Intervista a Cesarino Fava (1978)

Questa storica intervista condotta da Jorge González, inclusa nel suo libro Ecos de la Montaña, è stata realizzata per la rivista Andinismo al suo primo numero.

Intervista a Cesarino Fava (1978)
di Jorge González
(tratta dal suo libro Ecos de la Montaña e dalla rivista Andinismo n. 1, 1978)

Cesarino Fava (1921-2008)
Trent’anni fa ero su una Citroën diretto a Marcos Paz. Sono andato a casa di Cesarino Fava, dove aveva la sua piccola fattoria e il suo allevamento di polli. Era una soleggiata giornata di febbraio. Mi sembra di ricordare che ero libero e felice, che credo siano la stessa cosa. Avrei incontrato l’uomo che era tornato dalla Patagonia qualche giorno prima e che aveva scalato il Fitz Roy insieme a Bruno de Donà lungo la Via Californiana all’età di 58 anni…

Cesare Maestri (a sinistra) e Cesarino Fava nella grotta di ghiaccio, Ghiacciaio del Torre, 1959. Foto: Collezione Cesarino Fava.

Un sacco a pelo e un piumone diventano due morbidi posti a sedere per Pablo (Cavagnero) e per me. Davanti ci sono Cristina (Le Mehaute) ed Edgardo (Porcellana). Aprimmo il tetto della Citroën e, con il caldo torrido di febbraio alle porte, domenica verso mezzogiorno partimmo per Marcos Paz. Portiamo con noi una macchina fotografica caricata in bianco e nero e un registratore. Leggo ad alta voce le indicazioni che Cesarino mi ha dato per arrivare a casa sua e un grande sorriso appare sui nostri volti all’idea di immaginarci in una squadra mobile in missione giornalistica. Ci porta l’intenzione di incontrare l’uomo, ma non durante la sua vita di tutti i giorni… Perché in questa stagione, Cesarino Fava ha scalato con successo il Fitz Roy lungo la via Califoniana.

Significa molto averlo raggiunto. Per noi è un grande traguardo personale e soprattutto un esempio, una conferma di ciò che uno spirito può fare al di là dei suoi 58 anni anagrafici. L’ultimo tratto, lungo una stradina sterrata e le zone di riproduzione sulla sinistra ci rassicurano che siamo arrivati. C’è spazio, c’è verde, ci sono fiori nelle aiuole che costeggiano la casa, una zona barbecue, una piscina e, sullo sfondo, Cesarino stesso in mezzo a tutto questo con quella sua espressione che voleva dire “Ma… pensavo che vi foste persi”.

Cesarino Fava sul Nevado de los Tambillos, San Juan. Foto: Collezione Cesarino Fava.
Cima del Nevado de los Tambillos, con Cesarino Fava sullo sfondo, San Juan. Foto: Collezione Antonio Beorchia Nigris.

Abbiamo pranzato e subito ci siamo buttati sul vino. Non c’era tempo per un registratore e Pablo scattò solo qualche rapido primo piano per non perdere nessun dettaglio della conversazione. Si parlò per ore di montagna e Cesarino Fava aggiungeva ogni volta le sue particolari espressioni idiomatiche e ripeteva: “Sono contento che siate venuti”. Ci racconta che è arrivato in Argentina 26 anni fa. La sua tenuta di Marcos Paz è molto tranquilla e accogliente e lui vive lì da dodici anni. Lì è l’habitat perfetto per il silenzio e i momenti di tranquillità. Ci dice che raccontare come si è ritrovato a dedicarsi all’allevamento di polli è una storia molto lunga. Sono animali che si sviluppano in modo straordinario in poco tempo ma sono abbastanza indifesi dai numerosi parassiti che li attaccano; in ogni caso lui evita, per quanto possibile, di dover essere lui ad ucciderli per la griglia.

Lo accompagnano i suoi due figli più piccoli, che parlano italiano con una dolcezza tale che ci guardiamo e sorridiamo: Lucas e Andrea. Lui pensa che sia importante per loro avere accesso ad altre cose, ma è felice di dirci che qui hanno spazio per sfogarsi. Abbiamo parlato di ecologia, del problema della mancanza di controllo sull’uso della tecnologia, della mancanza di consapevolezza da parte di chi altera i paesaggi naturali, la città, la montagna. Cesarino accetta il progresso, ma critica l’inquinamento dei laghi, l’insediamento di enormi industrie che alterano la bellezza di luoghi incontaminati e l’abbattimento indiscriminato di alberi secolari nel Sud. E soprattutto lo sconvolge molto pensare che «possiamo e dobbiamo lottare per fermare questo prodotto di favolosi interessi economici». Ha compiuto più di quaranta ascensioni sulle Alpi.

Gli abbiamo parlato della mentalità attuale nel CABA e lui ci ha detto che era contento di pensare che stessero cercando di salvare l’uomo prima dello scalatore e che lui era aperto. “Mi piacerebbe davvero vedere questo cambiamento, e credo che un modo concreto per ottenerlo sia portare nella prossima spedizione in Nepal due giovani, scelti con cura per le loro qualità umane, anche se non hanno un background tecnico eccezionale. Anche se fossero solo due, sarebbe fondamentale”.

Nevado de los Tambillos: Cesarino Fava (a sinistra) e Fausto Barozzi (a destra) Foto: Collezione Antonio Beorchia Nigris.

Gli dico che diamo per scontato che, avendo lui appena raggiunto la vetta del Fitz Roy, debba sentirsi pienamente autorizzato, tra le altre cose, a rivendicare certi valori che secondo lui sono stati un po’ trascurati in quella che lui chiama “l’involuzione dell’alpinismo”. Ci dice che sì, davvero, “l’alpinismo due o tre anni fa era in uno stato di regressione. Si facevano vie sulle Alpi con attrezzature preinstallate: senza fatica non c’è più scopo nell’alpinismo”.

Chiude la bocca e, con le labbra tirate indietro, muove la testa e le mani contemporaneamente, cercando la parola giusta per descrivere la preoccupazione che questi problemi gli procurano. “La sicurezza è molto importante, e bisogna sottolinearlo durante i corsi, soprattutto sul ghiaccio. Durante i corsi, è importante insegnare ai ragazzi come evitare le cadute”.

Continuiamo a parlare di montagna e dei suoi principali protagonisti: gli uomini, gli ideali, la tecnica. “Sul Fitz Roy ho visto che questi italiani sono bravi scalatori. Bruno de Donà è il migliore delle Dolomiti, anche se il suo nome non è famoso. Siamo saliti tutti in vetta. Ero il secondo di Bruno a tenergli le corde, senza alcuna pretesa di fare chissà cosa, perché vivo 11 mesi senza fare nulla, e sul Fitz Roy una salita di quinto grado è una salita di quinto grado. La via Californiana è più alpinistica della via Ferrari, che è tutta artificiale. Bruno era lì per fare il “pilastro”, ma alla fine non gli è stato possibile. Certo, sono contento di aver fatto il Fitz Roy, perché è una montagna che non si scala tutti i giorni. Inoltre, sono stato in montagna molte volte e non sempre ho raggiunto la vetta. Alcuni mi consideravano un fallito o l’eterno secondo classificato, quindi se la mentalità del Club è quella che dici, allora dovresti dedicare più di una pagina a una spedizione che non raggiunge la vetta e non chiamare un tentativo un fallimento. Ce ne sono molti di motivi per cui a volte le persone non raggiungono la vetta”.

Abbiamo ascoltato con attenzione tutta l’esperienza che Cesarino riversa nelle sue parole. Ha spiegato che procedevano con due corde e una terza per salire con uno jumar e risparmiare tempo, che hanno messo tutti i chiodi utili alla sicurezza, che hanno usato pochi dadi, insomma, dettagli interessanti intervallati dalla sua costante preoccupazione di fermarsi a pensare all’essere umano, alla convivenza che la montagna permette, all’uomo, all’atteggiamento di sacrificio che a volte è necessario anche se costa la vetta.

Amici del CAI in visita a Rapicavoli e Fava in ospedale dopo la spedizione all’Aconcagua del 1952.
Foto: Archivio Claudio Rapicavoli.
Cesarino Fava in ospedale. Foto: Archivio Claudio Rapicavoli.

Ciao Cesarino!!
Era proprio quel Cesarino Fava, membro della controversa spedizione di Cesare Maestri e Toni Egger al Cerro Torre nel 1959, che mi aveva ispirato con la sua salita diretta alla parete nord del Chañi a recarmi sull’altopiano per provare a ripetere quella via e finire per vivere un’esperienza e conoscere una regione che avrebbe significato così tanto per la mia visione della montagna. Da lontano, senza conoscerlo, provavo ammirazione e affinità con Cesarino Fava. E l’incontro e il rapporto che nacque allora non fecero altro che confermarlo. Nella sua casa, dove abitava dal 1966, c’era verde, aria fresca, fiori nelle aiuole, due scimmiette che correvano in giro: vino e sorrisi. Tutto il resto del tempo lo passavamo chiacchierando per ore di montagna. A quel tempo, quando ero agli inizi, tutto ruotava attorno alla scoperta: ero in uno stato di eccitazione generale per i racconti sulle regioni selvagge e sulle montagne, ed eravamo pervasi da un senso di avventura romantica…

E Cesarino Fava, lasciando scorrere i ricordi, ci ha mostrato la sua passione e la sua etica, ci ha contagiato con la sua forza, ci ha fatto pensare che avevamo ancora tanto tempo davanti a noi. Aveva compiuto più di quaranta ascensioni sulle Alpi e dichiarò la sua ammirazione per uomini come Eric Shipton che preparavano le loro spedizioni sull’Himalaya con così poche cose:

“Un po’ di farina, un po’ di tè, e lì c’era la lotta”, sottolineando che “… per raggiungere l’obiettivo, quella lotta è necessaria; qualcosa che gli dia un senso”.
Criticava le persone “condizionate”, i professionisti della montagna, coloro che non hanno alcuna motivazione umana per raggiungerla.

“Le persone allenate possono essere preziose solo perché sono tecnicamente brave. L’allenamento non dovrebbe esistere; la montagna è, soprattutto, una ricerca di libertà”.

Lasciando Plaza de Mulas. Spedizione Aconcagua 1952. Foto: Archivio Claudio Rapicavoli.
L’alpinista argentino Manuel Rodríguez viene salvato da Cesarino Fava e Leonardo Rapicavoli. La foto è scattata ormai vicino a Plaza de Mulas. Spedizione Aconcagua 1952. Foto: Archivio Claudio Rapicavoli.

Fava nacque nel 1921 e crebbe in Trentino. Era il secondo di dieci fratelli e, dopo aver prestato servizio per cinque anni su una nave mercantile che attraversava l’oceano fino a Buenos Aires, arrivò nel nostro Paese all’inizio degli anni ’50. Intorno al 1966 si stabilì in questo luogo tranquillo e accogliente a Marcos Paz. Questi sono i suoi ricordi:

“Nel 1952, sono andato all’Aconcagua per la prima volta, per la via settentrionale. Eravamo in quattro, tutti italiani. Ho dovuto portare giù un ufficiale argentino di nome Martínez, e non abbiamo raggiunto la vetta. Non avevo mai visto niente di simile sulle Alpi. La mia mente era lucida, ma le gambe non mi reggevano. Un mio amico era completamente delirante per l’altitudine e, quando si è ripreso, non ricordava nulla. Fino ad allora, non credevo che queste cose potessero accadere.

Nel 1953 tornai all’Aconcagua e dovetti aiutare un americano a scendere dalla vetta. Questa è una storia molto lunga che mi è costata il congelamento delle dita dei piedi. Nel 1954 ho effettuato la prima salita in solitaria della parete ovest del Cuerno 5500 m, dopo che mi erano stati amputati i piedi. Mi è successo di tutto.

Durante la discesa ho commesso un errore e mi sono accorto di essere in mezzo a un seracco. Ho messo un chiodo per scendere sul labbro di un crepaccio, attraversarlo e risalire dall’altra parte. Ho lasciato cadere la corda e non sapevo se saltare o meno perché temevo che il ponte non mi avrebbe retto. Sono risalito e ho deciso che per quel giorno avevo fatto abbastanza. Ho dormito lì all’aperto e il giorno dopo ho improvvisato una corda con il sacco da bivacco che ho tagliato a strisce e agganciato al chiodo con le cinghie dei ramponi che ho sostituito con una benda.

Alla fine sono andato a piedi a Puente del Inca perché la jeep che mi sono precipitato a prendere era guidata da un tizio che, quando mi ha visto, è scappato via spaventato. Quando scesi, dissi al tenente Butti che avevo raggiunto la vetta e notai che il suo atteggiamento era freddo. Dopo gli ho dato un gagliardetto cileno che avevo preso dalla vetta e lui si è scusato perché non mi aveva creduto e mi ha abbracciato con grande commozione. Quel giorno fui salutato dalla guardia d’onore.

Nella stagione 1957/58, andammo al Cerro Torre per la prima volta. Era una spedizione trentina che avevo organizzato mentre ero in Italia l’anno precedente. Salimmo El Grande, El Hombre Sentado ed El Doblado. Tutte prime salite. L’anno successivo, tornai al Torre con Cesare Maestri, Toni Egger, Juan Spikermann, i fratelli Augusto e Gianni Dalbagni e Angelo Vincitorio. Nel 1960, tornai al Torre per vedere se riuscivo a trovare il corpo di Toni Egger. Spikermann, Vincitorio, Mordini e Bozzini, i due del Club Andino di Tucumán, mi accompagnarono. Ripetemmo la Solo, El Techado Negro ed El Mojón Rojo, e posammo una targa ai piedi del Torre in memoria di Toni. Con Menguelle e “Pipo” Frassón, andammo al Nevado del Chañi nel ’61 e facemmo la prima salita della Cima Nord. Mi divertii moltissimo. Bella roccia, grado 2 e 3, tiri di quarto grado, molto aerea, e la gente del Nord è straordinariamente gentile. Mi piacerebbe tornarci, là.

Toni Egger (a sinistra) e Cesarino Fava (in camicia bianca) alla partenza della spedizione 1958/59. Foto: Gianni Dalbagni.

Cesarino Fava al ritorno dal Fitz Roy a Marcos Paz. Foto: Pablo Cavagnero.

Nel ’65 sono andato al Moyano per la prima volta e non siamo riusciti a raggiungere la vetta. Fausto Barozzi, Guillermo Spuey e io. Salimmo il Cerro Perro Negro. Nel ’65 con Barozzi, A. Menguele e A. Aristarain andammo al Cerro Pier Giorgio. Abbiamo dovuto scendere nel mezzo di un forte temporale, di quelli violenti, e ci restavano ancora 60 metri di verticale per raggiungere la vetta. È stato drammatico. Arrivò la tempesta e fu allora che perdemmo il Pier Giorgio. L’anno successivo sono andato alla parete sud del Mercedario, abbiamo preso una via diretta e non siamo arrivati ​​in vetta. Furono i giapponesi a superare quindi la parete verticale e realizzare la prima salita. Con Antonio Beorchia Nigris, Fausto Barozzi e Héctor De la Vega siamo andati al Nevado los Tambillos 5778 m (San Juan) nel 1969. Pensavamo che fosse la prima salita: quando siamo arrivati ​​in cima abbiamo trovato un muro di pietra e un poncho Inca. C’erano anche un mortaio e altre cose che abbiamo lasciato nel museo provinciale”.

La storia di Cesarino Fava con il Cerro Torre non finisce nel 1959. Undici anni dopo accompagnò di nuovo Maestri ai piedi della montagna. Fu nel dicembre del 1970 che Maestri riuscì a completare la sua seconda via al Torre, per lo spigolo sud-est. Una salita controversa, poiché i chiodi a espansione utilizzati dall’italiano terminano subito sotto al ghiaccio del fungo sommitale, a non molta distanza da dove abbandona il compressore con cui ha forato il granito. Ma per lui la vetta è raggiunta e, in discesa, spacca molti chiodi per impedirne l’uso ai ripetitori. Da allora, anche questa Via del Compressore avrebbe avuto i suoi detrattori. Anni dopo, presso la sede della National Parks Administration, Cesarino tenne una conferenza sull’argomento dal titolo molto suggestivo: “La devoluzione dell’alpinismo”. Sono andato ad ascoltarla:

“Quando dico che non mi piace il compressore, lo dico perché è una regressione. Non uso la retorica inglese di Leo Dickinson per sostenere che la montagna si sta degradando, ma perché non ha senso portare monossido di carbonio al Torre. Il compressore è inutile perché è legato all’ambiente in cui viviamo per la maggior parte dell’anno, alla miscela, alle candele, alla macchina. Quando l’hanno portato su per gli 800 metri di muro e testato per farlo funzionare, stavo per calarmi con una corda doppia per scendere al campo inferiore. Ho attaccato un prusik alla corda e ho sentito la corda tirare leggermente. Il prusik era più basso e ho piegato il corpo, tirando il braccio per sollevarlo. Lì ho visto che avevo entrambi i capi della corda in mano. Non mi sono ucciso perché non era il mio momento. Le corde erano passate sotto il compressore e il tubo di scarico le aveva surriscaldate e tagliate. Come ti aspetti che parli del “compressore a motore”? Cesare ed io ci amavamo come fratelli. In seguito scrisse alcune cose che offesero il circolo trentino, e forse capisco il perché. Lui mi ha influenzato, ma io ne ho preso completamente le distanze…”.

Cesarino Fava (a sinistra) e Cesare Maestri

Molti anni dopo, ci fu un chiacchieratissimo incontro tra Maestri e Fava in un rifugio sulle Dolomiti, che, con un abbraccio, lasciò alle spalle i rancori.

Ci incontravamo saltuariamente per chiacchierare. Camino acceso, un cesto di noci sul tavolo, liquore, inverno. Per parlare di quella regione di selvaggia bellezza, la Patagonia, della libertà di quei confini, della sua asprezza. Mi piaceva ascoltarlo, vedere come chiudeva la bocca e, con le labbra tirate indietro, muoveva la testa mentre cercava con le mani la parola giusta e aggiungeva “Ma… hai capito?” Ho davanti agli occhi una delle sue poche lettere. È datata Marcos Paz, 15 novembre 1989 e dice:

“Caro Jorge, purtroppo mi manca il dono della facilità di espressione. Se, per esempio, ascolto l’Ave Maria di Schubert o di Gounod, o una sinfonia di Beethoven o di Bach, mi commuovo fino alle lacrime. Se mi chiedi perché, in tutta sincerità, non saprei cosa rispondere… La tua lettera mi ha commosso allo stesso modo. Forse questo tuo sensibile ricordo costituisce, in un certo senso, il tuo consenso al mio modo di interpretare o praticare l’alpinismo, e questo è molto importante per me, poiché nel processo irreversibile della vita, mi sto già avvicinando al classico chiodo a cui sono appesi scarponi, piccozze, progetti e sogni. O, più semplicemente, è l’incontro di due spiriti che, in un mondo in rovina, continuano a credere nel loro ideale: la montagna…”.

Da sinistra, Carlo Claus, Kurt Diemberger e Cesarino Fava

Nel 1999 è stato pubblicato il suo libro Patagonia, terra di sogni infranti, che ho letto a El Chaltén l’anno successivo. Erano passati anni… Quella bambina di nome Andrea che si tirava i pantaloni e diceva: “Papà, papà, dammi un po’ di soldi per comprarmi un gelato!” Ora era una donna a tutti gli effetti, moglie di Horacio Codo, dietro al bancone, intenta a distribuire pizze. L’altro bambino, César, è diventato uomo e vive a El Chaltén… Ho ricevuto la notizia qualche giorno fa:

“A fine aprile 2008, esattamente il 22, è mancato nel villaggio di Malè (TN) l’alpinista italiano Cesarino Fava, lasciando un segno indelebile nell’alpinismo italiano e sudamericano. I suoi amici e compagni di scalata lo hanno sempre descritto come affascinante, vitale e passionale”.

Cesarino Fava

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