Il sito Montagnamagica.com, associato al portale Sherpa, è in dismissione. Nella sua vita di otto anni (dal 2016) ha pubblicato più di una cinquantina di post sull’alpinismo, in genere extraeuropeo. Abbiamo deciso di riprenderne i migliori, in cinque puntate. Tutti gli articoli, a parte quelli diversamente attribuiti, sono di Federico Bernardi.
Un grido (d’allarme) di Pietra
(pubblicato il 21 febbraio 2016)
“Il caldo estremo delle ultime estati, aggiunto alle cinque settimane recenti, hanno senza dubbio avuto un impatto sul permafrost, rendendo queste montagne più instabili”.
La lunga e calda estate patagonica
La straordinaria serie di salite patagoniche, un flusso continuo e ripetuto di ascese in velocità, per la prima in libera, per nuove linee, per ambite ripetizioni, la traversata record di “Capitan Sicurezza” Colin Haley con Alex Honnold (questo duo, un mix perfetto di stile diversi, capace di mostrarci la vitalità e la purezza ancora esistenti nell’alpinismo) sembra non aver fine, grazie a una finestra di un mese e mezzo di ottimo tempo e temperature calde. Rolando Garibotti, guardiano, mentore e cantore delle imprese patagoniche nonché “guru” sensibile, etico e attento all’ambiente, ci scrive del rovescio della medaglia, causato dal drastico cambiamento climatico, sulla sua pagina Facebook Patagonia Vertical.
Contattato da montagnamagica.com, Garibotti con la sua consueta gentilezza ci ha concesso di tradurre la sua nota d’allarme, non a caso intitolata “Achtung” (Pericolo!, in tedesco):
“Il 20 gennaio 2016, mentre Iaki (Coussirat, ndR) moriva sulla parete est del Fitz Roy, a causa di una scarica di pietre, Gabi Fava e Martin Lopez Abad osservavano il crollo di un’enorme placca sul muro sommitale del Cerro Torre. Quel giorno lo zero termico era a 3800 metri e c’erano scariche di ghiaccio e roccia ovunque. Gabi ha notato che tornando qualche giorno dopo, con livello a 3100 metri, tutto era calmo e fermo. Sebbene in apparenza sia nell’elevatezza di questo valore la chiave dei crolli, il problema è molto più complesso. Il caldo estremo delle ultime estati, aggiunto alle cinque settimane recenti, hanno senza dubbio avuto un impatto sul permafrost, rendendo queste montagne più instabili. Quindi lo zero termico è uno dei fattori da tener in conto nella scelta degli obiettivi di scalata ma forse è il momento di considerare veramente off-limits certi luoghi durante periodi estivi così caldi come questo, al di là del mero valore dello zero termico. Questo insegnamento è stato appreso da almeno un ventennio sulle Alpi ed è forse arrivato il momento di farlo anche qui, ora”.
Nello stesso post di Rolo, un commento conferma la sua analisi: il climber finlandese Lauri Hmlinen pubblica un’impressionante foto della parete sud del Cerro Torre, qui a lato, vista dal campo base dei Polacos. Osserviamo l’enorme nuvola di polvere sollevata nella parte centrale del muro dal crollo, proprio in verticale sulla placca sgretolata che vediamo qui sopra negli scatti di Gabi Fava, poco sotto il fungo sommitale, che sembra ridursi anno dopo anno.
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Quarant’anni fa: il Dhaulagiri salito da italiani
(pubblicato in due differenti post, 7 marzo 2016 e 23 maggio 2016)
Tutte le foto sono di Alfonso Bernardi – Famiglia Bernardi
Il 23 febbraio 1976 la spedizione delle Aquile di San Martino e Primiero partiva da Milano per Kathmandu, così composta: Renzo Debertolis capospedizione, Francesco Santon vice, le Aquile Camillo De Paoli, Gian Paolo De Paoli, Luciano Gadenz, Gian Pietro Scalet, Silvio Simoni, Giampaolo Zortea, Edoardo Zagonel, gli alpinisti Sergio Martini e Luigi Henry, il medico Achille Poluzzi e lo scrittore Alfonso Bernardi testimone della spedizione e autore della cronaca di quei momenti nel libro Trentini sul Dhaulagiri 8172 m.
Il 4 maggio 1976 le Guide Alpine Giampaolo Zortea e Silvio Simoni, piantavano sulla vetta del Dhaulagiri avvolta nella bufera, a 8172 m le loro piccozze con i gagliardetti italiano, nepalese e naturalmente quello delle Aquile. Luciano Gadenz fece marcia indietro a circa 7950 m per principi di congelamento.
Fu il primo ottomila conquistato da una spedizione di alpinisti trentini e in ordine di tempo, il terzo ottomila italiano. Il valore di un’impresa alpinistica è ben difficilmente collocabile in una graduatoria assoluta, fatto com’è di troppi elementi, umani, tecnici, ambientali ed anche d’imponderabilità, ma si può affermare che la salita al Dhaulagiri del 1976 merita un posto di primissimo ordine. “Successo prezioso” titolava un articolo di Alessandro Gogna (noto alpinista e scrittore) su TuttoSport del 12 giugno 1976.
Le retour à l’âge d’or
(pubblicato il 28 ottobre 2016)
Tra la fine dell’estate e il primo mese di autunno 2016, l’alpinismo d’alta quota ha vissuto un fulminante periodo di straordinarie scalate, in Nepal, India e Cina.
Le caratteristiche comuni a imprese molto differenti tra loro sono l’essere piccoli team, la ricerca di linee estetiche, in terreno misto difficilissimo, con uno stile e un’etica che richiamano il periodo d’oro (grazie a Stefano Lovison per questa felice sintesi) degli anni ’80 e ’90, uno sviluppo importante su vie ripidissime e tecniche.
Tra le spedizioni che hanno realizzato straordinarie scalate, ne abbiamo scelte due, che riteniamo particolarmente significative, qui solo per note principali.
Direttissima Moveable Feast, Sergey Nilov, Dmitry Grigoriev e Dmitry Golovchenko (RU), sullo sperone nord del Thalay Sagar 6904 m, 1600 metri di sviluppo, 1200 di dislivello, media di 62° di inclinazione della via e media della parete 71°, 15 settembre 2016. Via nuova con alcune parti comuni a precedenti vie. Non hanno usato portaledge ma una tendina, potrebbe essere la prima salita in stile alpino della Nord.
Great Escape, Nyainqentangla Sud-est 7046 m, 1600 metri di sviluppo, per lo sperone nord, Nick Bullock e Paul Ramdsen (UK). Prima salita assoluta. Terreno sconosciuto, nessuna assistenza.
La Salita “Piolet D’Or” 2013 dell’Annapurna di Ueli Steck: un’analisi fattuale, elementi chiave
di Rodolphe Popier (Himalayan Database Researcher and Inquirer, Kairn.com editor)
(pubblicato il 12 aprile 2017)
Traduzione di Federico Bernardi
1. Non ci sono elementi diretti (qualsiasi dato dal tracker GPS, fotografie, telefono satellitare, time-lapse notturni dal Campo Base, ecc.) né indiretti (luci viste dal Campo Base, tracce sulla neve) che dimostrino che Ueli Steck abbia lasciato il suo bivacco (a 6900 m circa, sotto la headwall e le maggiori difficoltà tecniche, NdR) la notte tra l’8 e il 9 ottobre del 2013. L’ossservazione diretta ha confermato la sua posizione a 6900 m alle 17 circa, poi ripresa la mattina dopo a circa 6500 metri alle 9 di mattina con Ueli in discesa verso il CB. Il suo bivacco è stato trovato dai francesi Graziani e Benoist che hanno salito la stessa parete due settimane dopo, senza trovare altri segni di passaggio oltre i 6900 metri. I francesi hanno confermato, ascoltati separatamente.
2. Le testimonianze di Tenji Sherpa e Ngima Sherpa, che riferirono di aver visto una luce frontale sulla parete e poco sotto la cima durante la discesa, sono in contraddizione con quanto riferito dagli altri membri del team che ugualmente erano usciti dalle tende quella notte, in un caso insieme (Bowie e Tenji intorno a mezzanotte). Nessuno degli altri membri della spedizione ha confermato di aver visto luci quella notte. Tra l’altro nessuno ne avrebbe parlato la mattina dopo, prima dell’avvistamento di Steck già a circa 6500 metri in discesa.
3. Tutti gli elementi raccontati da Steck della sequenza temporale di tutta la salita sono intrinsecamente vaghi, a causa della mancanza di misurazione oggettiva, sia da parte di Steck (nonostante l’uso teorico di GPS all’inizio – vedi parte 6) che dai membri al Campo Base (senza immagini time-lapse durante la notte). Si può concludere tuttavia, sulla base di questi elementi vaghi, che Steck è stato in grado di salire al di sopra dei 7000 m durante la notte più velocemente e su terreno più difficile di quanto fatto da lui sotto i 7000 m durante il giorno. Se Ueli è stato almeno due volte più veloce dei due team francesi (Beghin/Lafaille 1992 e Benoist/Graziani 2013) nella parte bassa della parete, nella metà superiore (durante la notte) lo svizzero risulterebbe almeno 3 volte più veloce (per i francesi sono stati necessari 2 giorni e mezzo solo per la headwall nel 2013, salendo di giorno; Steck circa 6.45 ore dal suo campo verso l’alto).
Il tempo di discesa di Steck dalla cima al suo bivacco (da 8091 m a 6900 m) è stato di 3 ore, con 8 doppie Abalakovs per tutta la parete (senza lasciare nessuna vite da ghiaccio o altro…) Graziani/Benoist hanno avuto bisogno di due giorni per la stessa sezione, compiendo la discesa in corda doppia e usando la maggior parte del loro materiale.
4. Le condizioni meteo eccezionali riportate che hanno permesso la salita non sono state confermate da nessuna foto: nel pomeriggio dell’8 ottobre e quindi la mattina del 9, nessun segno di uno strato sottile di neve che copriva il muro principale [come riportato da Ueli, NdR]. Comunque, una comparazione di immagini nei pressi dell’inizio della headwall mostrano migliori condizioni di ghiaccio per lo svizzero che per i francesi del 2013 (nel 1992 i francesi avevano di gran lunga condizioni più secche).
5. Ci sono tre dichiarazioni contraddittorie per questa salita:
– sulla vetta: quattro versioni diverse (nella prima Ueli riferisce di aver controllato grazie all’altimetro, nella seconda (che corregge la prima) Steck accenna a essersi fermato alla seconda delle tre cornici di vetta; nella terza Steck dice di essersi fermato direttamente sulla cresta sommitale appena uscito dal lato sud, una quarta mostra disegni della via che si fermano all’Anticima est;
– la perdita della fotocamera: due versioni (una a 6700 m; l’altra dopo aver passato i 7000 m sull’headwall);
– il numero di calate in doppia, Ueli ha fornito tre versioni (8 doppie ad Andreas Kubin, 10 a Manu Rivaud, 4 o 5 a Stephan Siegrist).
6. Pur essendo una condizione molto soggettiva, può essere degno di menzione il fatto che Steck non abbia manifestato alcun segno di stanchezza dopo la salita. Ha corso verso l’ABC per il CB il 9 ottobre. Ha compiuto la consueta sessione di training la mattina dopo con Patitucci. Poi direttamente a Pokhara il giorno 11. Solo la sera del 9, Patitucci dice che Steck andò a letto prima degli altri, durante la festa in onore della sua impresa.
Il report dettagliato e completo di Rodolphe Popier può essere letto qui.
Cause della morte di Tomek Mackiewitz
di Ludovic Giambasi
(comunicato ufficiale di Ludovic Giambasi, manager di Élisabeth Revol)
(pubblicato il 2 febbraio 2018)
Dopo aver parlato con Élisabeth, ecco la mia opinione sulla patologia che è stata probabilmente causa della morte di Tomek.
Tomek era malato da alcuni giorni, con problemi digestivi. Come ogni altro problema di salute, anche minimo, questo ha influenzato la capacità del corpo di acclimatarsi.
Élisabeth ricorda molto bene l’enorme fatica che Tomek ha mostrato al suo arrivo sotto la vetta con l’aumento di ritmo respiratorio. Ciò è dovuto alla dispnea (anormale mancanza di respiro sentito, uno dei primi segni di HAPE (edema polmonare di alta quota).
Immediatamente, all’inizio della discesa, Tomek aveva una tosse associata a dispnea, un segno di irritazione alveolo-bronchiale dovuta alla presenza di liquido negli alveoli polmonari (essudato dai vasi). In questa fase, l’evoluzione patologica è sistematicamente fatale in assenza di una discesa veloce di quota, in quanto tutto il meccanismo di acclimatazione è sconfitto.
La cecità di Tomek può essere stata causata da diverse cose (oftalmia della neve o emorragia o problema di ischemia retinica, in questo contesto). Lo stato di Tomek è quindi peggiorato nonostante la discesa intorno ai 7300 metri.
Si può immaginare che Tomek avesse una soglia di acclimatazione (altitudine al di sopra della quale il suo corpo non è in grado di acclimatarsi fisiologicamente) che era tra l’altitudine massima raggiunta da Tomek in passato e la cima del Nanga Parbat (soglia inferiore, comunque, a causa dello stato infiammatorio puntuale dovuto al suo problema gastrico.
Elisabetta descrive molto bene di aver notato “tracce di sangue nella barba di Tomek…”: è il sintomo finale dell’edema polmonare… un ”essudato schiumoso rosa” che corrisponde alle secrezioni bronchiali, con un po’ di sangue dalle lesioni alveolari.
L’HAPE di Tomek era nella sua fase finale, la sua saturazione di ossigeno doveva essere particolarmente compromessa e la sua capacità di progredire a causa della mancanza di carburante (= ossigeno) al suo minimo.
Sembra che Tomek non abbia avuto edema cerebrale in alta quota perché non ci sono segni neurologici presenti in quello che mi dice Élisabeth: è rimasto coerente, non delirante e cosciente fino a molto tardi.
Tomek molto probabilmente è morto nelle ore successive (3, 4, 5 ore) addormentandosi senza soffrire affatto.