Montagna magica – 03

Il sito Montagnamagica.com, associato al portale Sherpa, è in dismissione. Nella sua vita di otto anni (dal 2016) ha pubblicato più di una cinquantina di post sull’alpinismo, in genere extraeuropeo. Abbiamo deciso di riprenderne i migliori, in cinque puntate. Tutti gli articoli, a parte quelli diversamente attribuiti, sono di Federico Bernardi.

Primavera amara in Himalaya
(pubblicato il 4 giugno 2019)

Everest 

Salendo in coda verso la vetta dell’Everest e accanto a resti umani

Ormai da qualche anno, il dibattito attorno a ciò che è diventata la stagione primaverile sui versanti nepalese e cinese dell’Everest ruota in circolo attorno agli stessi problemi:

– numero enorme di permessi concessi dalle autorità (soprattutto quelle nepalesi, con quasi 400 permessi di salita per stranieri, il che significa oltre 1000 persone in vetta, contando sherpa e guide);

– spregiudicatezza e incompetenza di molte agenzie locali, materiali tecnici difettosi o insufficienti;

– livello di preparazione di molti clienti sotto la minima soglia non di sicurezza ma del ridicolo;

– utilizzo sconsiderato dell’ossigeno, con erogazione eccessiva sin da quote non elevatissime e conseguente rischio di esaurimento o erogazione insufficiente durante il percorso di discesa e alle quote più critiche;

– incidenti causati dalle lunghe file sulle corde fisse nella zona della Morte – ovvero sopra Campo 4, posizionato sui 7900 metri di quota – (incidenti mortali legati all’80% a ossigeno mancante e mancato acclimatamento sufficiente);

– inquinamento spaventoso dal Campo Base, vero e proprio villaggio con migliaia di presenze fino alla vetta;

– eccessiva esposizione sui media di notizie relative a presunti nuovi record, prove di endurance varia e spettacoli d’arte varia (?!).

Francamente, non mi interessa molto parlare degli incidenti mortali, se siano in linea con le statistiche o siano in aumento. Sono stati relativamente pochi, considerate le potenzialmente esplosive condizioni sulla montagna, l’impreparazione dei clienti, i furti di bombole d’ossigeno lungo il percorso e l’affollamento mostruoso. 

David Göttler, alpinista professionale e di grande talento, ha recentemente pubblicato una riflessione (sul suo profilo facebook, 1 giugno), dove prende una posizione netta – che personalmente condivido (con alcuni piccoli distinguo):
nel contesto dello scalare gli Ottomila, non usare l’ossigeno [da quando Messner e Habeler scalarono l’Everest senza] dovrebbe essere il gold standard per ogni atleta professionista. Usare l’ossigeno supplementare è considerato doping in tutti gli sport, e scalare un Ottomila non è diverso. Non applaudiamo atleti che fanno uso di doping in altri sport, allora perché si continuano ad acclamare imprese effettuate con l’ossigeno su queste montagne?”

Da notare che David ha tentato l’Everest senza ossigeno lungo la via normale, ritirandosi a circa 8700 metri per non incorrere nel rischio di rimanere intrappolato nelle lunghe code di “jumarer” (clienti delle spedizioni commerciali), consapevole ovviamente che il periodo scelto era il peggiore – ma avendo un permesso inutilizzato e ancora valido lungo quella via, ha comunque voluto provare. 

Quest’anno, a parte Göttler, solo Cory Richards e Esteban Mona hanno tentato senza ossigeno, lungo una parziale via nuova, sul versante nord; si sono ritirati dopo un tentativo terminato a circa 7600 metri, per mancanza di finestre di tempo stabile, dopo oltre 1 mese e mezzo di preparazione.

Nello stesso tempo, moltissimi media di montagna e alpinismo hanno rilanciato decine di aggiornamenti su presunti clamorosi “record” a opera di un ex Gurkha-Sherpa, consistenti nel salire e scendere in massima velocità, con abbondante uso di sherpa a battere strada e preparare le corde, elicotteri per trasferimenti tra Campi base, e ossigeno a profusione.

Altro “record”, una “traversata” Everest-Lhotse – che tale non è assolutamente, parliamo del classico uso di C3 per salire all’Everest via jumar, tornare giù, salire le corde fisse fino alla cima del Lhotse sempre con abbondante uso di ossigeno supplementare.

Qualunque chiacchiera sulla “sicurezza”, o sul fatto che non essendo l’alpinismo uno sport l’uso dell’ossigeno non è dopante ma usato “esclusivamente” per evitare edemi polmonari, ipossia, ecc., lascia veramente il tempo che trova.

L’uomo ha dimostrato di poter, al limite delle proprie forze, salire gli Ottomila senza usare l’ossigeno, lo ha fatto con materiali tecnici ridicoli rispetto al presente, senza poter contare su previsioni meteo precise come ora, senza gps, medicinali salva vita, ecc. Usare O2 a 8000 metri, è dimostrato scientificamente, equivale a essere poco sopra i 6000 metri.

Certamente, non pensiamo vada vietato tout court l’uso dell’ossigeno – ma riteniamo che i media debbano smettere completamente di tenere accesi i riflettori su coloro che cercano “imprese” e “record” con questo sistema.

Riguardo alle limitazioni di permessi, anche qui, non siamo per il purismo né un facile giudizio sommario che non considera l’economia del Nepal, che è ipocrita rispetto a tutto il resto, ecc., ma sarebbero sufficienti criteri più stringenti nel concedere i permessi, come il requisito obbligatorio di dimostrare di aver scalato almeno un 7000 e un altro 8000, anche alzando i prezzi. 

Sappiamo però che è un discorso sostanzialmente inutile, che si scontra con la brutale realtà di un paese come il Nepal in cui il Governo e centinaia di altre persone coinvolte non hanno alcun interesse a diminuire il circo di agenzie, hotel, ostelli, servizi di ogni genere, business relativo ai soccorsi in elicottero, ecc.

E’ amaro, ma non vediamo all’orizzonte alcun tipo di miglioramento in questo e se vogliamo essere sinceri, fino alla brutalità, vogliamo meravigliarcene, quando nei nostri “avanzati” paesi civilizzati siamo soffocati da plastica, inquinamento, motori e i nostri Governi disattendono completamente qualsivoglia obiettivo di contrasto al Global Warming e ai suoi effetti? 

L’Everest è il nostro specchio, non ci piace quello che vediamo, ma in un qualche senso siamo tutti noi. Riflette tutte le contraddizioni di una società globale colpita dagli stessi “bisogni”, da una vita completamente in disarmonia con la natura che cerca poi un improbabile senso “puro e cristallino” su di una montagna, per quanto sacra in tutti i sensi. 

Noi tutti, non i “corrotti funzionari nepalesi” o “i finti sherpa” o “le guide americane che fanno pagare 80.000 $”.

Stile Alpino sugli Ottomila
E’ il grande “sconfitto”, almeno in questa stagione. Pochissime spedizioni e tutte tornate indietro, fortunatamente senza incidenti.

Adam Bielecki e Felix Berg hanno dovuto rinunciare non solo al Langtang Lirung – duro 7000 propedeutico alla preparazione – ma anche alla parete nord-ovest dell’Annapurna, obiettivo iniziale. Condizioni durissime meteo, di neve e roccia non buona, hanno fermato i due dopo un mese di tentativi.

Come sopra detto, Cory Richards e Esteban Mona hanno rinunciato alla parziale via nuova sull’Everest in stile alpino, versante nord.

La terza, interessante spedizione di Hamor, Colibasanu e Gane si è ritirata dal tentativo alla cresta nord-ovest del Dhaulagiri, dopo aver combattuto e scalato lo sperone iniziale e giunta poco sopra i 6000 metri.

La parete nord-ovest dell’Annapurna. Foto: Adam Bielecki.

Settemila: dal trionfo sul Chamgal al dramma sul Nanda Devi 

Ufoline di Holeček/Hák. Foto: Marek Holeček.

Il duo ceco composto da Márek Holeček e Zdeněk Hák ha portato a termine una stupenda nuova via sulla inviolata parete Nord-Ovest del Chamlang, vetta di 7319 m situata nella parte sud del Mahalangur Himal dell’Himalaya nepalese. Il 21 maggio la vetta dopo la via verticale di 2000 metri UFOLine; sono rientrati al campo base dopo 8 giorni e una discesa difficile, senza cibo e in condizioni meteo difficili, con molta nebbia.

Márek Holeček e Zdeněk Hák in vetta al Chamgal. Foto: Marek Holeček.

Sul Nanda Devi East, la tristissima notizia di questi giorni è quella della valanga che ha ucciso ben 8 alpinisti – 4 britannici, 2 americani, un indiano e un australiano – i cui leader e guida era l’esperto alpinista scozzese Martin Moran.

Gli otto stavano tentando la salita di un picco innominato di circa 6400 metri nella zona; dopo il mancato ritorno al campo base, Mark Thomas, l’altra guida inglese esperta della spedizione al Nanda Devi, assieme ai rimanenti membri, hanno effettuato una prima ricognizione scorgendo tende vuote e notando i segni di una grande valanga nella zona presumibilmente salita dal gruppo.

Ulteriori ricerche del team di soccorso indiano via elicottero hanno purtroppo confermato la presenza di 5 corpi e i segni di una enorme valanga.

Martin Moran era una guida, alpinista ed esploratore veramente esperto, anche prolifico autore di decine di pubblicazioni sull’American Alpine Journal (vedi ad esempio qua) in merito a interessanti e poco conosciute montagne di 6000 metri e oltre da lui scalate.

Nanda Devi West. Foto: Wikipedia.

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Nanga Parbat: Cala Cimenti racconta la sua spedizione
(pubblicato il 15 luglio 2019)

Il 3 luglio 2019, vari alpinisti di differenti spedizioni hanno raggiunto la vetta del Nanga Parbat, sulla via Kinshofer (cosiddetta “normale”). Tra queste spedizioni, quella dell’italiano Carlalberto Cala Cimenti in team coi forti russi Vitaly Lazo e Anton Pugovkin, che avevano l’obiettivo di scalare senza ossigeno, effettuare riprese col drone e scendere con gli sci dopo la vetta; poi la spedizione “Project Possible”, alquanto controverso progetto di un ex Gurkha, Nirmal Purja, che con una poderosa campagna marketing, facente leva soprattutto su sentimenti nazionalistici, approccio militare, ampio uso di elicotteri, bombole di ossigeno e un forte team di sherpa, sta tentando di scalare i 14 Ottomila in 7 mesi.

Da sinistra, Cala Cimenti, Vitaly Lazo e Anton Pugovkin al Campo Base dopo la scalata e la discesa in sci lungo la via Kinshofer del Nanga Parbat

Altri alpinisti presenti: i georgiani Archil Badriashvili e Giorgi Tepnadze, arrivati per primi al Campo Base sul Diamir, i francesi Tiphaine Duperier, Boris Langenstein e Stefi Troguet (in team con Ali Sadpara poi con Nirmal Purja causa infortunio ad Ali Sadpara). C’erano anche lo spagnolo Sergei Mingote e il brasiliano Moses Flamoncini.

Il francese Boris Langestein riferisce di esser salito per primo in vetta il 1 luglio, avendo i francesi optato per non collaborare con le altre spedizioni al lavoro comune di sistemazione corde fisse e traccia sulla Kinshofer; gli stessi francesi hanno riferito di non averle usate “salvo brevi tratti in salita e discesa”. Boris ha lasciato gli sci a 8060 m, è salito in cima, è sceso con gli sci fino a 7800 m: poi, recuperando la compagna Tiphaine che si era fermata, ha raggiunto il C4; da qui, dichiarano di esser scesi per la Kinshofer in sci, salvo un tratto verso C3 di corde fisse di 100 m e ovviamente il muro Kinshofer, verticale e non praticabile.

Il 3 luglio, tutti gli altri in vetta; Cala Cimenti e Vitaly hanno parzialmente disceso in sci la Kinshofer, lo stesso Vitaly ha girato suggestive immagini col drone (è in programma un film entro settembre).

Poi sono cominciate le polemiche, tutte scaturite da dichiarazioni molto discutibili dell’ex Gurkha Nirmal Purja, vedi intervista a Himalayan Times e successivi post su facebook, alquanto autocelebrativi, col solito stile militaresco, nazionalista e piuttosto arrogante. L’ex Gurkha ha praticamente asserito di aver allestito gran parte della via, ha omesso completamente i nomi e il lavoro svolto dal team italo/russo, ha dichiarato che senza il suo team NESSUNO (!) avrebbe raggiunto la vetta, e ha anche postato un breve video dal quale, secondo lui, si capisce che “o guidi, o segui sul Nanga”… oppure (implicito) non sei nessuno.

Nirmal Purja

Cala Cimenti ci ha rilasciato questa intervista, raccontando in dettaglio come ha vissuto la spedizione e i fatti relativi alle varie fasi della scalata. Ha voluto rispondere, molto francamente e senza peli sulla lingua, alle affermazioni di Purja.

Va notato che note polemiche a parte, Cala Cimenti riconosce il valore degli sherpa, l’impresa del francese Langestein e che non è affatto animato da alcun sentimento di rivalsa; si è sentito in dovere di rispondere e fare chiarezza rispetto a troppe dichiarazioni, secondo lui, errate e false.

1. Innanzitutto, complimenti a te, Vitaly e Anton, per l’impresa! La prima domanda parte dall’aver letto un report, pubblicato su The Himalayan Times, di Nirmal Purja, l’ex Gurkha che sta “correndo” per il suo record dei 14 Ottomila in 7 mesi, usando ossigeno, una forte squadra di sherpa e trasferimenti in elicottero sui e tra i Campi Base. Nims non solo auto-attribuisce alla sua squadra il merito di “aver attrezzato la via”, ma sostiene che “senza il nostro [suo, NdR ] team nessuno sarebbe salito in vetta”.
Non cita minimamente il vostro team – cosa che fa pensare – né il fatto che, seguendo la tua cronaca, loro abbiano attrezzato più sopra il C3. Parla dei francesi ma non accenna al fatto che, da quanto si sa, non abbiano contribuito né concordato con voi, i georgiani, gli spagnoli e il team Project Possible dell’ex Gurkha, un piano di collaborazione. Puoi raccontarci come è andata, cosa siete riusciti a concordare, il contributo di ognuno dei team e cosa pensi di tutto questo?
Le dichiarazioni di Nims fanno sorridere chi conosce un po’ questo mondo e la realtà del suo progetto sempre a corto di ossigeno (pecuniario, mentre dall’altra parte di ossigeno ne hanno molto) e bisognoso di nuovi finanziamenti per poter continuare. Sono chiaramente dichiarazioni autocelebrative volte ad attirare l’attenzione dei media e di finanziatori ingenui facili all’abbaglio dell’autocelebrazione.

Dire che senza di loro nessuno degli alpinisti presenti al campo base sarebbe andato in cima mi sembra un po’ presuntuoso e, se vogliamo, anche un po’ offensivo, visto che Nims non conosce minimamente il valore di ognuno di noi, tra l’altro proprio ieri notavo che i due georgiani sono candidati al piolet d’or, ma probabilmente Nims non sa neanche cosa sia… 

Alcuni elementi della sua squadra sono veramente forti e bisogna riconoscere loro il merito di avere svolto un lavoro straordinario attrezzando tutta la via con le corde fisse per il l’85% tra C3 e C4, soprattutto sul lungo traverso verso destra che taglia tutta la parete e che a detta loro era pericoloso, mentre a me il manto nevoso sembrava abbastanza ben assestato, e poi ancora, aprendo l’ossigeno a manetta, di essere saliti come dei razzi, battendo la traccia da C4 fino in cima. Però da qui ad affermare che senza di loro noi non saremmo andati in cima mi sembra esagerato. Sicuramente ci avremmo messo più tempo, sicuramente non avremmo utilizzato così tanta corda fissa tra C3 e C4, ma sono sicuro che saremmo comunque arrivati in cima.

Questa spedizione per me è andata molto bene, mi sono trovato benissimo con la coppia russa e abbiamo formato una buona squadra, molto efficiente e veloce, forte. Non ho mai avuto il presentimento di non arrivare in cima, non ho mai avuto incertezze o paure con loro in montagna, in alta quota, tutto ha sempre funzionato molto bene e in armonia. In più c’era questo diversivo del film che Vitaly voleva girare e quindi ci portavamo dietro sempre del peso addizionale relativo al drone e alle telecamere professionali. Però la soddisfazione di vedere le immagini girate col drone intorno agli 8000 m è unica.

Forse è questo che ha dato fastidio a Nims, il fatto che noi fossimo indipendenti e non ci piegassimo ai suoi dettami che tirava fuori come fosse il padrone del campo. Noi, io e i russi, seguivamo il nostro programma, indipendentemente da quello che facevano gli altri, poi ovviamente abbiamo collaborato e in alcune occasioni abbiamo anche modificato i nostri programmi per venire incontro alle esigenze di tutti e dare il nostro contributo. 

Comunque è andata così: i georgiani sono stati i primi ad arrivare, quasi un mese prima di noi, e in un mese, a causa del brutto tempo e di altro, non sono mai andati oltre il C2, non posizionando mai nessuna corda fissa ma solo sistemando quelle vecchie sul muro Kinshofer.

Quando siamo arrivati noi ci hanno chiesto subito collaborazione e noi eravamo ben felici di collaborare, ma seguendo il nostro programma di acclimatamento che ovviamente non combaciava con il loro che avevano già fretta di andare oltre i 6000 m.

E hanno iniziato un po’ a risentirsi. Dopo 6 giorni comunque partiamo per andare a dormire al C2 portando su delle corde fisse che, d’accordo con i georgiani, sistemiamo nella parte bassa, mentre loro si devono occupare della parte alta, e quindi collaborando.

Dopo dieci giorni circa siamo già pronti per fare il secondo e ultimo giro di acclimamento e andare a dormire al C3 e magari al C4.Tutto sotto l’attenta supervisione dei georgiani che partono un giorno prima perché per loro è già troppo aspettare un giorno in più.

Nel frattempo, qualche giorno prima, arrivano al campo base Stefy Troguet [alpinista andorrana] accompagnata da Alì Sadpara, il vero signore di questa montagna e persona rispettabilissima e piacevole. Come vero signore della montagna, prende in mano la situazione e inizia a coordinare e riesce ad ottenere l’aiuto di un portatore d’alta quota, che era lì al servizio di un turista australiano, per portare fino al C2 400 m di corda che servirà poi ai georgiani per attrezzare sopra al C2.

‘Sto poveretto poi scendendo scivolerà su un pendio ripido con la corda attorcigliata alla mano, rompendosela e mettendo fine alla sua stagione lavorativa.

In tutto questo Nims non è ancora arrivato, o meglio arriverà la sera prima della nostra partenza alle 2 del mattino per il lungo tragitto fino al C2.

Arrivo al C2 proprio nel momento in cui i georgiani (che erano partiti un giorno prima) rientrano in tenda dopo una giornata di lavoro ad attrezzare verso il C3, dicono che hanno attrezzato un sacco di via almeno fino a 6400 m, in realtà non hanno posizionato alcuna corda fissa, ma solo disseppellito delle vecchie che non sono proprio in buono stato e sicuramente non sono arrivati a 6400 m. Massimo a 6300 m.

Subito dicono che vogliono parlarci per mettersi d’accordo per l’indomani, hanno paura di fare un attimo più di fatica del dovuto, mi chiedono e mi stressano, alla fine dico loro di parlare con Vitaly che è lui l’expedition leader, ed effettivamente lui è più diplomatico. Rimaniamo d’accordo che il giorno dopo partiamo noi per primi, finalmente si rilassano.

Il giorno dopo la mattina nevica forte e tira vento, proviamo comunque a salire ma dopo mezz’ora Anton ci richiama a più miti consigli e ci fa rientrare in tenda. Il giorno dopo ancora il tempo è bellissimo, partiamo alla volta del C3 a c. 6600 m. Si vede lontano un miglio che i georgiani attendono, fanno melina e aspettano che partiamo perché non sia mai che facciano un po’ più di fatica di quella che devono… Noi svolgiamo il nostro programma: riprese col drone, riprese con la macchina foto e poi partiamo. Anton come sempre ultimo a chiudere il gruppo e controllare che tutto vada bene e poi risistemare eventuali corde fisse sistemate male: l’angelo custode. Vitaly invece in mezzo che perde tempo con inquadrature e riprese, e io che scalpito per salire veloce.

Chiaramente gli zaini sono pesanti ma io mi sento stranamente bene, salgo veloce, percorro tutto il tratto liberato dai georgiani ma mi stupisco che sia così breve, poco male, tanto la neve del giorno prima aveva coperto la vecchia traccia e ho dovuto ribattere tutto, quindi continuo, sempre io in testa, inizio a liberare la vecchia corda fissa e metro dopo metro mi accorgo che posso utilizzarla fino a quasi il C3: chiaramente a volte è sotto la morsa del ghiaccio e mi devo fermare a liberarla. Finisce il tratto di roccia e inizia la parete ghiacciata che in 200 m di dislivello porta al C3. Non molla mai, è ripida, a volte è di ghiaccio blu e a volte è ricoperta da uno strato leggero di neve che facilita il compito, comunque anche qui la corda fissa è da liberare da neve e ghiaccio. Svolgo sempre tutto io il lavoro e nel tardo pomeriggio siamo a montare la tenda al C3. Qui ci fermeremo 2 notti, poi tutti giù al BC in un giorno.

Devo segnalare anche, sotto il muro Kinshofer, alcune corde fisse sistemate male dagli sherpa, che nel frattempo si sono mossi fino al C2 facendo dei depositi. Naturalmente Anton ha dovuto fermarsi e perdere un sacco di tempo ed energia per risistemarle, e io mi sono sentito tutta una serie di bestemmie in russo quando poi ci ha raggiunto al C1.

Arrivati al BC, il tempo di versarci una tazza di tè e arriva Nims a presentarsi con Alì e dopo i convenevoli ci chiede subito che tipo di lavoro avevamo fatto e quanta corda fissa ci fosse su, ecc. 

Di tutto questo lavoro fatto fin qua però Nims nel suo report non tiene conto. Non importa, noi due giorni di riposo e poi saremo pronti per l’attacco alla vetta. Concordiamo con Nims un giorno per partire per la cima, che poi verrà spostato per due volte per beccare la finestra di tempo favorevole ma anche per venire incontro alle esigenze dell’acclimamento di Stefy. Comunque il giorno prefissato e definitivo è il 30 giugno. Arrivano anche a popolare il BC come ultimi ospiti lo spagnolo Sergi Mingote, l’italiano Mattia Conte e il brasiliano Moses Flamoncini. Mattia è il meno acclimatato dei tre, arrivando direttamente da Milano, quindi decide di non cercare di seguire tutti sulla vetta ma di seguire un suo ciclo di acclimatamento diverso, mentre Sergi e Moses esattamente un mese prima erano in cima al Lhotse, quindi possono permettersi di fare come gli sherpa, di partire subito per la cima.

Partiamo tutti il 30 giugno, gli sherpa a mezzanotte, Sergi e Moses alle 2, noi alle 4. Arriviamo per ultimi chiaramente e volutamente, e appena il tempo di montare la tenda, entrarci e fare un pisolino che Nims viene a bussare alla porta e vuole parlare con me. Ma perché tutti vogliono parlare con me penso, è Vitaly il capo spedizione. Comunque gli apro e mi dice che l’indomani noi dobbiamo aprire la traccia con tutti gli altri (Sergi, Moses, i georgiani) che poi loro, gli sherpa, ci pensano loro dal C3 in su e che devo portare pure su 150 m di corda.

I russi lo mandano educatamente a cagare, mentre io, più diplomatico, gli spiego che l’indomani mattina dobbiamo fare delle riprese col drone, ecc. e che poi volentieri avrei dato il mio contributo, partendo dopo ma con la traccia già fatta avrei raggiunto la testa del gruppo e avrei collaborato, solo che non avevo fatto i conti con lo zaino pesantissimo e che alla fine non mi ha permesso di raggiungere la testa del gruppo per quanto mi sforzassi, ma di rimanere sempre ad un tiro di corda di distanza, facendo sembrare da dietro che facessi melina e non volessi apposta raggiungere la testa del gruppo. Anton mi aveva anche detto di fregarmene e di non prendere la corda, che loro due di sicuro non la prendevano, ma io invece sono troppo buono e l’ho fatto per mantenere buoni rapporti.

Arrivati al C4 sono anche stato redarguito da Nims che non avevo fatto il mio dovere, ecc. C’è mancato poco che non gli tirassi la sua cazzo di corda in faccia. Il giorno dopo, dal C3 fino alla cima nulla da dire, hanno fatto un ottimo lavoro.

Vitaly Lazo, selfie sulla cima del Nanga Parbat
Cala Cimenti, selfie in cima sul Nanga Parbat

Per quanto riguarda i francesi, loro hanno sempre giocato un po’ fuori dal gruppo, arrivavano dalla cima dello Spantik e dalla sua probabile prima discesa con gli sci, quindi erano già abbastanza acclimatati, poi hanno ultimato la loro fase di acclimamento sul ghiacciaio Diama, costeggiando tutto il versante Diamir e salendo sulle pendici del Nanga Parbat da un altro versante, arrivando fino a quota 7400 m alla ricerca di una possibile nuova linea di discesa che avrebbero anche trovato. Loro hanno dichiarato fin da subito che non avrebbero usato le corde fisse e così dicono di aver fatto, sollevando i dubbi di praticamente tutti al BC.

Avendo tempi diversi di acclimatamento, non hanno aspettato la partenza comune ma sono partiti prima per il tentativo finale alla vetta dalla via Kinshofer. Il giorno che noi siamo partiti per il C2 loro stavano facendo il primo tentativo di cima e alle 19 stavano ancora salendo intorno a quota 7900 m nella bufera. Racconteranno poi che sarebbero arrivati intorno a quota 8000 e scesi poi nella notte col brutto tempo e senza lampada frontale fino al C4, che trovare la tenda era stata un’impresa. Il giorno dopo hanno riposato e poi il giorno dopo hanno provato di nuovo, Boris è arrivato in cima e Tiphaine si è fermata a 7800 m. Noi eravamo appena arrivati al C3 e li vedevamo scendere dal pendio sommitale. Il giorno dopo sono scesi fino al BC e noi li abbiamo incontrati sul traverso che porta al C4. In totale hanno passato ben 4 notti a 7200 m. Che assi. Scendendo sotto al C3 poi, per non togliere gli sci, hanno fatto una variante alla via di salita scendendo su lingue di neve in mezzo a paurose zone di ghiaccio blu. Onore al merito, sono stati bravi. Devo anche fare una correzione ad una mia insinuazione precedente in cui asserivo che avevano usato le corde fisse posizionate da noi, e quindi sfruttato il nostro lavoro senza contribuire neanche un minimo. Ebbene, ecco il chiarimento che abbiamo avuto direttamente su Messenger

Tiphaine Duperrier: Hi Cala! Thanks for your text, it’s very of you. I can certify that we didn’t use the fixed ropes after camp 2. We were roped together and protect ourselves on the ice wall. Was so painfull! 
For the descent, we’ve just hold on the rope for 100m. Was too icy to ski. 
Would be nice to talk in front of a beer as you said, then you are welcome in val d’Isère for a ski session…
Anyway, I wish you the best for the next part of your trip, I hope everything will be fine. 
Tiph

Sulla Kinshofer. Foto: Vitaly Lazo.

Alla fine di tutto questo penso che io ho scalato il Nanga Parbat con i miei compagni ed è stato grandioso, ho condiviso questo viaggio con vecchi amici come Sergi, con nuovi come Moses e Mattia e, perché no, anche con i georgiani, e poi ho avuto modo di conoscere Stefy, e questo fenomeno strano che è Nims, che diciamo che proprio alpinista non è, e poi ho reincontrato sherpa che già conoscevo e con cui abbiamo riso e scherzato. Del Nanga mi rimarranno emozioni forti e questa incredibile sciata sotto le stelle. Di quello che dicono gli altri o dei meriti che si prendono non me ne curo più di tanto.

2. Dal tuo primo racconto, sappiamo che hai compiuto circa 600 metri in discesa con gli sci (da 8060 m a circa 7400 m?); per quanto riguarda il resto della Kinshofer, che tratti sei/siete riusciti a sciare?
Abbiamo sciato dal C4 fino al C3, poi senza sci fino a sotto il muro Kinshofer, quindi sotto al C2 e poi di nuovo sciato fino alla fine della neve o del ghiaccio.

Vitaly Lazo, Nanga Parbat

3. Detto che una discesa integrale della Kinshofer è virtualmente impossibile, non fosse altro per il famoso tratto di muro verticale tra C1 e C2, sono molto curioso della linea che avevi immaginato a fianco o in prossimità del Mummery. E’ possibile, secondo te, con le giuste condizioni meteo, una discesa quasi integrale fino al ghiacciaio?
Sì, è possibile ed è già anche stata realizzata, ad esempio hanno sciato la via che Messner fece in salita in solitaria in cinque giorni. La linea che avevo preso in considerazione io purtroppo era per metà ricoperta di ghiaccio. Chissà, magari in futuro e con le giuste condizioni di innevamento qualcuno la farà. 

4. Il vostro team mi è apparso molto affiatato e con uno spirito molto più sereno e scanzonato degli altri protagonisti sul Nanga; avete affrontato momenti duri e drammatici assieme, non solo la gioia della vetta: come è andata con Vitaly e Anton, cosa ti rimane umanamente di questa esperienza durissima?
Durante questa spedizione Mattwey, il cameraman che è rimasto al BC, mi ha fatto un sacco di interviste e in una di quelle finali mi ha fatto più o meno la stessa domanda, e io ho risposto quasi di getto dicendo che prima eravamo una squadra (team), adesso siamo amici. Ci siamo incontrati ad Islamabad che quasi non ci conoscevamo, poi giorno dopo giorno ci siamo avvicinati sempre di più, io sono entrato nelle loro dinamiche di coppia già affiatata in montagna e loro hanno incominciato sempre più ad apprezzare le mie qualità. Alla fine siamo diventati molto di più che una squadra, amici appunto.

5. Non è un argomento semplice ma vorrei chiederti se hai percepito in qualche modo, a livello mentale o emozionale la presenza di Tomek Mackiewicz, di Daniele Nardi e Tom Ballard; o se nei momenti drammatici, come la valanga che vi aveva quasi colpito, hai pensato ai rischi su un Ottomila come questo.
Quando scali un 8000 è inevitabile fare pensieri sulla morte, ho perso diversi amici sugli 8000, e più che la presenza di Tomek o Nardi, che non conoscevo, il mio pensiero, quando sono su questi colossi Himalayani, va a loro.

6. So che non è affatto finita la tua esperienza in Pakistan: ci racconti del trekking e di cosa stai per affrontare, dopo le fatiche sulla parete Diamir?
Ora mi sposterò nel Baltoro, dopo il trekking che mi porterà al campo base dei Gasherbrum, con un mio amico che mi raggiungerà dall’Italia, proverò a scalare e poi a scendere con gli sci una montagna ancora inviolata. Più bassa rispetto al Nanga Parbat, 6900 m, ma sarà una spedizione diversa, con ancora il sapore dell’esplorazione e senza avere assolutamente la certezza della riuscita. In ogni caso la cosa più importante è sempre e solo una: tirare delle belle curve in alta quota, e poco importa chi ha posizionato le corde fisse e quanti metri…
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Nirmal Purja e la bandiera del Kuwait sull’Ama Dablam
(pubblicato il 27 novembre 2019)

Project Possible: bandiera kuwaitiana sull’Ama Dablam 

Pochi giorni dopo aver annunciato al mondo di aver completato la sua incredibile sfida presentata la scorsa primavera – scalare tutte e 14 le montagne più alte di 8000 metri in 7 mesi – Nims Purja è tornato alla ribalta dei media internazionali in modo clamoroso, rumoroso e spettacolare:

il 13 novembre, sull’Ama Dablam, iconica montagna nepalese di 6832 m, una gigantesca bandiera lunga 100 m e larga 30 m, viene esposta e srolotata dalla cima, sulla parete sommitale, visibile a oltre 10 km di distanza dalla valle 3 km più in basso, filmata da elicottero.

La bandiera è del Kuwait: un team di “climbers” kuwaitiani – quasi tutti senza alcuna esperienza pratica in montagna, dal nome altisonante di Kflag Heroes – sponsorizzati dal colosso petrolifero Q8 e altri, si è rivolta alla agenzia “Élite Himalayan Adventures”, diretta da Nirmal Purja e composta da fortissimi sherpa, per ottenere un “Guinness Record”.

Solo uno dei kuwaitiani sembra sia riuscito ad arrivare in vetta, Yousef Alshatti, idolo locale di “Spartan Race” di 35 anni, ex membro delle Forze Speciali e “brand ambassador” per il ricco emirato che si affaccia sul Golfo Persico. 

Yousef Alshatti, “Spartan Athlete” e… climber (?). Foto: ub-cool.com.

Tutto il pericoloso lavoro nel trasportare carichi da 25 kg fino in cima (la bandiera era composta da 6 parti, per un peso totale di 150 kg) e l’esibizione di patriottismo kuwaitiano sono stati fatti.. da nepalesi!

Chi è Nirmal Nims Purja e cosa è stato “project possible”
Nirmal Nims Purja ha 38 anni, è nato in Nepal e cresciuto nella parte meno montagnosa del paese, in una famiglia molto modesta.
Ha servito per anni come militare in un reparto di élite, i famosi Gurkha; poi, primo ex Gurkha nella storia – con passaporto britannico, da tempo – è stato selezionato come membro del corpo d’élite più duro e famoso dell’Esercito Britannico: lo Special Boat Service.

Nel 2012 Nirmal comincia ad appassionarsi alla montagna, scala il Lobuche East inizialmente come parte del training militare, specializzato in guerra di alta montagna. In pochi anni scala vari Ottomila e nel 2018 prende una decisione clamorosa: si congeda in anticipo dallo SBS, rinunciando a 500.000 sterline di liquidazione, e si dedica totalmente a una impresa folle che chiama “Project Possible”; scalare tutti e 14 gli Ottomila in 7 mesi. E’ riuscito nell’impresa nel tempo record di 6 mesi e 6 giorni.

Una impresa assolutamente eccezionale e storica, da ogni punto di vista; sia per l’impegno finanziario, sia per quello logistico – organizzare elicotteri, permessi, trasferimento di materiale, allestimento dei campi base, sia per lo sforzo fisico, sostenendo anche due missioni di salvataggio di scalatori in difficoltà in zona della morte; infine anche per quello mediatico e diplomatico: Nirmal Purja ha dovuto lottare a lungo per ottenere, finalmente, uno speciale permesso dalle Autorità Cinesi per scalare lo Shisha Pangma (chiuso alle spedizioni autunnali per decisione del Governo cinese), l’ultimo rimasto nella sua lista.

Nirmal Purja in vetta al Gasherbrum II. Foto: ProjectPossible-Nirmal Purja.

Elogi e critiche al Project Possible
Nims ha sempre dichiarato apertamente – e anche questo va detto, a suo favore – di far uso di ossigeno, elicotteri, corde fisse e un team senza il quale non avrebbe mai potuto compiere una simile impresa; ha anche però affermato, in modo un po’ ambiguo, che il suo non è un progetto individuale ma per tanti nepalesi, a cui dà lavoro, per lo sviluppo e la promozione del turismo in Nepal e anche per l’attenzione all’ambiente, dichiarando di porre sempre in primo piano il lasciare la montagna il più possibile come l’ha trovata, smontando le corde fisse e i campi alla fine di ogni sua spedizione.

Ovviamente, ha ricevuto sia entusiasti elogi che dure critiche; la maggiore ha a che fare con lo “stile pesante” di cui abbiamo detto sopra e non solo in montagna: anche nel rapporto con i media – ben poche interviste concesse, molte dichiarazioni e video sui social dove mostra il suo lato più “spaccone” o quello di derivazione militare, tutto orgoglio e per il fatto che tuttora, dopo aver terminato la sua impresa, non ha presentato pubblicamente dettagli sul suo record: foto e video di vetta di alcuni degli 8000 su cui è stato impegnato non risultano essere stati condivisi.

Reinhold Messner, leggendario primo salitore di tutti i 14 Ottomila senza ossigeno, ha dichiarato: “Nirmal ha lanciato una sfida diversa, per dimostrare che i nepalesi sono oramai in grado di prendere la leadership della scalate himalayane […] a great capacity for economic management, leadership, logistics organization. And obviously, exceptional physical resistance”.

Simone Moro, alpinista veterano e maestro nelle scalate invernali sugli 8000, organizzatore ed elicotterista, ha scritto che “Io dico che Nirmal è stato davvero bravo, che ha fatto un qualcosa che finalmente spazza via tutti gli eroi di qualche ottomila […] Per chi invece ama un alpinismo diverso, oltre che ringraziare Nirmal Purja e complimentarsi (mettete da parte il vostro orgoglio e toglietevi il cappello) cominciate a pensare a cosa si potrebbe e si deve fare di diverso rimettendo ora al centro il vostro ‘come’ e il vostro stile”.

Sir Chris Bonington, il grande alpinista inglese ha invece dichiarato: “Quello che ha fatto è certamente straordinario, ma non è alpinismo. L’alpinismo vero è esplorativo – trovare nuove vie su grandi cime… Non vedo quello che ha fatto Nims come un grande evento”.

Stephen Venables aggiunge: “Il fatto che abbia usato ossigeno supplementare diminuisce il valore dell’impresa. So che ha anche usato corde fisse. Non è esattamente alpinismo, se ho capito bene… Sarà certamente nel Guinness dei primati ma, nella storia dell’alpinismo, sarà solo una nota a piè di pagina”.

L’agenzia “Élite Himalayan Adventures” e il kflag “guinness record”: quale futuro?
Nirmal Purja ha scelto una missione molto spettacolare ma controversa, una esibizione di puro orgoglio nazionalista, per evidenti ragioni commerciali. Non c’è nulla di male nel voler recuperare i grandi sforzi economici sostenuti negli ultimi mesi ma quello che colpisce è stata una certa sottovalutazione dell’impatto negativo sulla sua immagine.

Nims ha “dovuto” fare un lungo post per controbattere le critiche, asserendo “che sì, aveva aiutato gli amici kuwaitiani a festeggiare la prossima ricorrenza del Giorno Nazionale in Kuwait che avverrà” e “che la bandiera è stata rimossa dopo un’ora”. Il problema è che il Giorno Nazionale del Kuwait è il… 25 febbraio!

La critica più dura gli è stata fatta direttamente nei commenti della sua pagina ufficiale facebook.

Alexander Hillary, fotografo e alpinista neozelandese, nipote del leggendario Sir Edmund Hillary, primo scalatore dell’Everest, che per i decenni successivi contribuì allo sviluppo, alla educazione e a opere di beneficienza per le popolazioni della zona, ha scritto:

“Purtroppo questo non è del tutto vero Nims. Sto scrivendo questo messaggio dal Campo 1 sull’Ama Dablam e ho sentito che la tua troupe stava chiedendo agli scalatori di andarsene in fretta, per non ostacolarvi. Non solo, tu e i clienti avete lasciato l’Ama Base Camp prima che la tua squadra esausta di Sherpa che portava i pezzi da 25 kg della bandiera tornasse giù. Sono inorridito dalla mancanza di rispetto che avete mostrato ai vostri connazionali e dipendenti, per non parlare dell’inappropriato posizionamento di una bandiera straniera sull’Ama Dablam. Sapevi anche che il giorno in cui hai fatto la tua bravata è stato il giorno santo di Mani Rimdu? La comunità Sherpa non era entusiasta di trovare la bandiera drappeggiata in piena vista, durante la cerimonia al Monastero di Tengboche. Nel complesso, non sono favorevolmente colpito dal tuo comportamento, che è stato irrispettoso. Vergogna su di te.

Sir Edmund Hillary sulla vetta dell’Everest, 1953: sulla piccozza, le bandierine di Regno Unito (nonostante fosse neozelandese, omaggiò la nazione organizzatrice della spedizione), Nepal e Nazioni Unite.

Timmy O’Neill, climber della Yosemite Valley e in quei giorni sull’Ama Dablam, diversamente, ha scritto su Instagram:
“Abbiamo visto come una bandiera massiccia è stata srotolata dalla vetta […] Nessuna ulteriore spazzatura, né alcuna usura extra sulle corde fisse[…] Salendo verso la vetta, ho incontrato un paio di sherpa che portavano giù il carico con i pezzi di bandiera e, naturalmente, ho incontrato la montagna stessa, che era alta, indifferente e sorprendente come sempre”.

Per quanto mi riguarda, non mi sento affatto arrabbiato con Nims ma un po’ amareggiato… Quanti facoltosi ed eccentrici clienti da tutto il mondo chiederanno i servizi di Purja e della sua agenzia per fantasiosi record? E quanto importante e influente potrebbe essere il suo ruolo, per uno sviluppo sostenibile ed economicamente vantaggioso delle spedizioni commerciali in Nepal?

Nella sua ultima dichiarazione sui social, Nirmal Purja annuncia l’intenzione di aprire una nuova via sul Cho Oyu, attrezzarla per spedizioni commerciali dal lato nepalese – in alternativa alle vie sul versante cinese utilizzate fino ad ora – e questa è certamente un’idea per sviluppare una zona molto povera del suo Paese.

Mi auguro per il suo futuro più obiettivi di questo genere, magari anche by-fair-means, e spero che non vi sia ulteriore spazio per pagliacciate buone solo per Il Guinness dei…”Primati”.

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La via perfetta: il libro postumo di Daniele Nardi
(pubblicato il 17 dicembre 2019)

Il libro
La Via Perfetta/Nanga Parbat: sperone Mummery è il libro postumo di Daniele Nardi, scritto con Alessandra Carati (scrittrice, editor e sceneggiatrice) uscito a novembre 2019 per Einaudi.

La tragica morte dell’alpinista laziale e del suo partner inglese Tom Ballard a fine febbraio 2019 sullo Sperone Mummery del Nanga Parbat, ha trasformato quello che doveva essere il racconto di un lungo cammino verso un sogno, in un’autobiografia intima, piena di autocritica, sincera e consapevole, cruda nelle contraddizioni e amara nel racconto dei conflitti e nelle recriminazioni con gli altri; nel contempo, piena di una passione inarrestabile, colma di amore per la propria moglie, di amicizia, stima e rispetto verso gli alpinisti con cui Daniele Nardi ha condiviso scalate impegnative, successi e fallimenti. Una storia piena di cadute e di successivi riscatti, contro avversità ben più temibili di qualche parete: malattie, fisiche e psichiche. Tutto questo, tra imprese alpinistiche di spessore crescente, certamente non da fuoriclasse e in ambienti non banali, di esplorazione vera, soprattutto su vette meno famose ma affascinanti e difficili tra 6000 o 7000 metri, di Karakorum e Himalaya. 

Il gravoso carico emozionale e morale di completare e pubblicare il libro è stato preso sulle spalle da Alessandra Carati: senza precedente passione particolare per le montagne, tantomeno verso l’alpinismo estremo, la sua conoscenza con Daniele Nardi – e con la sua famiglia, il suo ambiente nativo – si era trasformata in un’amicizia che l’ha portata a intraprendere il difficile trekking invernale verso il Campo Base del Nanga Parbat, per condividere alcune giornate con Daniele e Tom, nel dicembre 2018; Alessandra ha voluto, non senza titubanze e problemi, provare veramente cosa significava l’alpinismo estremo invernale. La motivazione, lo spiega nell’intervista a seguire, era proprio capire cosa spinge un uomo a voler affrontare le brutali condizioni invernali su montagne colossali. Daniele, in quei giorni, le mostrò e poi le inviò un’email dove era scritto che se non fosse tornato dalla montagna voleva che lei finisse di scrivere il libro. 

“Perché voglio che il mondo conosca la mia storia”
La prima, netta sensazione al termine della lettura, è che Nardi abbia scritto un racconto sincero, una vera “messa a nudo” – a differenza della gran parte dei libri scritti da alpinisti: pieni di retorica, autocelebrazione o noiosi trattati di motivazione, spesso mancanti di analisi di se stessi, delle proprie contraddizioni e miserie umane. Questo, assieme alla bella narrazione, è abbastanza inconsueto, visto che uno dei maggiori problemi di Daniele Nardi è sempre stato lo stile di comunicazione: spesso guascone e spaccone, carico di drammaticità, sopra le righe, amaro e a volte lamentoso, per la sindrome da isolamento sempre patita, lui alpinista “de Roma”, soprannominato Romoletto da Silvio Mondinelli, nei confronti dell’entourage alpinistico italiano, per la stragrande maggioranza “del Nord”. Con pochi sponsor e grandi difficoltà a finanziare le proprie imprese.

E’ sicuramente grazie al grande mestiere di Alessandra Carati che la lettura scorre piacevole, incalzante e appassionante; l’impianto narrativo è ben strutturato sui cinque tentativi di scalata dello sperone Mummery del Nanga Parbat, il grande indice di roccia che punta dritto alla vetta dalla base del Diamir, circondato da canali di scarico, sovrastato da enormi seracchi glaciali, accessibile soltanto da un ghiacciaio pericoloso e crepacciato. L’incipit di questi tentativi è rappresentato da una mail, affettuosa e preoccupata, di un amico di Nardi, il grande alpinista canadese Louis Rousseau, che tenta di dissuadere il laziale dal progetto del Mummery, con parole e motivazioni toccanti e impressionanti.

Il Mummery: sogno e ossessione di Daniele Nardi, attorno al quale tutto il resto della vita scorre e avviene; per ognuna di queste prove, lo sguardo pensieroso dell’alpinista sulla parete Diamir si sposta e indugia sugli avvenimenti della sua vita, la sua formazione come alpinista, la prima solitaria sulle Grandes Jorasses a 19 anni, frutto di una incontenibile e precoce passione, sviluppata durante le vacanze estive della famiglia sulle Alpi, e maturata quasi da autodidatta, anche sulle friabili e non facili pareti nord dell’Appennino Centrale, sul Gran Sasso e sul Camicia.

Capace di raggiungere l’Everest nel 2004, seppur con l’ossigeno, poi la cima di mezzo dello Shisha Pangma senza ossigeno. Nel 2006 scala il Nanga Parbat per la via Kinshofer e il Broad Peak. Nel 2007 è capospedizione sul K2 e sale in vetta senza ossigeno – ma un compagno di spedizione, Stefano Zavka, non torna più dalla montagna, dopo aver raggiunto la vetta ben dopo il tramonto. 

Nel libro traspare evidente l’autocritica di Nardi, inesperto nella gestione dell’emergenza e soprattutto del “dopo”, nel comunicare quanto è successo alla famiglia di Zavka. Un fantasma che lo accompagnerà a lungo. Il libro prosegue con i racconti asciutti sui passati successi, non indugia sulla descrizione alpinistica delle scalate – tranne per quella che Daniele Nardi ha più amato, la via nuova tracciata sul Baghirathi III con Roberto Dalle Monache, via non conclusa sulla vetta ma notevole nel suo sviluppo e nelle difficoltà su una delle più belle e ambite vette himalayane. 

Paradossalmente, vincendo il prestigioso Premio Consiglio del Club Accademico Alpino Italiano per questa via, Nardi scrive nel libro che proprio qui cominciano “le interferenze” al puro amore per l’esplorazione dell’alta montagna: il suo desiderio di sentirsi accettato e riconosciuto da un ambiente che non lo considera quanto vorrebbe, la sua voglia di rivalsa, la necessità di visibilità cominciano a intaccarne la mente.

La storia dei tentativi di realizzazione del suo sogno, la via dello Sperone Mummery – obiettivo per cui è stato deriso, additato come suicida, esaltato, illuso anche dopo la morte – prosegue tra belle pagine di montagna: specialmente nel racconto del primo tentativo, esaltante del 2013, effettuato in coppia con la grande alpinista francese Elizabeth Revol; il duo toccò il punto più alto mai raggiunto sul Mummery, 6450 metri, a circa 250 metri dalla fine delle difficoltà tecniche e dall’uscita dello Sperone sul “grande bacino”, il plateau a 7000 metri, tra le impressionanti colonne, severe e pericolose, dei seracchi glaciali incombenti. Sono poi narrate le vicende della mancata spedizione assieme a Tomek Mackiewicz ed Elisabeth Revol, il conflitto di visioni e obiettivi che li separa al Campo Base del Diamir; conflitto che viene mitigato, dalle belle parole che Nardi riserva ad entrambi, piene di grande affetto e stima.

1 – via Kinshofer; 2 – Mummery Spur 2013 Nardi/Revol; 3 – Messner 1978; 4 – Allen, Allan vetta dalla cresta Mazeno; 5 – Allen, Allan tentativo Mazeno.

Il capitolo dedicato alla clamorosa rottura con Alex Txikon e Ali Sadpara a inizio 2016, suoi compagni l’anno precedente nel tentativo di prima invernale fallito a duecento metri dalla vetta, è un racconto assai dettagliato di un “conflitto annunciato” a livello umano: i tentativi di Nardi di mediazione tra Bielecki e Txikon, con quest’ultimo assillato da problemi economici, l’incidente in parete dove salva la vita allo stesso Bielecki; la evidente scarsa motivazione di Nardi per la Kinshofer, i primi conflitti con Txikon e Sadpara e la reciproca diffidenza, da subito, con Simone Moro, il fallimento di Elisabeth Revol e Tomek Mackiewicz quando a circa 7300 metri, con la concreta prospettiva di arrivare in vetta per la Messner-Eisendle, si ritirano ricevendo da Moro previsioni del tempo rivelatesi errate, forse la più strana vicenda avvenuta quell’anno. Confermata da Filippo Thiery, meteorologo di Nardi, che gli comunicò che era previsto bel tempo per 3 giorni; si domandava come Karl Gabl – meteorologo di fama, da sempre di fiducia per Moro – avesse potuto sbagliare la previsione [vedi le previsioni di quei giorni]. Mentre la francese e il polacco scesero velocemente il 22 gennaio, il 25 gennaio Nardi, Txikon e Sadpara erano al C3, a 6700 metri, con bel tempo. E la Revol abbandonò il Nanga: non aveva più tempo per riprovare la vetta. La coda polemica e di rottura tra Mackiewicz e Moro fu ancora più amara [vedi Fonti (1) (2) (3) (4) (5)].

Poi la decisione di Moro e Tamara Lunger di aggregarsi alla via Kinshofer. Daniele Nardi ha aspettato tre anni prima di spiegare come secondo lui si arrivò prima alla decisione, poi alla rottura col resto del team, i conflitti con Txikon, la sfiducia totale di Moro vedendo Nardi che registrava i dialoghi, consegnando alla Carati le registrazioni audio al Campo Base e la sua versione. Versione assolutamente discutibile, ovviamente, e di parte: ma nel libro c’è anche questa. E c’è una ulteriore critica a Moro per aver lasciato la Lunger ritirarsi da sola, in difficoltà, il giorno fatidico della prima invernale sul Nanga Parbat.

Al tempo, seguendo quella spedizione giornalmente, non mi sorprese la sfiducia nei confronti di Nardi da parte di Txikon, di Sadpara e infine di Simone Moro, fino alla sua estromissione dal team. Ma nessuno esce indenne da errori e comportamenti ambigui, in questo capitolo, pur con diverse sfumature. E’, ovviamente, la sua versione: c’è tuttavia il particolare, non trascurabile, che i dialoghi sono fedeli trascrizioni di registrazioni audio, moralmente discutibili come ammette lo stesso Nardi, ma la co-autrice e l’editore Einaudi hanno ritenuto lecita e trasparente la loro pubblicazione [podcast dal minuto 44:00, intervista ad Alessandra su Radio24].

A tutt’oggi sono usciti diversi articoli della stampa specializzata sul libro; è curioso, eufemisticamente parlando, notare che nessuno abbia avuto la curiosità di fare o farsi domande su questo capitolo scomodo, amaro, discutibile ma che è parte integrante, e ampia, del libro che Nardi ha scritto. 

Al lettore ogni riflessione o giudizio proprio, su una questione che non cambierà più nulla: la storia è scritta e ha cancellato vecchie polemiche. Questo capitolo della vita di Nardi svela un lato spiacevole che si preferisce generalmente occultare; spoglia l’alpinismo dalla sua supposta idealizzazione, il suo essere non esente, come nessuna attività sociale umana lo è, da grandi rivalità, scorrettezze, miserie e opportunismo. Anzi: amplifica a dismisura pregi, qualità e paure, difetti. Di tutti, nessuno escluso. 

Certamente, Nardi non è stato capace di diplomazia e autocontrollo nei rapporti di “peso”, in spedizione. Ha pagato caro, questa sua spigolosità, anche in termini di credibilità. Va detto.

Il capitolo del “Quarto Tentativo” prosegue col racconto della conoscenza con Tom Ballard, che cercò Daniele Nardi, interessato al suo tipo di alpinismo: un’amicizia che si saldò nel 2017, in una bella spedizione nel Ghiacciaio remoto del Kondus, in Karakorum, una via di roccia su un Seimila sconosciuto e un tentativo su una montagna di 7000 metri iconica, il Link Sar. I due, dopo aver aperto oltre 1500 metri di via sino alle prime difficoltà della parete nord-est, si dovranno ritirare tra valanghe e maltempo continuo. Poi c’è il capitolo, doloroso, della tragedia di Tomek e il salvataggio di Elisabeth, dove Daniele contribuì in modo concreto, coordinando e coinvolgendo tutti i suoi contatti pakistani e fornendo indicazioni utili. I pensieri su Tomek, sulla sua personalità e la sua intima anima di sognatore, sono molto toccanti.

Nel capitolo finale cambia il registro narrativo del libro: a raccontare, in prima persona, è Alessandra Carati.

Ripercorre il trekking al Campo Base, le difficoltà e il gelo, la sua intima esperienza come donna nel rapporto con i locali, l’enorme stima e rispetto che tutti i pakistani tributano a Daniele, la consegna di materiali e beni umanitari nei poverissimi villaggi tra Skardu e la Valle del Diamir; l’amicizia e il buon umore tra Tom e Daniele, i paurosi rombi delle valanghe che scaricava la montagna “la cui mole copre il cielo e ti sovrasta immensa”. Poi il ritorno in Italia, i messaggi fiduciosi di Daniele e quelli preoccupati per il materiale sepolto dalle valanghe.

Fino al momento decisivo: c’è una finestra di tempo discreto, è il 22 febbraio, ormai da un mese i due sono fermi al Campo Base, allenandosi sui sassi facendo drytooling, camminando fino solo al Campo 1. Partono di gran lena e determinazione, fino al fatidico 24 febbraio, dove salgono 300 metri di sperone dai 6000 m del C4, una tendina in parete. Sono ottimisti, pieni di gioia che comunicano ad Alessandra per satellitare, hanno trovato il sacco appeso in parete, in alto. Ma si sono sforzati forse troppo nei due giorni precedenti, con una tirata e tanto carico di materiali per l’attacco decisivo. E le ore finali, il silenzio. 

Tom Ballard e Daniele Nardi, Nanga Parbat

L’epilogo lo conosciamo. Alex Txikon generosamente parte dal K2 con una squadra per soccorrere e cercare Daniele e Tom. Dopo giorni tremendi, tra ricognizioni a piedi e coi droni, mentre infuria un brutto dibattito mediatico, dove Messner, poi Moro e altri affermano la sicurezza che i due siano stati sepolti da una valanga, che la via era quasi suicida [vedi sezione Fonti sotto], che Tom era stato coinvolto in una impresa non sua e non era da farsi come prima esperienza su Ottomila, le tifoserie sui social eccetera: i due sfortunati alpinisti vengono avvistati, morti, non travolti da una valanga ma appesi alle corde, probabilmente vittime di un incidente in discesa e ipotermia. La loro ultima telefonata pare fosse stata alle 20 di sera del 24 febbraio, al Campo base: Daniele diceva che scendevano, le condizioni terribili. Qualunque fosse il motivo di abbandonare la tenda e sapere di andare incontro a ipotermia scendendo al buio, era evidentemente una tragica ed estrema necessità.

Il breve epilogo è una testimonianza di vita, di sensazioni pure e sublimi sul Nanga e si conclude così:
“Almeno una volta nella vita, a tutti dovrebbe capitare di incontrare un Daniele Nardi che con un sorriso ti spinge ad andare a vedere cosa c’è oltre la linea dell’orizzonte, e a camminare insieme a lui sul ghiacciaio”.

Daniele Nardi è uscito di scena con i suoi tanti difetti, la sua umanità brusca, diffidente, difficile e ambigua; allo stesso tempo espansiva, positiva, piena di amore e di una incontenibile passione verso l’alpinismo e di sfida costante nell’affrontare i propri demoni. Una passione bruciante che gli è costata una breve vita – ma non vissuta da incosciente. 

Una vita che merita rispetto, che suscita e susciterà discussioni ma una vita degna: un uomo, alpinista che ha avuto coraggio sia in montagna che nel lasciare testimonianza, soprattutto, delle sue più intime debolezze senza smettere di pensare positivo, di cercare di rialzarsi a ogni caduta per ricominciare e migliorare; che nella storia dell’alpinismo rimarrà come colui che ha tentato “una incredibile via invernale, direttissima, una via fottutamente visionaria su una delle montagne più temute del mondo” – come ci ha scritto l’alpinista Louis Rousseau: la Via dello Sperone Mummery.

Intervista alla co-autrice: Alessandra Carati 

Alessandra Carati e Daniele Nardi al campo base del Nanga Parbat.

Alessandra, il tuo è un curriculum solido di esperienze nella scrittura per il cinema e il teatro e poi come editor e ghost writer su progetti editoriali molto vari; nel 2016 sei stata coautrice, con il ciclista Danilo Di Luca, del suo libro autobiografico Bestie da vittoria, un duro atto di accusa (e autoaccusa), di chi non ha più nulla da perdere e può finalmente parlare in vera libertà del “sistema” nei confronti del gigantesco problema del doping, un disvelarsi intimo di un’atleta che si confronta con l’ipocrisia di chi lo ha espulso dall’ambiente (squalificato a vita) come capro espiatorio unico di quello che sembra un’intollerabile groviglio omertoso di interessi collettivi nello sport. Cito questo tuo impegno letterario perché ho l’idea che in parte l’incontro con Daniele Nardi ti abbia coinvolto e convinto a lavorare con lui, per la sua esperienza – altrettanto problematica, anche per diverse ragioni – nell’ambiente a cui ha dedicato la sua vita: l’alpinismo. E’ così? Quale è stata, comunque, la spinta decisiva – per una autrice assolutamente distante e non coinvolta da una passione personale per la montagna – a intraprendere la scrittura di un libro con un’alpinista?
Quando mi sono accostata alla storia di Daniele, non conoscevo l’alpinismo e non sapevo nulla sulla qualità dell’ambiente. Ho scelto di abbracciare il progetto perché Daniele mi incuriosiva. Come ho scritto nel libro e come molte altre persone, mi chiedevo perché qualcuno scegliesse di mettersi così duramente alla prova, su una montagna di 8000 metri, in inverno, per cinque volte consecutivamente. Volevo capire che cosa lo muoveva, intimamente e come essere umano.

Leggendo il libro, ho trovato straordinario il coraggio di Daniele per la cruda e sincera auto analisi, che non risparmia dettagli inediti su un suo periodo di depressione e burnout, non si fa sconti sugli errori nella vita privata così come quelli in alcune spedizioni, a causa del suo carattere molto difficile. Eppure, il lato positivo, di pura passione sincera, guascone ed empatico emerge e si fa apprezzare. Come hai vissuto questo aspetto contradditorio di Daniele? 
Daniele era tante cose insieme. La scrittura, per fortuna, resiste alla tentazione di ridurre in modo semplicistico le persone e mette al riparo dal giudizio. Così facendo ci permette di comprendere di più, accettare di più, amare di più. 

Mentre lavoravate al libro, hai dovuto litigare con lui su come voleva esporre le sue emozioni, le sue idee e i fatti accaduti nelle grandi montagne di Karakorum ed Himalaya?
Non c’è stato il tempo di confrontarsi sulla forma con cui costruire il racconto. Abbiamo lavorato insieme nella raccolta e nella scelta dei materiali, poi ho proceduto alla scrittura da sola, con tutte le decisioni che ne discendono.

Non posso non affrontare un tema molto delicato e scottante. Da quando è uscito il libro, ho letto articoli e recensioni ma per chiunque lo abbia letto, c’è stato un silenzio quasi totale e assordante su una parte precisa: il Tentativo Quattro, ovvero la spedizione 2015-2016 con Txikon e Sadpara, vissuta tra polemiche amare; quello che stupì, all’epoca, è che Daniele si difese molto tenacemente soltanto dalle accuse di Txikon (poi rivelatesi piuttosto labili e infondate) di mancata contribuzione economica o addirittura di essersi “inventato” la caduta sul muro Kinshofer. Daniele non replicò, puntualmente, alle forti accuse di Moro. Questo pesò molto nel giudizio collettivo verso di lui. Così come Daniele stesso scrive.
Nel libro hanno colpito i dialoghi brutali e polemici di quanto accadde. E divergono rispetto alle versioni di Simone Moro. Ho ascoltato la tua intervista alla trasmissione di Alessandro Milan su Radio24, dove affermi che i dialoghi sono riportati “alla virgola” perché provengono dalle registrazioni che Nardi ha fatto nella tenda comune, mentre era in corso la riunione definitiva con tutti gli altri. Che la cosa non è affatto illegale, tant’è che Einaudi l’ha valutata pubblicabile senza censure. Lo confermi? Qualcuno ti ha contattato per precisare o smentire quanto è scritto? Cosa pensi della reazione della stampa, a proposito?
Le scene del quarto tentativo, che si svolgono nella tenda e in cui sono presenti Simone Moro, Alex Txikon, Tamara Lunger, Alì Sadpara e ovviamente Daniele, sono state ricostruite interamente a partire dalle registrazioni che Daniele aveva fatto. Non ho tratto le battute e il loro contenuto da un racconto mediato da Daniele, ma direttamente e fedelmente dagli audio. Sono le voci dei protagonisti.
Per esempio c’è un particolare del racconto su cui sono state date versioni discordanti, ed è il modo in cui si uniscono le due spedizioni. Moro ha dichiarato pubblicamente, nel suo libro Nanga e in alcune interviste, di essere stato invitato da Alex Txikon, mentre negli audio ripete più volte che è lui a chiedere di potersi unire, tanto che insiste su quanti soldi deve pagare per il materiale e il lavoro fatto nell’attrezzare la montagna. È una differenza sottile, eppure sostanziale, perché definisce i rapporti di forza, i pesi e gli equilibri all’interno della squadra che tenterà la prima invernale del Nanga Parbat. Nessuno finora ha chiesto conto in alcun modo di quella parte del libro, tantomeno ne ha parlato la stampa. In onestà, se fossi un giornalista, sarei incuriosito, farei delle domande.

Veniamo alla parte più emozionante e dolorosa, quella che hai praticamente scritto da sola. Il tentativo finale: la tua decisione di fare il trekking e passare giornate al Campo Base per vivere veramente l’esperienza di una spedizione invernale; l’atmosfera tra Daniele e Tom, le lunghe attese e il finale tragico. Come hai vissuto quei terribili giorni? Hai pensato di mollare tutto, nonostante la richiesta di Daniele nella sua famosa email?
Durante le settimane dei soccorsi il progetto del libro non mi sfiorava nemmeno, ogni energia, ogni pensiero erano per Daniele e Tom. Mi angosciava saperli persi dentro il gigantesco massiccio del Nanga. E poi c’erano Daniela e Mattia, non riuscivo nemmeno a immaginare cosa potessero sentire in quel momento. Più avanti sono stata tentata di lasciar perdere, ma la volontà espressa da Daniele era chiarissima e il suo mandato mi inchiodava. Avevo dato la mia parola.

Quale conclusione, se mai ci sia, hai elaborato nella tua anima, riguardo alla vita e alla morte di Daniele?
Non ho conclusioni, idee, tantomeno opinioni, sulla morte di Daniele. Tutto quello che ho sfiorato, intuito e a cui ho tentato di dare forma è dentro il libro. Ogni lettore può muovere da lì per lasciare emergere il sentimento con cui guardare alla sua figura, alla sua vita.

Intervista a Louis Rousseau 

Louis Rousseau

Louis Rousseau è uno dei più forti alpinisti canadesi. E’ nato nel 1977 nel Quebec e ha cominciato a scalare a 15 anni. Tra il 1999 e il 2010 ha arrampicato moltissime cime sulle Ande, accumulando esperienza sui Seimila. Dal 2007 ha cominciato a scalare le grandi montagne del Karakorum e dell’Himalaya, aprendo una parziale via nuova sul Nanga Parbat nel 2009, ha tentato una via nuova invernale sulla parete sud del Gasherbrum I. Ha scalato Gasherbrum II, Broad Peak e tentato varie volte il K2. Ha scalato Settemila come il Khan Tengri e il Tilicho Peak. Sempre senza ossigeno, perseguendo lo stile alpino e un’etica molto ferrea. Ha scalato assieme ad Adam Bielecki, Gerfried Goschl, Alex Txikon, Rick Allen e tanti altri.

Che rapporto hai avuto con Daniele Nardi?
Non ho mai conosciuto Daniele di persona. Dal 2015 abbiamo avuto contatti sporadici via internet. Ho sentito parlare di Daniele dopo la via al Bhagirathi III del 2011 e del tentativo invernale del 2013 con Elisabeth Revol. Dopo di che, Alex Txikon mi ha contattato per unirsi a lui, Daniele e Alì Sadpara per il tentativo invernale al Nanga Parbat nel 2016. Ho detto di no. Daniele mi ha invitato per il tentativo al Nanga 2019, ma ancora una volta ho declinato l’invito e ho cercato di convincerlo a non ripartire. Durante la spedizione abbiamo avuto contatti regolari via WhatsApp, soprattutto quando hanno perso un sacco di attrezzature [seppellite dalle valanghe, NdR]. Gli ho proposto di spedirgli alcune attrezzature dal mio deposito in Pakistan. Dopo tutto ciò, erano ok, avevano l’essenziale per continuare la loro ascesa.

Cosa ne pensi di Daniele, quali impressioni e sentimenti lo hanno dato a te – come scalatore prima, poi come uomo? 
Era un alpinista davvero motivato e orientato all’obiettivo. Sapeva arrampicare sia su percorsi tecnici e difficili tanto quanto aveva ottime prestazioni in alta quota. Durante i nostri dialoghi, ho realizzato che era un uomo molto gentile. Molto idealista, un sognatore che voleva sempre migliorare e tendere ad essere una versione sempre migliore di sé stesso. Durante la nostra ultima conversazione mi ha detto una cosa importante, che voleva “cercare di aiutare le persone a cambiare la loro vita ispirandole”. Quindi di sicuro Daniele era un uomo che voleva cambiare il mondo che lo circondava: non si trattava di alpinismo, di raccogliere cime o cercare le prime salite, era molto più una ricerca intima e personale.

So che ti ha chiesto di unirti al suo sogno sul Nanga, il Mummery; poi, dopo uno scambio di mail gli hai detto che non volevi partecipare e gli hai chiesto di ripensarci. Puoi spiegarmi meglio, dopo la tua via nuova aperta sul Nanga nel 2009, cosa ti ha spinto alla decisione che avevi chiuso con quella montagna?
Lo troverete un po’ esoterico, ma credo nella maledizione della montagna killer. C’è qualcosa sul Nanga Parbat che ci acceca come alpinisti e ci attira ancora di più verso il pericolo rispetto agli altri 8000 m. Penso che sia a causa di tutto il folklore intorno a questa montagna. Si inizia a leggere molto su questa montagna che si trasforma in fascino e passione. E‘ davvero attraente e nasce il desiderio di andarci. Quando però fui lì nel 2009, due alpinisti hanno perso la vita e dopo ci fu molta discordia, a riguardo. La storia recente dei tentativi invernali è piena di discordia, incidenti, giochi dietro le quinte e ora morti. È una vera tragedia. Non ci sono altre parole per descrivere gli ultimi anni. Basti pensare all’attacco terroristico del 2013. Ho visto Daniele “entrare” in questo spirito e volevo fare qualcosa per scoraggiarlo. Gli ho chiesto se avesse voglia di trovare, con me, un progetto completamente diverso e positivo, ma lui mi rispose: “se cambi idea e vuoi unirti a me e Tom, fammelo sapere”.

Pensi che per un alpinista, il pericolo inizi nel momento in cui è troppo coinvolto per una montagna, un obiettivo particolare? 
Per un alpinista, il pericolo inizia non appena entra nella jeep che lo porterà all’inizio del trekking verso il Campo Base; il che significa che sin dall’inizio della spedizione ci sono pericoli. L’alpinismo è uno sport estremamente pericoloso. Non ci sono molti altri sport in cui si va in vacanza e si torna senza un tuo amico. Però, anche se ci si sente “troppo coinvolti emozionalmente” per un progetto o una montagna, questo non significa che ci si trovi in un pericolo maggiore. Questo può influenzare il nostro processo decisionale? Certamente sì, quando ci sono altri obiettivi oltre all’arrampicata e al sentirsi liberi, anche obiettivi che non ammetti a te stesso. Porterai sempre in una spedizione le cose che non hai risolto a casa. Nulla di ciò che farai in montagna può risolverli, al contrario.

So che Daniele e Tom erano professionisti e hanno voluto scalare il Nanga Parbat, in inverno, per una nuova via, purtroppo hanno avuto un terribile incidente. Non sapremo mai esattamente cosa è successo ed è terribile per le famiglie. Più di ogni altra cosa, non sapremo mai il loro stato d’animo prima dell’incidente. Fu una distrazione, è stato il risultato di decisioni errate, un incidente in montagna? Non lo sappiamo. Quello che sappiamo è che i due alpinisti erano veramente esperti e si completavano a vicenda molto bene. Daniele aveva una solida esperienza di alta quota in ambiente invernale e Tom era uno dei migliori alpinisti su ghiaccio del mondo. Non credo che il loro stato emotivo abbia avuto nulla a che fare con la loro morte. È stato un tragico incidente.

Fonti e bibliografia varia
Daniele Nardi 
Nanga Parbat ed Elisabeth Revol, primo tentativo al Mummery: http://publications.americanalpineclub.org/articles/13201212505/Nanga-Parbat-Diamir-Face-Mummery-Rib-winter-attempt

Translimes Expedition con Tom Ballard, Kondus Glacier, Link Sar:
http://publications.americanalpineclub.org/articles/13201214726/Kondus-Glacier-Link-Sar-Northeast-Face-Attempt-Fiost-Brakk-and-Other-Ascents

Farol West, unclimbed peaks in Karakorum:
http://publications.americanalpineclub.org/articles/13201212928/Margheritas-Peak-5400m-South-Ridge-Open-Eyes-K7-West-6615m-Southwest-Pillar-Attempt-Farol-West-6370m-West-Face-Telegraph-Road

Baghirathi III:
https://www.planetmountain.com/it/notizie/alpinismo/bhagirathi-il-report-della-via-di-nardi-e-delle-monache.html

Thalay Sagar, con Alex Txikon, Ferran Latorre e altri:
http://publications.americanalpineclub.org/articles/13201213829/Thalay-Sagar-Northwest-Ridge-Partial-New-Route

Tom Ballard 
Le sei grandi pareti nord alpine in invernale, solo:
https://www.planetmountain.com/it/notizie/alpinismo/tom-ballard-completa-le-sei-nord-delle-alpi-in-inverno-ed-in-solitaria.html

Drytooling, la via più difficile al mondo:
https://www.planetmountain.com/it/notizie/alpinismo/tom-ballard-libera-una-via-di-d15-in-dolomiti-il-grado-di-drytooling-piu-difficile-al-mondo.html

Tomek Mackiewicz 
(4) il lungo post dopo la spedizione 2016, le polemiche sulla vetta, i messaggi satellitari di Simone Moro sul maltempo:
http://czapkins.blogspot.com/2016/06/witajcie.html

Alessandra Carati 
Intervista a Radio 24, podcast, con Alessandro Milan (dal minuto 44:00 in avanti):
https://www.radio24.ilsole24ore.com/programmi/uno-nessuno-100milan/puntata/un-robot-servizio-diritti-civili-080538-AC8siq0

Simone Moro
su Mummery, Nardi e Ballard
https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/03/10/daniele-nardi-e-tom-ballard-simone-moro-ho-visto-ogni-giorno-le-valanghe-che-cadono-sullo-sperone-mummery-fa-paura-andarci-e-un-suicidio/5026985/

https://www.thetimes.co.uk/article/partner-of-lost-climber-tom-ballard-was-obsessed-with-killer-mountain-mmzkflhr

su Nardi, 2016 expedition 

http://alpinistiemontagne.gazzetta.it/2016/11/28/come-si-arrivo-alla-rottura-con-nardi/

Reinhold Messner
https://www.ladige.it/news/cronaca/2019/03/09/tragica-morte-ballard-nardi-reinhold-messner-gl-iavevo-detto-non-andarci

Mackiewicz/Revol e il tentativo di vetta abbandonato per maltempo
(1) 19 gennaio: “Giorni decisivi sul Nanga. Tomek Mackiewicz ed Elisabeth Revol hanno individuato il colouir che conduce alla piramide di vetta […]” 
https://m.facebook.com/groups/185186314867223?view=permalink&id=1058684744184038

(2) 22 gennaio: “Tomek ed Elizabeth sono a 7400 m e stanno salendo[…] Alex, Alì e Daniele sono a C2 […]”
https://m.facebook.com/groups/185186314867223?view=permalink&id=1062366990482480

(3) 22 gennaio: “Simone Moro avvisa che Tomek ed Elisabeth sono a 7300 m e il tempo sta peggiorando. Tentativo di vetta dunque abbandonato […]”
https://m.facebook.com/groups/185186314867223?view=permalink&id=1062341597151686

(5) le previsioni di quei giorni:
http://web.archive.org/web/20160121193744/https://www.mountain-forecast.com/peaks/Nanga-Parbat/forecasts/8125

Sulla tragedia al Mummery 
http://montagnamagica.com/la-tragedia-sullo-sperone-mummery-fanatismi-e-alpinismi/

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Una giornata di traffico sul Cerro Torre 
di Korra Pesce (traduzione di Federico Bernardi)

Una giornata di traffico sul Cerro Torre
(pubblicato l’11 febbraio 2020)

Corrado Korra Pesce, classe 1981, novarese trapiantato a Chamonix da oltre un decennio, è un fortissimo alpinista; ormai “transalpino”, come lui stesso si sente, è diventato infatti Guida Alpina in Francia, famiglia sul versante francese del Monte Bianco. Predilige vie difficili e tecniche, ha scalato tantissimo sulle Alpi e in Patagonia. Ha appena pubblicato un bel racconto, molto interessante, della sua ultima scalata sul Cerro Torre su Instagram – in inglese – e mi ha gentilmente concesso di tradurlo in italiano. E’ veramente interessante per uno sguardo sull’attualità e sulle prospettive future dell’arrampicata patagonica. Va ricordato che per tutto il mese di gennaio il tempo è stato pessimo, pertanto la finestra di bel tempo ha causato…

Febbraio finalmente ha portato una lunga finestra di bel tempo qui a El Chaltén. Assieme a Jorge Ackermann siamo saliti a Noruegos con lo stesso zaino pesante che avevamo già riportato a valle scappando via da questo posto folle.

Approccio a Noruegos, campo base per il Cerro Torre

Sapevamo che le condizioni non erano affatto buone su roccia, specialmente sul Cerro Torre. Così abbiamo “lanciato i dadi” su Tiempos Perdidos, una via che porta sul lato sud del Colle della Speranza, aperta da Andy Parkin e François Marsigny nel 1994. Una meraviglia di ghiaccio lunga 800 metri, purtroppo minacciata da un enorme seracco.

Questo percorso ha visto ripetizioni da parte di alcuni dei migliori scalatori di ghiaccio che abbiano mai visitato la zona, personaggi come Bruno Sourzac, Bjorn Eivin Artun e non è stata completata sino alla vetta fino al 2005, quando Kelly Cordes e Colin Haley hanno collegato questa via con la via dei Ragni.

Siamo partiti il 4 febbraio [da El Chaltén], il 5 siamo partiti da Noruegos nel pomeriggio e dopo esserci crogiolati al sole sotto il Mocho, ci siamo fatti lentamente strada verso la nostra linea sognata. Non eravamo sicuri delle condizioni della neve, fino a quando non abbiamo superato la crepaccia terminale verso le 21.30.

Su Tiempos Perdidos

Il percorso era in mega condizioni, neve incredibilmente buona fino in cima ma impossibile da attrezzare regolarmente con buone protezioni. Abbiamo proceduto in simulclimbing sulla via per 4 ore e mezza, poi siamo saliti lungo la via dei Ragni fino a un buon posto per bivaccare sotto l’Elmo. Alle 2.30 del 6 febbraio ci siamo infilati nel nostro kit da bivacco leggero e abbiamo aspettato la luce dell’alba.

Bivacco al Colle dell’Elmo

Dopo alcune ore di sonno ci siamo resi conto rapidamente che c’erano parecchie persone sopra di noi! La via dei Ragni è una delle linee più ambite della zona: per ovvie ragioni, tutti volevano arrivare in cima il più presto possibile.

Era chiaramente un disastro, 7 cordate e un mucchio di alpinisti, in queste circostanze sembrava di scalare l’Ama Dablam o un ottomila tecnico.

Abbiamo iniziato a scalare alle 8.30 e ci siamo uniti al gruppo che guidava due tiri sotto la cima – che aveva fatto un ottimo lavoro nel pulire una quantità notevole di brina fino a quel punto. Da lì ha proceduto uno degli scalatori della seconda cordata. Anche se le cordate sottostanti non sembravano molto entusiaste di vederci passare, ci siamo sentiti i benvenuti lassù. Presto ci è parso chiaro che qualcuno avrebbe potuto ritrovarsi molto stanco e bagnato, scavando il tunnel sull’ultimo tiro del fungo.

Scavando il tunnel sul fungo sommitale del Cerro Torre

Mi sembrava che la mia presenza e quella di Jorge, lassù, fosse vista come molto utile, perché avevamo già aperto il fungo sommitale negli anni passati. In effetti, stavamo solo per mostrare agli altri che anche dopo aver già scavato il tunnel, chiunque non sarebbe stato entusiasta nel farlo nuovamente, a meno che non fosse davvero l’unica opzione disponibile.

Da quanto posso ricordare, non sono convinto di essere particolarmente bravo ad arrampicare sul rime – e sono rimasto molto colpito dall’ottimo lavoro fatto da Fabian Buhl e ora Christophe Ogier. Non osavamo certo chiedere di guidare, quindi non ci siamo offerti, ma eravamo lì nel caso in cui gli altri esaurissero i proiettili. Avrebbe potuto esserci la possibilità di crogiolarsi al sole, invece era un po’ freddo e nuvoloso; abbiamo incoraggiato Christophe e quindi aspettato.

In uscita dal fungo sulla vetta

La prima parte, un mezzo tubo naturale è stata scalata velocemente. Poi c’è la parte a strapiombo e per evitare il rischio di una lunga caduta, abbiamo incoraggiato Christophe a scavare un tunnel verticale. Dopo ore di scavo è tornato umido e stanchissimo per l’esilarante avventura, che ha incluso un volo frusta da 10 m che ci ha un po’ preoccupato.

Nel frattempo un folto gruppo di italiani si è radunato sotto al fungo. Contrariamente alle prime cordate, non avevano alcun equipaggiamento per il bivacco ed erano ovviamente frettolosi di salire in vetta al più presto. Edoardo Saccaro ha fatto un ottimo lavoro scavando la sua parte di tunnel. Nel frattempo le cordate attrezzate o con tende si sono preparate per un bivacco.

Affollamento sul Cerro Torre

Quando Edo ha superato tutte le incertezze finali, la tensione è svanita: tutti sapevamo istintivamente che saremmo andati in vetta. Abbiamo ovviamente lasciato passare tutti gli alpinisti senza kit bivacco e con Jorge ci siamo infilati nel sacco per la notte.

La mattina seguente non c’erano una, non due, ma ben tre corde fisse, ed è stato chiaro che a nessuno importava più nulla di seguire la rigida etica dell’arrampicata e ci siamo tutti sparati verso l’alto! Onestamente era evidente già da molto tempo che l’“esperienza” del Torre era cambiata oltre il punto di non ritorno…

Jorge ha fatto un tiro usando il micro traxion e io ho fatto l’unica cosa a cui potevo pensare, ho scaldato il mio corpo congelato facendo jumar e fotografando la parete nord. Siamo arrivati in cima subito dopo l’alba.

Korra e Jorge in vetta sul Cerro Torre

La discesa è andata molto bene e abbiamo incrociato molti altri climber impegnati in salita. Mi chiedo se la situazione reale sul Cerro Torre sia poi così diversa dal tempo in cui c’erano tutti i chiodi sulla via del Compressore!

Ho notato che dall’80 al 90 percento delle persone sulla via dei Ragni non ha certo affrontato il vero carico di lavoro richiesto da questa salita. Molti climber con abilità limitate lo stanno ancora scalando. Buon per tutti fino a quando nessuno si farà del male. Ho visto come l’arrampicata su ghiaccio bagnata da acqua stia diventando un po’ troppo popolare, e credo che sorgeranno problemi con questo sovraffollamento. Più climber non qualificati verranno a provare, ci saranno più salite guidate, più droni.

Personalmente non tornerò sulla Via dei Ragni a metà stagione.

Grandissimo lavoro per Fabian Buhl [che è sceso col parapendio, NdR], Edoardo Saccaro e Christophe Ogier, sono loro che sono saliti sul Torre, fatto il duro lavoro, su cui noi ci siamo “meramente appoggiati”… Ad ogni modo, sono entusiasta di aver scalato in simulclimb la maggior parte dei 1300 metri con Jorge.

Korra Pesce e Jorge Ackermann
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