La libertà del limite

L’avventura ha bisogno del limite
Dagli albori e fino alla fine dell’Ottocento il senso di conquista, insito nell’uomo, era rivolto verso le altre tribù, poi altri popoli, poi altre civiltà e annesse religioni.

Con il Romanticismo (separazione Io-Natura) la conquista ci ha condotto in ogni angolo della Terra, sulla Luna e, tra qualche anno anche su Marte.

L’idea della conquista è particolarmente radicata nella cultura alpinistica e ne è, in qualche modo, l’anima stessa. La natura, da oggetto di ammirazione estetica dei pre-romantici, è divenuta con l’alpinismo (e anche con la scienza) luogo di conquista e di sottomissione, prima in senso militare, poi sportivo e infine, ora, ludico-turistico e quindi economico.

Un’anima che si è, peraltro, fortemente trasformata negli ultimi anni, con la prevalenza dell’esibizione sociale sulla semplice soddisfazione privata.

E’ il momento del protagonismo, delle performance sportive autocelebrative, praticate da persone indifferenti (in percentuale non trascurabile) al rispetto e alla conoscenza dei luoghi, nonché al relativo impatto della propria invasività dovuta a questa stessa ignoranza.

Con la volontà di mettere in scena il superamento di ogni limite (quello della verticalità, della fatica, delle prestazioni, della velocità, dell’affollamento, del deterioramento degli habitat naturali…).

Nell’alpinismo degli anni Cinquanta si ebbe il massimo di questa sbornia da superamento di ogni limite. Esempi tipici le direttissime in artificiale (alle quali mancava sola l’impalcatura edile per cancellare anche l’ultimo sprazzo di avventura), ma anche i successivi (anni Ottanta) concatenamenti e salite in velocità (in adorazione del dio cronometro). Coronavano l’ebbrezza prima la necessità culturale di avere dei supereroi (Bonatti, Desmaison, Messner), poi la superficiale e modaiola adorazione delle patinate danze sulla roccia di nuovi eroi come Patrick Edlinger nell’arrampicata “a mani nude”.

Con le chiodature plaisir si è avuta la definitiva soppressione del limite e dimostrazione ne è il fatto che all’avventura sia stato definitivamente sostituito il divertimento.

Intendiamoci: nulla contro il divertimento. Ma è oggettivo che ci si diverte spensieratamente perché sull’avventura è calato un definitivo tramonto, dove non solo il limite non c’è più, ma neppure ce lo ricordiamo.

La ri-valutazione del limite
Possiamo individuare la prima volta che si è provato a ri-valutare il limite con l’uscita dell’articolo di Reinhold Messner L’assassinio dell’impossibile e subito dopo con le teorie e pratiche del Nuovo Mattino, dove la vetta non era più necessaria (dunque si toglieva valore all’obbiettivo e si ri-valutavano le modalità della salita); il secondo grande step nel cammino della ri-valutazione del limite si è avuto con l’affermazione dello stile alpino (minore dispiegamento di mezzi, portatori, assenza di ossigeno, ecc.) e infine con l’assunzione etica delle regole per l’arrampicata libera (qui per arrampicata libera non intendo certo arrampicata sportiva).

Dunque abbiamo assistito e assistiamo tuttora a un processo di riduzione dei mezzi, ancora oggi ben lontano dalla conclusione. E’ ormai evidente che ogni evoluzione possibile in alpinismo lo è solamente con una progressiva riduzione dei mezzi e non tramite obbiettivi sempre più difficili da superare con mezzi sempre più invasivi. Dunque è solo auto-limitandosi che l’alpinismo potrà progredire ed esistere anche come espressione culturale e artistica. Togliere, togliere, togliere.

Forse è giunto il momento di porsi dei limiti, superando il concetto novecentesco della conquista “no limits”, come già fecero gli scalatori del Nuovo Mattino negli anni Settanta, che respinsero l’obbligo e il feticcio della vetta, per esempio.

E’ tempo di cambiare. Conquiste non più solo fisiche, ma anche spirituali. Cime come luoghi da lasciare “inviolati” dalle aspirazioni di “possesso” fisico, bensì rispettate fonti di ispirazione, contemplazione e riflessione interiore.

Ebola

La contraddizione del No limits
No limits è un vecchio motto di un orologio famoso, perché è proprio in quei primi anni Ottanta di ottimismo reaganiano che tutto è incominciato: in questi ultimi decenni c’è stato un forte accostamento tra la pretesa che possiamo chiamare del No limits e la pretesa sicurezza, completa al 100%.

La nostra è una società strana: mi sfugge come faccia a vivere questa schizoide contrapposizione tra il non avere limiti (o comunque predicare di non averli) e contemporaneamente insistere su una sicurezza quasi maniacale in tutto ciò che facciamo.

Il no limits è ciò che gli inglesi chiamano attitudine al risk taking (attitudine ad assumersi rischi).

I limiti ci sono per tutti, ciascuno ha i suoi, ogni gruppo di individui ha i suoi. Questo dev’essere chiaro. Non si può dire il contrario, non si può scherzare (o semplicemente esagerare a uso marketing).

No limits è una vera e propria bestemmia, è un’iperbole pari a quella di chi paragona l’essenza della massima divinità a quella suina. Chi tutti i giorni profferisce questa bestemmia è l’apparato pubblicitario, il marketing in generale.

E credere di essere “sicuri” è over confidence, altra espressione inglese per dire stra-confidenza in noi stessi o, meglio, nei mezzi di cui disponiamo per aumentare la nostra sicurezza.

Quando per esempio si voleva promozionare l’ultima APP per GPS, la frase che io udii al Festival di Trento (quindi in una sede assai competente, per di più) fu, testualmente: “perché così, finalmente, anche il signor Rossi potrà andare ovunque voglia, in piena sicurezza”.

Questo, tradotto, significa che per il signor Rossi non ci saranno più limiti. Vuole dire predicare una gigantesca falsità alle migliaia di signori Rossi, allo scopo che questi comprino questo “dannato” oggetto… che non è importante qui sapere se funziona, o se non funziona.

Ecco l’accostamento “incestuoso” che intendo, tra no limits e sicurezza.

La vera sicurezza
Davvero la sicurezza si può comprare? Non credo proprio. E non te la possono neppure regalare. Qualunque oggetto di cui noi ci dotiamo è in grado di darci un servizio, più o meno utile o più o meno superfluo: ma non ci può garantire la sicurezza. Questa la si ottiene invece (ma sempre solo parzialmente) con la modestia, grande impegno, tanta fatica, talvolta con dolore, in molti anni di esperienze. Questi sono gli elementi catalizzatori del rinforzo di ogni sicurezza individuale. Così è sempre stato e sempre sarà, ce lo dice anche il buon senso.

Sono convinto che tanti più mezzi noi dispieghiamo per aumentare la nostra sicurezza, aggeggi comprati, tecnologie APPlicate, informazioni in tempo reale (nell’illusione di una sicurezza quasi totale), tanta meno importanza noi finiamo per dare a quella sicurezza che io chiamo interiore, quella in tutta evidenza oggi generalmente trascurata.

Nessuno può fare business sulla sicurezza interiore, ecco uno dei motivi (ma non è il solo) per cui non se ne parla. Però a mio avviso è, e resta, la prima dotazione di sicurezza che abbiamo a disposizione.

Vi faccio un esempio: prendiamo uno di questi matti (vabbè, matto lo sono stato anch’io…) che oggi va a fare il free solo, arrampicare su grandi pareti da soli, slegati, senza corda e senza imbrago. Mi viene in mente Alex Honnold, ma ancor prima tanti altri, tra i quali l’austriaco Hans Jörg Auer che sale il Pesce sulla Sud della Marmolada. Bravura e preparazione infinite, determinazione, ambizione. Il successo planetario. Ciò che colpisce è la concentrazione che gli deve essere stata necessaria, quella condizione (che non si ottiene certo in poco tempo) di spirito che gli intima di andare, nella certezza che, almeno in quell’occasione, non gli potrà succedere nulla.

Prendiamo lo stesso scalatore, dotiamolo di compagno, corda, mezzi e tecniche di sicurezza. Facciamogli fare la stessa salita. Per lui sarà un’autostrada, una danza, un motivetto fischiettato! E quella concentrazione della volta precedente? Non necessaria, quasi inutile, dunque accantonata. Buona per la prossima volta. Ecco ciò che voglio esprimere: più mezzi e tecniche = meno concentrazione (sicurezza interiore).

Dunque sì alle informazioni, alle tecniche e alla strumentazione: ma senza diventarne schiavi o fanatici, senza attribuire loro maggiore importanza di quanta ne riserviamo al nostro istinto.

Ciò di cui prima di tutto dobbiamo dotarci è la modestia di fondo che ti dà il senso del limite, esattamente contro l’imperversare del no limits.

Umiltà=dare fiducia=amore
Avere il senso del limite è una manifestazione di umiltà, di ricettività all’esempio e all’insegnamento degli altri, amici e non amici. E’ manifestazione di “amore” per la montagna perché c’è il rispetto per essa, che ti può dare indifferentemente gioia o dolore. Questo l’umiltà ci fa accettare, al contrario del marketing del no limits che pretende che la montagna sia solo gioia.

Umiltà vuole dire capacità di dare fiducia, dunque dare amore. Se c’è una cosa che quasi tutti noi facciamo malvolentieri è proprio il dare fiducia. E’ raro che lo facciamo. La diamo se siamo innamorati, quindi in una condizione di amore.

E quanto al dare fiducia a noi stessi, alla totalità di noi stessi?

Non credo che un individuo convinto d’essere il “migliore” in qualche cosa sia un qualcuno che si dà molta fiducia. In realtà dà molta fiducia al suo corpo e alla sua volontà cosciente, ma poca all’intero se stesso.

E invece è essenziale dare fiducia alla totalità di noi stessi. Le azioni che noi compiamo nella giornata, le reazioni, le battute, le decisioni sono solo per il 10, massimo il 15%, governate dalla nostra coscienza.

Il resto è determinato da scelte che avvengono nelle nostre profondità, proprio come succede al galleggiamento degli iceberg.

Cercatori di involontario
E’ importante dunque, accettando la molto incompleta conoscenza di noi stessi (e quindi il nostro limite), dare grande fiducia a ciò che ci dirige nel bene e nel male.

E’ l’unico valido sistema per fare in modo che le nostre scelte profonde coincidano con la nostra sicurezza.

Vera sicurezza e le profondità di un individuo sono la stessa cosa, noi dobbiamo essere liberi di poter pescare nel nostro pozzo profondo e individuale. Questa è la vera libertà, quella che a volte fa sfiorare la felicità…

Il limite che ci è fornito dalla contemplazione del nostro inconscio fa in modo che il nostro sapere e la nostra volontà rientrino nelle giuste dimensioni, in modo che tutti diventiamo dei cercatori di involontario (quindi di ciò che non è dipendente dal nostro Io), cioè di sacro (Altro da me).

Pensate solo a questo: l’amore è selettivo. O sì o no. L’amore è l’unico strumento per cui o è sì o è no. Ma allora ne consegue che è proprio l’amore che ci aiuta nei momenti di pericolo, perché ti dice rapidamente o sì o no. Ti scarta come ciarpame le statistiche di cui siamo pervasi, le probabilità numeriche, le possibilità all’80%, al 60%, quando non al drammatico 50%. Ne fa piazza pulita in un microsecondo. O sì o no. Decidere, e in fretta, quello che dobbiamo fare. Non cazzeggiare con le statistiche.

Dotiamoci di amore, perché è selettivo. Facciamoci permeare, senza avere vergogna di essere meno scientifici di altri. Avere dalla parte nostra l’istinto. Vuole dire essere sicuri di noi stessi, proprio perché l’umiltà e l’amore ci hanno fatto riconoscere i nostri limiti.

Il riconoscimento del limite è l’unico passaporto per la vera responsabilità, la sola “carta” che ce la può permettere.

Un individuo responsabile è davvero libero (nel senso dell’essere dotato di libero arbitrio): perché non è libero chi “fa quello che vuole”, ma è libero chi fa dopo aver scelto.

Gli individui sono responsabili perché hanno scelto, per questo sono liberi. Il limite non divide ciò che è possibile da ciò che non lo è: perché è comunque soggettivo. Prima di tutto devi riconoscerlo tu. Sei tu che lo riconosci, dunque sei tu a valutare e a decidere. Ecco la scelta, quella scelta che ti rende responsabile e libero.

Occorre mettersi deliberatamente in modalità di ricerca. Ma occorre anche sapere cosa cercare, come quando vai per funghi in un bosco o in un esame chimico si cercano determinate sostanze con precisi test. E la ricerca è umiltà, perché impone di riconoscere che non si sa mai abbastanza.

C’è anche il caso particolare di chi è dominato dall’adrenalina. Anche costui può fare grandi imprese, che occorre rispettare, ma l’adrenalina è amore corrotto, praticamente droga. C’è troppo risk taking, troppa predisposizione al rischio, con la conseguenza di avere una responsabilità tendente a zero che non ti fa crescere e quindi non ti rende libero.

L’amore per l’imprevisto
Ben più salutare è l’amore per l’imprevisto. Chi ha letto i libri di Bruce Chatwin sa cosa voglio dire. Davvero emozionante è la genialità con la quale Chatwin ci ha raccontato le sue avventure di viaggio. Questo mostro sacro del Novecento mica faceva viaggi con le agenzie che oggi parlano di travel engineering… quello partiva, non sapeva neppure quando tornare o se sarebbe mai tornato. Chatwin ci ha insegnato l’amore per l’imprevisto, cioè dell’involontario, con risultati grandiosi per la letteratura.

Non è che dobbiamo essere tutti dei Chatwin, ma è purtroppo vero che oggi nessuno desidera e ama l’imprevisto. Al contrario, deve andare tutto come previsto.

Però l’amore per il non programmato favorisce l’istinto, lo allena, gli dà importanza. La parte nascosta di noi ha bisogno di riconoscimenti, non ne può più d’essere continuamente calpestata da modalità razionali.

Allorché alleniamo l’istinto è perché dimostriamo di dare fiducia all’inconscio, cioè la parte di noi che davvero ci governa e che in definitiva ha potere su di noi di gioie e dolori, di vita e di morte.

Al contrario di altri “governi”, questo è l’unico a essere sempre “forte”. Data l’indiscutibilità dei suoi decreti, meglio far parte del consiglio dei ministri che dell’opposizione…

C’è chi ha paura che nel nostro inconscio ci siano solo mostri e malattie psichiche. Questa visione assai pessimista si può anche accettare, ma ricordiamoci che se davvero il nostro inconscio, per qualche lontano motivo, fosse effettivamente malato in profondità (un malato terminale), allora il modo di farci morire lo troverebbe comunque, a dispetto di qualunque repressione interiore e di qualunque ossessiva forma di sicurezza esteriore.

Il contributo dell’alpinismo
Ma torniamo per un poco ad approfondire quanto già detto prima. Nel 1968 ha luogo un cambiamento epocale nei valori che guidano l’alpinismo su roccia: Reinhold Messner riesce nella sua prima ascensione più difficile, quella al Pilastro di Mezzo sul Sass dla Crusc nelle Dolomiti, il tutto mentre Royal Robbins lancia dalla Yosemite Valley l’appello per il clean climbing.

Dieci anni prima era diventata di moda l’arrampicata artificiale, ma nell’anno della rivoluzione studentesca, Messner con il suo articolo L’assassinio dell’impossibile lancia l’appello per la rinuncia agli aiuti tecnologici nelle scalate. Ha così inizio il movimento per l’arrampicata libera.

Se a distanza di più di cinquant’anni dall’esplosiva uscita de L’assassinio dell’impossibile ci si chiede se nel frattempo le imprese alpinistiche siano finite o abbiano mostrato segni di stanchezza creativa o, ancora, abbiano rivelato minor eroismo e minori capacità tecniche, la risposta è no, su tutta la linea.

Anzi, si è verificato il contrario: moltiplicazione di realizzazioni, progettualità intensa, dal fantasioso-creativo al visionario, grandi eroismi e grandi performance. Nella più piena e odierna oscurità mediatica sono stati raggiunti limiti che Messner, assieme ai suoi contemporanei, non sognava neppure.

Dunque è generalmente riconosciuto che l’impossibile per nostra fortuna è non solo sopravvissuto ma pure gode di ottima salute.

Nel maggio 1968 di quello che succedeva nelle università non mi interessavo, a Genova poi ogni cosa giungeva ovattata, epurata di ogni carica dirompente.

Anche il maggio francese non colpì molto l’ateneo ligure, così seppi qualcosa soltanto leggendo i giornali oppure parlando con gli amici di Milano e Torino. Compagni come Paolo Armando o Ettore Pagani, entrambi studenti di architettura, erano, al contrario di me, ben impegnati in quel movimento che sembrava allora travolgere tutto l’ordine costituito per dare spazio alla libertà.

Una libertà collettiva in contrapposizione a un ordine collettivo… ma in quel momento mi sentivo troppo libero dentro per curarmi della libertà collettiva.

In una mia conferenza, l’anno successivo, rispondendo a una precisa domanda, ricordo che rivolsi al pubblico l’esclamazione «noi il Sessantotto l’abbiamo fatto sulle montagne», provocando un mezzo delirio di applausi frenetici. La frase era un po’ a effetto, ma era indubbiamente vera e liberatoria: volevo solo dire di essere completamente estraneo alle lotte di piazza o di aula.

Nel frattempo, L’assassinio dell’impossibile aveva messo il dito su una piaga che si stava scoprendo. Messner era riuscito a formulare un pensiero con grande chiarezza nel terreno assai fertile di migliaia di alpinisti che gradualmente si stavano accorgendo che c’era qualcosa che non andava (come ne I Falliti di Gian Piero Motti).

Molto dell’alpinismo di punta di allora si basava sui vecchi concetti di conquista che prediligevano appunto la vittoria senza badare ai mezzi utilizzati per conseguirla.

Negli anni Sessanta l’espressione by fair means non si era dimenticata, semplicemente si era alzata, senza più alcun controllo, la soglia del significato di quel fair. Su questo aggettivo, che viaggia tra il significato di “leale” a quello di “giusto”, nei decenni si era sempre più posto l’accento sul “giusto”, trascurando cioè la lealtà dei mezzi in una tenzone equa con la montagna e sottolineando invece con forza quanto i mezzi fossero “giustamente” tanti (ma mai sentiti “eccessivi”) quando la montagna la si affronta nei suoi aspetti più “tanti” (grandiosità, difficoltà).

Al nocciolo, Messner ricordava che a quel ritmo ogni difficoltà sarebbe stata distrutta, uccisa, e non “vinta”. Un richiamo forte dunque alla lealtà, e dunque al rispetto di alcuni limiti.

Limiti che siamo noi a dover individuare, paletti che sono alla fine i pilastri della nostra libertà di scelta. Fondamentalmente cinquant’anni fa Messner ci ha detto: “senza limiti è la fine del nostro gioco e se vogliamo essere liberi di giocare allora dobbiamo, con scelte responsabili, rispettare dei limiti”. Con queste affermazioni è andato ben oltre al Sessantotto!

Da allora è cominciato il processo della riduzione dei mezzi, oggi ben lontano dalla conclusione (è appunto sotto gli occhi di tutti che ormai i Piolet d’Or sono dati solo alle imprese che hanno saputo ben conciliare grandiosità di concezione con limitatezza di mezzi).

La montagna è il nostro pozzo interiore
La montagna è un simbolo perfetto del nostro pozzo interiore, un luogo fisico dove possiamo leggere le nostre profondità a patto di aver accettato che il nostro sapere razionale e la nostra volontà siano nelle giuste dimensioni.

Questo deve coincidere con una rivalutazione della fantasia e della montagna intesa non più solo come sfondo scenico delle nostre imprese. E avendo accantonato la ora purtroppo onnipresente ossessione di sicurezza e la collegata bestemmia del no limits.

La produzione di alpinismo/opera d’arte avverrà in quel silenzio e in quella solitudine che, volendo, possono essere salvate anche in piena era satellitare. Se lo si vuole, si va oltre gli sponsor, si va oltre le esibizioni social, oltre il collettivo.

Un esempio di limite: la Montagna Sacra
La proposta è semplice, priva di costi e di divieti: accettare una Montagna Sacra nel Parco nazionale Gran Paradiso, una montagna consacrata alla natura da cui escludere ogni presenza umana, anche per dare senso e concretezza al centenario del Parco. Un’idea progettuale “rivoluzionaria” – in quanto capovolge dei modelli culturali: da no-limits a off-limits – di grandissimo valore simbolico, più che direttamente finalizzata alla conservazione (come nel caso delle riserve integrali).

Un’idea mai realizzata ex novo nel mondo occidentale. Montagne sacre, nel senso religioso del termine, esistono in altre culture. Sono sacri alle culture locali il Machapuchare 6993 m (Nepal) e il Kailash 6638 m (Cina), preclusi all’accesso umano e, quindi, all’alpinismo, e l’Uluṟu – Ayers Rock, nell’omonimo parco nazionale australiano, vietato all’accesso turistico nel 2019.

In questo ambito culturale, il termine sacro non vuole enfatizzare il significato religioso, bensì quello laico. La sacralità è, in effetti, una costruzione culturale, declinata in molte forme da diverse culture, anche come visione laica. La più antica etimologia del termine, d’altra parte, indica un luogo elevato e inaccessibile, affascinante, a prescindere dal culto religioso.

Montagna Sacra come luogo principalmente “Altro da noi”, da lasciare esclusivamente agli “altri” (animali, vegetali, minerali), come simbolo affettivo ed emotivo della Natura tutta per il suo valore intrinseco, non in funzione umana.

Non tutto quello che siamo in grado di fare deve essere fatto. Non tutte le montagne che siamo in grado di salire, devono essere scalate (conquistate). Per una volta, in un luogo almeno, può prevalere l’idea dell’astensione. Astenersi non significa necessariamente privarsi. In questo caso, l’astensione, più che togliere, regala qualcosa.

Si tratta di un simbolismo profondo, un simbolismo di dialogo con gli elementi naturali senza sopraffazione, che stimoli sentimenti di fascinazione e affiliazione. L’aggancio storico con i due costrutti individuati da Edward O. Wilson nella sua ipotesi della biofilia.

Un luogo che incrementerà il proprio valore simbolico nel tempo: con che occhi sarà guardata quella cima dopo generazioni di assenza umana?

La Montagna Sacra non sarà luogo di divieti, perché un progetto culturale non può basarsi sull’imposizione. Il progetto non prevede alcuna interdizione formale, nessun divieto d’accesso, nessuna sanzione pecuniaria per chi non vorrà “astenersi”. Molto più semplicemente, l’impegno a non salire sulla cima sarà una scelta suggerita e argomentata, al fine che venga rispettata da tutti. Siamo assolutamente rispettosi della libertà altrui, ma faremo ogni sforzo perché la nostra visione venga compresa e condivisa dai più, non come atto di forza, ma come gesto responsabile e di liberazione.

Un progetto che propone una nuova forma di frequentazione della Natura, totalmente diversa dalle attuali. Intorno alla Montagna Sacra si potranno costruire, con la collaborazione degli operatori locali, itinerari e punti di sosta che pongano l’enfasi sull’osservazione e non sulla conquista, sul momento di conoscenza e di contemplazione più che sulla competizione sportiva, senza tralasciare relax e divertimento, così da generare riflessioni sul nostro rapporto con la natura e promuovere una diversa cultura del nostro rapporto con la montagna (il nostro pozzo profondo) e, più in generale, con gli ambienti naturali.

Attenzione al limite imposto
Però, attenzione: questo procedimento interiore non è valido quando il limite è imposto.

L’imposizione di limiti (e non parlo di quelle ordinanze a volte ridicole che vietano qualcosa qui e là per contingenti pericoli straordinari) è del tutto diseducativa e più adatta agli asili infantili che non a cittadini del XXI secolo.

Se domani mi dicessero che qualcuno ha dichiarato non salibile il Monveso per legge, darei le dimissioni immediate da questo progetto, perché non servirebbe più a nulla.

L’assassinio della fantasia e del sacro
Leggi, decreti e sanzioni non rivalutano la fantasia, merce sempre più rara, nel dilagare dell’ossessione di sicurezza e della bestemmia del no limits.

Sicurezza e bestemmia del no limits sono gli ostacoli che ci impediscono di avere fantasia e di vedere il sacro. Ma anche un limite imposto garantisce freni e bavagli alla libera scelta, alla fantasia e, in definitiva, al sacro.

Oggi siamo in un clima di assassinio della Fantasia. E questo è tragicamente ancora più virale di quello tanto paventato dell’impossibile. Ma vi è un’ulteriore persecuzione che l’odierna nostra civiltà si auto-infligge in un ambito in cui non è più neppure valido il motto evangelico “perdona loro che non sanno quello che fanno”: l’esercizio a volte sottinteso dagli individui, più spesso dichiarato, dell’assassinio del Sacro. Questo virus ha la forza di Ebola, non c’è alcun vaccino che possa contenerlo.

Ecco perché oggi ci sentiamo in piena pestilenza.

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