Montagna sacra o montagne sacre?
di Carlo Alberto Pinelli
(scritto nel settembre 2021, prima dell’adesione del CAI al progetto)
Ha ottenuto sulle prime molte adesioni e consensi la proposta ideata e sostenuta con significativa tenacia da Toni Farina (rappresentante delle associazioni ambientaliste nel Consiglio del Parco Nazionale del Gran Paradiso) e da Toni Mingozzi (ex-direttore del parco stesso), di identificare all’interno dei confini del parco stesso una vetta alla quale attribuire, per comune consenso, il significato di “montagna sacra”, condannandone da quel momento in poi l’ascensione. Infatti è’ innegabile l’immediato fascino di una simile idea, direttamente ispirata dal monte Kailash in Tibet e da altri monti asiatici reputati dalle popolazioni circostanti sedi degli dei e di conseguenza inavvicinabili. Tuttavia, a raffreddare gli entusiasmi si è presto fatta strada un’opinione contraria, sostenuta tra gli altri anche da Mountain Wilderness. Nella cultura del mondo occidentale non si conoscono esempi di montagne ritenute inviolabili perché rese tabù da prestigi sacri. Generalmente in passato le alte vette, i ghiacciai, gli appicchi valangosi, venivano addirittura immaginati come regno dei demoni e degli spiriti ostili; oppure la loro ascensione (per lo più simbolica) rientrava nell’ambito delle esperienze mistiche: era una scala iniziatica, irta di rischi oggettivi e psicologici, che avvicinava al divino. Come ebbe poi a dire – molto più tardi – papa Giovanni Paolo II, ascensione e ascesi hanno avuto da sempre, qui da noi, radici comuni.
Decretare, da un giorno all’altro, che una montagna delle Alpi non dovrebbe mai più essere scalata perché le è stata appioppata artificialmente una dimensione sacra sarebbe un non senso, al limite del ridicolo. Sia per la difficoltà di selezionare una vetta adatta allo scopo, sia per decidere a chi spetti una simile decisione, sia per l’impossibilità di ottenere il consenso di tutti quelli che desidererebbero raggiungerne la vetta. Scegliere un monte secondario, anonimo, che non interessa praticamente a nessuno, equivarrebbe a trasformare la proposta in un ben misero ripiego. Solo un monte molto noto, molto frequentato, di grande fascino potrebbe paradossalmente meritare l’appellativo di sacro. Però provate a immaginare cosa succederebbe se una commissione appositamente nominata allo scopo decidesse che il Gran Paradiso non si dovrà mai più scalare. O, se per questo, anche la Grivola, che pochi affrontano, ma che domina il paesaggio dell’alta Valle d’Aosta e avrebbe, diciamo così, “le phisique du role”.
L’eco delle risate raggiungerebbe le coste della Libia!
Forse perché consapevoli di queste critiche, i sostenitori del progetto hanno poi deviato l’obiettivo da una “sacralità” di matrice ambientalistico/ mistica, ad una dimensione più laica: propongono di dare al divieto (solo morale) di salire una certa montagna un significato emblematico, collegato all’ accettazione e esaltazione del valore del limite. Il messaggio direbbe: non tutto quello che si può fare deve essere fatto. L’idea certamente sembra più ragionevole e a me personalmente non dispiace. Però i problemi pratici ai quali si è accennato più sopra continuerebbero a rendere irrealizzabile il percorso. Anche in questo caso l’operazione per avere un senso dovrebbe rivolgersi verso una montagna nota, prestigiosa, in grado di accollarsi credibilmente un simile ruolo. E montagne con quelle caratteristiche sono anche intensamente frequentate. Insomma la contraddizione non verrebbe per nulla superata. Con una postilla: non si correrebbe il rischio, così facendo, di “desacralizzare” tutte le altre montagne, lasciandole esposte agli attacchi dei mercanti del tempio, con minori difese?
Dobbiamo dunque buttare nel cestino l’appassionata proposta di Toni Farina e Toni Mingozzi? Forse no. Non del tutto. Io credo che se ne potrebbe recuperare il succo, spostando l’obiettivo in una diversa direzione. Invece di intestardirsi a individuare un monte, si potrebbe tentare di proporre un giorno estivo – sempre lo stesso tutti gli anni – in cui si invitano i frequentatori delle montagne ad astenersi dal raggiungere le vette, come simbolica adesione al concetto di limite, restituendole così per ventiquattr’ore al silenzio e alla solitudine. Solo associazioni prestigiose come il Club Alpino e Mountain Wilderness – qualora volessero impegnarsi nell’impresa – possederebbero il carisma per rendere credibile, condivisibile e pregnante la proposta. Probabilmente agli inizi l’invito potrebbe rivelarsi un “flop”, ma col tempo forse la adesioni aumenterebbero. Con il risultato collaterale di dare un significato meno retorico all’ingresso dell’alpinismo tra i monumenti immateriali del mondo.
Sono d’accordo che ci sia un giorno per restituire il silenzio alla montagna.