieno di rabbia e di odio raggruppai tutto il materiale sparso qua e là. Lo depositai negli appositi sacchi. Coprii il compressore. Avvolsi nelle amache le tendine da bivacco. Districai con attenzione le corde ingarbugliate. Con la stessa cura di sempre rifeci tutte quelle operazioni che facevamo ogni sera e, senza alzare la testa, incominciai a scendere verso i miei compagni, verso Fernanda e Gian. Verso la vita. Ma scendeva solo il mio involucro. Tutto il resto di me lo avevo lasciato 600 metri sotto la vetta del Torre con la promessa che sarei ritornato a riprenderlo appena i miei compagni fossero stati nuovamente in grado di arrampicare.
Durante la mia permanenza al Torre avevo tenuto un diario. L’ultimo giorno scrissi: «Dopo 54 giorni di permanenza in parete dobbiamo desistere a meno di 600 metri dalla vetta. Carlo e Pietro accusano congelamenti alle mani e ai piedi, ma non ci sentiamo sconfitti. I viveri e il gas sono terminati. Abbiamo trascorso 12 notti alla “Casota”, 16 notti al “Bus” e abbiamo bivaccato in parete per 26 notti in condizioni ambientali e climatiche al limite della sopravvivenza. In questi 54 giorni abbiamo usufruito di 5 giornate di sole, 5 mediocri e 44 orrende. Ci siamo concessi solo 4 giorni di riposo. Il tempo meteorologico ci è stato nemico. Sono caduti 18 metri di neve, il termometro ha registrato temperature medie di 20 gradi sotto lo zero, l’umidità relativa fra l’80-90 per cento e la velocità del vento ha oscillato fra gli 80 e i 150 chilometri orari. Per oltre un mese abbiamo mangiato una volta al giorno e molte volte abbiamo digiunato. Arrampicando da notte a notte ci siamo trascinati dietro il peso dell’inutile compressore superando 40 filate di corda che abbiamo attrezzato con più di un chilometro di “corde fisse”. I nostri sacrifici non sono stati premiati. Sarebbe bastato un pugno di viveri in più, qualche settimana di bel tempo e che il congelamento non avesse colpito i miei compagni e saremmo arrivati in vetta al Torre. Mi rimane l’orgoglio di essere stato il capocordata di uomini tanto coraggiosi e generosi che su questa montagna hanno scritto la più epica storia dell’alpinismo».
Anche Fernanda aveva tenuto uno struggente diario nel quale sfogò con agghiacciante sincerità l’ossessionante cronaca di quei due mesi di tortura. Me lo porse come un atto d’amore e forse con la segreta speranza che dopo averlo letto non avrei avuto più il coraggio di lasciarla. Lo lessi con profondo senso di colpa. Da quelle pagine, scritte con una calligrafia sempre meno sicura, scaturivano tutta la solitudine e tutte le sofferenze che l’avevano angosciata. Implicitamente quel diario, straripante di ansia e amore per me, diventava la testimonianza di quanto l’avessi torturata e fatta soffrire. Lo lessi più volte e convenni che ero uno sporco egoista. Ma sarei ritornato ugualmente al Torre.
Dopo quella mia decisione Fernanda era diventata un automa. Mi aiutava facendosi in quattro ma lo faceva con un grande distacco e soprattutto come se stesse preparando l’ultima cena a un condannato a morte. Lei sarebbe rimasta in Italia. Gian doveva andare a scuola e con Sant’Ambrogio il negozio avrebbe dovuto riaprire, ma soprattutto non voleva ripetere l’esperienza passata in Argentina che l’aveva segnata profondamente.
Ripartimmo dall’Italia l’11 novembre. Con me c’erano Carlo Claus con le mani rimesse a nuovo, Ezio Alimenta sempre carico di entusiasmo, il mio vecchio compagno di cordata Claudio Baldessari che finalmente aveva trovato il modo di venire al Torre e il giovane alpinista di Campiglio Daniele Angeli che si sarebbe interessato dei motori e delle radio. Purtroppo dovettero rinunciare a unirsi a noi Pietro Vidi, ancora afflitto dai postumi del congelamento ai piedi, Renato Valentini, costretto in Italia da impegni militari, e Cesarino Fava, colpito da un lutto familiare.
L’11 novembre del 1970 Fernanda mi accompagnò alla Malpensa dove partimmo alla volta di Buenos Aires. Non sapevo se soffrivo di più nel lasciarla o nell’essere io la causa di tutte le sue sofferenze. Ci separammo con nel cuore tutta la tristezza del mondo. Nel suo sguardo c’era il terrore di sapermi ancora una volta impegnato su quella montagna e nello stesso tempo la certezza che non mi avrebbe mai più rivisto vivo. Cercai di rassicurarla giurandole che sarei ritornato, e lei, guardandomi con lo sguardo spento e gli occhi pieni di lacrime, fingeva di credermi. Quando chiamarono l’imbarco passai il controllo senza voltarmi. Non volevo vedere la mia donna straziata per colpa mia. E salendo la scaletta dell’aereo giurai a me stesso che sarei ritornato perché l’amore che portavo a mio figlio e a mia moglie era così immenso che nemmeno una montagna come il Torre avrebbe potuto stroncarlo.
Arrivammo ai piedi delle montagne a primavera inoltrata. La Patagonia era rigogliosa. Verde, fiorita, profumata. Ma dolce e triste come il tango argentino. I fiumi in piena trasportavano masse di acqua cristallina. I cespugli di «calafate» e giganteschi asfodeli rossi come il fuoco erano in fiore e in fondo alla valle, quasi nascesse dalla pampa improvvisamente rinata, si ergeva stupendo il Torre incorniciato dai ghiacciai che scintillavano al sole.
Sembravamo assatanati. In pochi giorni trasportammo tutto il materiale ai piedi del Torre. Della «Casota» non c’era traccia. Era stata inghiottita dal ghiacciaio insieme al ricordo delle nostre fatiche e delle nostre privazioni. Piantammo una tenda e mentre i ragazzi facevano la spola ultimando il trasporto del materiale, Carlo e io ci portammo alla base del Torre. Fin dai primi metri ci rendemmo conto che il gelo, le valanghe e il disgelo avevano in parte danneggiato l’attrezzatura fissa che avevamo lasciato in parete. Bisognava rimboccarsi le maniche e darsi da fare. Eravamo ben attrezzati, ben equipaggiati e ci saremmo anche ben nutriti. Ricordando la fame che avevamo patito durante l’inverno avevamo portato dall’Italia cibi precotti che bastava solo riscaldare.
Oltre a quella novità, forti della passata esperienza, avevamo sostituito tutte le attrezzature che nella precedente spedizione ci avevano procurato guai e ritardi. Ci eravamo attrezzati con una radio tanto potente da poter parlare direttamente con l’Italia. Per i collegamenti interni disponevamo di potenti radio-telefoni. L’Atlas Copco ci aveva dato un nuovo compressore modificato nell’avviamento e nella carburazione e per issarlo ci saremmo serviti di un argano meccanico che avrebbe dimezzato le nostre fatiche.
Purtroppo Baldessari durante i viaggi di approvvigionamento si procurò uno stiramento ai legamenti del ginocchio che lo costrinse alla semimmobilità. Dal campo base Claudio, forte della sua esperienza di ex capitano degli alpini, dirigeva le operazioni organizzative e i collegamenti radio. L’incidente gli aveva definitivamente precluso la possibilità di arrampicare con Alimonia che da quel momento si unì alla nostra cordata. L’intesa fra noi era perfetta e il lavoro da fare era tantissimo. Bisognava controllare lo stato di salute delle vecchie «corde fìsse» e dei chiodi che le trattenevano. Sostituire quelle tranciate dal peso delle valanghe o da lastre di ghiaccio cadute dalla cima. Piantare nuovi chiodi là dove il disgelo li aveva resi insicuri e verificare la tenuta dei cordini ai punti di sosta. Il lavoro era tanto ma erano tante anche le ore-luce a nostra disposizione. Al contrario dell’inverno potevamo arrampicare dalle 4 di mattina alle 10 di sera e in 17 ore si potevano fare cose straordinarie. Infatti il 25 novembre sbalordimmo Claudio comunicandogli via radio che avevamo ripristinato tutto il percorso fino al punto massimo raggiunto nell’inverno. Ripercorrere quelle tracce era come rivivere tutto il nostro calvario. E senza sentirmi immodesto convenni con me stesso che salendo in pieno inverno quella cresta sud-est avevamo scritto una delle più eroiche pagine dell’avventura umana.
Insieme costituivamo una cordata formidabile e ben affiatata. Io aprivo la via, allestivo i posti di fermata e assicuravo Ezio che saliva portandosi dietro l’argano e il relativo cavo metallico agganciato al compressore sul quale avevamo ammassato amache, sacchi da bivacco, viveri, acqua, benzina, corde, chiodi e tutto l’occorrente per la salita. 200 chili che dovevamo recuperare ogni 40 metri. Dopo avermi raggiunto Ezio approntava l’argano e insieme cominciavamo ad azionare la leva del «Tirfor» che a ogni «pompata» faceva salire il carico di circa 30 centimetri. Carlo, dal basso, aiutava la manovra tenendo l’ingombrante carico distante dalla roccia con un’altra corda. L’intesa tra noi eliminava qualsiasi possibilità di tempi morti o malintesi.
In quell’ultimo tratto di parete avevamo usato il compressore facendo uso dei chiodi a pressione. Sapevo che i puritani avrebbero gridato allo scandalo. Sapevo che avrei dato ai miei denigratori un’altra possibilità di attaccarmi. Sapevo che sarei stato ricordato come «l’uomo del compressore», ma sapevo anche d’aver trovato una soluzione tecnica a un problema tecnico. Non riuscivo a rendermi conto per quale motivo in tutti gli altri sport era permesso sperimentare nuove attrezzature che permettessero all’atleta di migliorare le sue prestazioni e nell’alpinismo no. Eppure molti sport avevano ricavato benefici dallo sfruttamento delle scoperte fatte in altri campi. Il salto in alto migliorava le prestazioni grazie all’asta di plastica. Nell’atletica sofisticate scarpette avevano permesso di raggiungere tempi fino ad allora ritenuti impossibili. Nel ciclismo biciclette ultraleggere permettevano di abbassare i record dell’ora e non per questo il valore atletico di quelle imprese veniva sminuito. Anzi, quegli accorgimenti tecnici aiutavano l’atleta a esprimere il meglio di sé. Mentre io, atleta di uno sport senza regole scritte o record omologati, venivo deriso per le mie innovazioni tecniche e tacciato di «ferire» la montagna. E per difendermi da quelle accuse dovevo far passare quel compressore per una provocazione, un atto di ribellione, una sfida ai tabù e ai pregiudizi, mentre era solo un ingombrante archetipo che anticipava quei minuscoli trapani elettrici che oggi gli alpinisti usano tenere in tasca per adoperarli ogni volta che devono piantare un chiodo a pressione.
La mattina del primo dicembre sbucammo ai piedi della parete terminale del Torre. Sotto di noi l’impressionante parete est precipitava per quasi 2000 metri e sopra alle nostre teste incombeva l’imponente strapiombo del «fungo». Uno spettacolo indimenticabile da togliere il fiato anche a gente come noi rotta a tutte le emozioni. Alle 10 di sera, anche la parete terminale stava sotto i nostri piedi. Eravamo a meno di 30 metri dall’inizio della calotta ghiacciata che forma la vetta. Decidemmo di bivaccare in quel punto. Carlo si accomodò sul compressore, Ezio e io ci arrangiammo creandoci due «gabbie» usando tutte le staffe di cui disponevamo. Eravamo talmente eccitati che non sentivamo né il freddo né il dolore provocato dalle corde con le quali ci eravamo imbragati.
Improvvisamente la notte spense il giorno, e la Patagonia fu coperta da un buio profondo. Il cielo sopra di noi sembrava finto e attorno c’era il mondo che come noi si era acquattato per riprendere fiato. 1500 metri più in basso, sulla cresta di ghiaccio che portava all’ingresso del «Bus», si intravedeva una piccola luce. Era Daniele che sicuramente non si decideva a entrare nel crepaccio quasi volesse dividere con noi i disagi di una notte all’addiaccio. Guardai i miei compagni appesi a quella parete e provai per tutti un affetto così grande che mi diede un dolore fisico fortissimo come se lo sterno si stesse spezzando e con quella strana sensazione mi addormentai affranto dalla fatica e dall’emozione.
E venne l’alba del 2 dicembre 1970. Il sole illuminando la cima del Fitz Roy dissolse la notte e la corona di montagne che ci circondava si riempì di luce. Ci liberammo dai grovigli che ci avevano fatto da letto e incominciammo a muoverci con circospezione. Negli arti intorpiditi dal freddo e dagli imbraghi ricominciò a scorrere il sangue e con esso la vita e la forza. La prima lingua di ghiaccio era a meno di 30 metri da noi. Per l’ultima volta avviammo il motore del compressore e mi alzai diagonalmente verso sinistra forando la parete di granito finché non arrivai dove la lingua di ghiaccio diventava abbastanza consistente da sopportare il mio peso. Ne assaggiai la compattezza e quando fui sicuro della sua solidità, incastrai a martellate fra il ghiaccio e la roccia dei lunghi chiodi di alluminio di nostra fabbricazione e attaccai la ghiacciata calotta terminale. Improvvisamente il Torre si coprì di nuvole e, investita da un forte vento caldo proveniente da nord-est, la vetta incominciò a scaricarci addosso grossi pezzi di ghiaccio. Feci salire i miei compagni fino a me in modo che mi potessero assicurare più da vicino e ripartii verso la cima. In pochi minuti il tempo peggiorò e la cima venne sferzata da quell’insopportabile vento caldo. Fatti una ventina di metri i miei compagni scomparvero fra il turbinio della neve e mi sentii solo. Sulla destra l’enorme strapiombo del «fungo», che incombeva sul vuoto per molte decine di metri, riportò alla mia mente la disgrazia del 1959. Cercando di scacciare dalla mia mente quel lugubre pensiero continuai ad alzarmi in mezzo alla bufera. Alle quattordici e trenta di martedì 2 dicembre, accecati dal vento e dalla neve, ci abbracciammo sulla vetta del Torre. Avevamo vinto. Non solo una parete inaccessa che aveva respinto decine di alpinisti, ma avevamo soprattutto dimostrato al mondo che non esistono montagne impossibili. Avevamo finalmente dimostrato al mondo che con le palle si possono raggiungere tutte le mete. E con noi avevano vinto i nostri compagni Cesarino, Claudio, Renato, Pietro, Daniele, Juan-Pedro e Fausto. Grandi uomini, indispensabili artefici che, con la loro caparbia volontà, il loro coraggio e la loro abnegazione avevano reso possibile la vittoria. Una vittoria che personalmente dedicavo a Fernanda e Gian e al loro grande coraggio molto più meritevole del mio perché solo i forti sanno soffrire con dignità, senza lasciarsi sopraffare dagli eventi e dalla frustrazione di sentirsi impotenti.
Abbandonammo la vetta quasi subito. Dovevamo affrontare una discesa pericolosa, resa ancora più insidiosa dalla carica negativa che subentra in ogni alpinista dopo aver raggiunto la vetta. Ci aspettavano una sessantina di corde doppie piene di imprevisti e di incognite rese ancora più pericolose dal cattivo tempo. Per primo lasciò la vetta Carlo, poi Ezio e io per ultimo. Ancora una volta non c’era felicità in me ma solo un profondo odio per quella montagna che stava sotto ai miei piedi per la seconda volta. Era stupido odiare una montagna. Allora odiai me stesso. Odiai il mio egoismo. Il mio protagonismo. Odiai il mio odio e la mia irrazionalità. E gonfio di quell’orribile sentimento lasciai quella vetta che avrebbe dovuto invece darmi gioia e orgoglio.
Mentre ci stavamo preparando per scendere, ci comunicarono via radio la notizia che in zona c’era una spedizione spagnola che sembrava volesse ripetere la nostra via. Gli alpinisti che la componevano facevano parte di quel gruppo di «fuoriclasse» che dopo essere stati respinti dal Torre avevano messo in dubbio la mia salita del ’59. E in un attimo tutto il mio odio si tramutò in vendetta. Avrei schiodato completamente la salita. Volevano ripetere la nostra via? Bene, se la sarebbero richiodata tutta. Anche a costo di rimetterci la pelle non avrei dato loro la possibilità di attaccarsi ai miei chiodi. Scendendo per ultimo e rischiando del mio avrei rallentato le mie discese a corda doppia per avere la possibilità di spezzare tutti i chiodi a pressione in modo da lasciare dietro di me terra bruciata. E così feci. Arrivato alla parete di roccia spezzai una ventina di chiodi a pressione martellandoli rabbiosamente in qua e in là finché rompendosi otturassero definitivamente il foro. Arrivato al compressore lo resi inutilizzabile spezzando a martellate il carburatore, la candela, il magnete e l’avviamento. Avremmo fatto prima a buttarlo di sotto ma decidemmo di lasciarlo dov’era a testimonianza del nostro passaggio. I miei compagni, contagiati dalla mia rabbia, scaricarono nel vuoto tutto quello che capitava loro sottomano mentre io, con meticolosa attenzione, eliminai qualsiasi cosa che avrebbe potuto facilitare gli eventuali ripetitori. In quell’assurdo lavoro di «pulizia» rischiai più volte di ammazzarmi. I miei compagni rendendosi conto del mio stato di alterazione cercarono di ridurmi alla ragione facendomi capire che il mio comportamento stava mettendo a repentaglio la vita di tutti. Tralasciai di spezzare i chiodi ma mentre mi calavo tagliavo le corde fisse e le gettavo nel vuoto.
Il tempo peggiorava a ogni ora. Improvvisamente il vento cambiò e iniziò a soffiare da sud portando con sé il gelo dell’Antartide che trasformò la parete in un muro di vetro. Un enorme blocco di ghiaccio staccatosi dalla cima mi investì trascinando con sé i ramponi che stavo calzando. Affranti dalla fatica, rischiando più volte di precipitare, continuammo a scendere per quella parete che improvvisamente si era trasformata in un mortale campo di pattinaggio.
Alle 4 di notte, dopo 12 ore di discesa, atterrai per ultimo dentro il «Bus».
Ero allo stremo delle forze. Daniele facendomi luce con una torcia elettrica guidò i miei ultimi passi fin dentro il crepaccio. Carlo ed Ezio stavano sdraiati bevendo tè caldissimo. Mi gettai a terra e abbracciandoci tutti e quattro ci rendemmo conto che solo in quel momento potevamo considerarci vincitori.
Il 14 dicembre alle 2 di pomeriggio l’aereo ci depositò all’aeroporto di Milano. Il portellone si aprì e i miei amici mi cedettero il passo. Mi avviai verso la scaletta e vidi Fernanda. Indossava un lungo cappotto nero che la rendeva ancora più bella. Alzai la piccozza in segno di vittoria e mi precipitai nelle sue braccia. Attorno a noi giornalisti, fotografi, cineoperatori, radiocronisti e telecamere. Offrii al ministro Piccoli la mia piccozza. Non era un gesto politico ma un affettuoso ringraziamento per un trentino che tanto aveva fatto per noi. Bruno Vespa, intervistandomi per la Rai, mi chiese le mie impressioni sul Torre. Con studiata calma ripetei quello che io avevo sostenuto per tutta la mia vita: «Non esistono montagne impossibili. Esistono solo uomini che non sono capaci di salirle».
Campiglio ci ricevette come trionfatori. Arrivammo all’inizio del paese dove campigliani e ospiti ci aspettavano sventolando bandierine. Ci fecero salire sulla macchina dei Vigili del Fuoco e preceduti dalla banda ci avviammo verso il centro del paese. Arrivati nella piazza grande improvvisamente vidi mio figlio. Si sorreggeva con due stampelle. Saltai giù dalla macchina e lo abbracciai commosso e felice. Gian, nascondendo la sua commozione, mi sussurrò che si era rotto la gamba durante una gara di sci, ma non voleva farmelo sapere per non rovinarmi la gioia di quell’accoglienza. Stringendolo continuavo a ripetermi che ero fortunato ad avere un figlio così. E ancora una volta ebbi la riconferma che Gian era già un uomo che con il passare degli anni il mondo avrebbe stimato e apprezzato.
Nel maggio del 1972 Garzanti pubblicò 2000 metri della nostra vita scritto a quattro mani con mia moglie. L’editore aveva fuso in un unico volume i diari di Fernanda e il mio, dando vita a un commovente dialogo fra due persone che avevano combattuto la loro battaglia su due fronti diversi, lasciando al lettore la decisione di considerare quale dei due aveva sofferto di più. Grazie alla grande carica umana che traboccava dal diario di Fernanda vincemmo il premio «Bancarella Sport 1974». Fra tutti i miei libri 2000 metri della nostra vita è quello che amo di più. Da quelle sofferte pagine scaturiva il dramma che ci aveva coinvolti, anche se per pudore avevamo taciuto molte angosce e molti disagi che scritti sarebbero apparsi eccessivi e volutamente ricercati.