Un viaggio a pedali fino a Kigali per vivere in prima persona la rassegna iridata di ciclismo. Su un percorso mai così duro, tra muri in pavé e pubblico in festa, il Ruanda si è preso la scena. Un’edizione storica che ha sfidato i pregiudizi e promette di lasciare il segno per gli anni a venire
testo di Dino Bonelli
foto di Dino Bonelli e Roberto Cravero

Kigali, ci dice uno delle migliaia di moto-tassisti che brulicano per la città, l’unico che abbiamo incontrato che parli un po’ inglese, è la porta d’ingresso dell’Africa moderna, la Svizzera del continente nero, aggiunge con un sorriso orgoglioso che gli sbuca sotto la visiera scura, sporca e rigata del casco. E forse per alcuni aspetti, tipo la pulizia per le strade, peraltro aspetto sottolineato anche da un paio di atleti della squadra svizzera che abbiamo incontrato nel post evento, il moto-tassista ha anche ragione. Ma la nostra porta d’ingresso per entrare in Ruanda, dove si svolgono i campionati mondiali di ciclismo su strada 2025, non è l’aeroporto dell’ammodernata capitale, bensì la frontiera terrestre con la Tanzania, a sud-est, da cui proveniamo sulle nostre belle e confortevoli bici gravel BAM dal telaio in bambù. Eravamo atterrati a Bujumbura, in Burundi, per fare una lunga e avventurosa pedalata d’avvicinamento all’evento iridato vivendo la vera Africa rurale, ma questa è un’altra storia.
Arrivo a Kigali e prima ricognizione
Arriviamo quindi a Kigali in sella alle nostre bici dalle ruote discretamente grasse e adornate dalle pratiche borse Taac, essenziali per viaggi come il nostro. La curiosità ci porta subito a provare il percorso più lungo, quello che domenica 28 settembre sarà l’arena di sfida tra lo sloveno Pogačar, campione del mondo in carica, e gli altri 164 partecipanti, rappresentanti 57 nazioni, della categoria suprema, gli Elite. Riempite quindi le borracce con la giusta dose di maltodestrine Cetilar, indispensabili in tutto il viaggio, come anche le barrette e i gel, iniziamo la ricognizione. Saliamo il Mount Kigali, 5,9 km con pendenze che arrivano fino al 20%, di strada larga e con asfalto molto bello. Va ricordato infatti che in Ruanda, dopo il terrificante genocidio del 1994, dove in 100 giorni di guerra civile morirono tra gli 800 mila e il milione di persone, con l’Onu che rimase a guardare senza intervenire, a fine massacro, per ripulirsi un po’ la coscienza, varie organizzazioni europee e americane, si operarono per fare molte opere pubbliche, di cui tante strade larghe e ben asfaltate. Un’interessante visita al memoriale del genocidio, in Kigali, fatta nei giorni a seguire, ci informerà, talvolta con la crudezza delle immagini dell’epoca, tanto delle atrocità commesse in quel non lontano 1994, quanto dell’ostinata cecità degli occidentali coalizzati nell’ONU, l’ente preposto alla pace nel mondo.

Le difficoltà del percorso
Dopo l’ascesa al monte cittadino, con le dovute tappe fotografiche, e la conseguente discesa con la solita miriade di moto-taxi a contenderci la strada, raggiungiamo “Le mur de Kigali”, un tratto interamente in pavé lungo 400 metri e con pendenze dal 14 al 16%. Pietre, quelle di questo pavé, irregolarmente cubiche, talvolta smosse o non ben combacianti l’una con l’altra, che rendono questo muro un’inferno, non tanto per le nostre gomme gravel, quanto per quelle fini dei vari professionisti che, nel nostro contempo, provano il percorso. Ma il muro ha un suo fascino e sia io sia il mio compagno d’avventura, Roberto Cravero, decidiamo di farlo più volte, e a ogni tornata abbiamo differenti compagni d’ascesa. Io ho il piacere di salire prima con la squadra brasiliana, poi con alcuni olandesi e infine con il team France, mentre Roberto, dopo una prima salita con un rappresentante della Mongolia, ne fa una con alcuni atleti della squadra danese e il pezzo finale con l’irlandese Ben Healy (poi medaglia di bronzo, dietro a Pogačar ed Evenepoel, la domenica della gara).
Altre due settori particolarmente duri del percorso riservato agli Élite uomini, che nella sua totalità misura 267,5 km e 5.475 metri di dislivello, sono la salita del Golf club, 1.500 metri in asfalto con un picco iniziale del 14%, e quella denominata Cote de Kimihurure. Una salita quest’ultima di 1.300 metri, interamente in pavé e con pendenze fino all’11%. Un pavé sempre cattivo, di quelli che fanno male alle gambe e alle braccia, e che fanno venire le vesciche alle dita delle mani, come ci mostrerà poi Gianmarco Garofoli, l’esordiente azzurro buon 22° al traguardo. Queste due salite, inserite nel circuito cittadino, lo stesso su cui hanno corso anche le altre categorie minori maschili e tutte quelle femminili, dagli Elite son state ripetute per ben 15 volte ognuna, di cui nove prima e sei dopo il giro esterno che comprende l’ascesa del Mont Kigali e del muro.

A ricognizione finita, prendiamo atto dell’enorme sforzo fatto dall’organizzazione, logicamente coordinata dall’UCI, nel preparare il percorso, le varie aree riservate, i box, gli accessi, la transennatura, l’area espositiva, e soprattutto la sicurezza. In questo nostro lungo viaggio per le strade africane, non abbiamo mai percepito momenti in cui la nostra sicurezza fosse in discussione, ma qui a Kigali ci è sembrato proprio di essere in una botte di ferro, di essere a casa. Attenzione maniacale anche nei piccoli dettagli, una cura precisa che ha contribuito al successo dell’evento, in barba ai tanti, del mondo del ciclismo e o comuni commentatori da social, che a priori e senza conoscere il Ruanda, ne avevano malamente additato l’edizione, talvolta anche boicottandola. In effetti il grande numero di visitatori occidentali previsto non c’è stato, ma le strade sono comunque state riempite dalla gente del posto che per tutto il periodo del campionato, con un logico apice nella domenica finale, hanno partecipato folcloristici e festosi rincuorando tutti gli atleti, indipendentemente dalla loro nazionalità. Tra i “mzungu”, termine swahili (idioma dell’Africa orientale) per definire gli uomini bianchi, assiepati lungo il percorso, almeno il 50% è di provenienza belga, poi si son viste numerosi gruppi di olandesi e sloveni, qualche sporadico francese e pochi altri. Noi abbiamo sventolato una delle pochissime bandiere tricolori presenti sul percorso, a supporto del gruppo di azzurri che, grazie all’invito del console italiano del Ruanda, abbiamo incontrato la sera della cronometro a squadre. Con qualcuno abbiamo anche scambiato due parole. “Un percorso durissimo, a mio parere pure troppo. Con un paio di giri in meno non si sarebbe lamentato nessuno”, ci ha dichiarato Matteo Sobrero, quarto nella prova a squadre miste dove l’Italia si è dovuta accontentare dell’amara medaglia di legno, e 13° nella cronometro individuale, caratterizzata dal clamoroso sorpasso del belga Remco Evenepoel, poi vincitore della prova, ai danni dello sloveno Tadej Pogačar, partito due minuti prima di lui.

Trionfi azzurri e delusioni
Nell’hotel degli azzurri, dove alloggiava pure la Slovenia, abbiamo anche curiosato nel famoso dietro le quinte, dove i meccanici montano, preparano e poi, a fine gara, smontano le tante bici al seguito. Sessanta quelle degli azzurri, ancora di più quelle dei belgi. A proposito di azzurri, grande orgoglio a sbracciarci e sgolarci per lo scatto irresistibile e micidiale con cui Lorenzo Finn, il più giovane atleta in gara negli Under 23, ha vinto la sua categoria. Una maglia iridata che segue quella vinta l’anno passato tra gli juniores. Poi ancora ad applaudire la giovane Federica Venturelli, bronzo nella cronometro Under 23, e una stupenda Chantal Pegolo, argento nella prova in linea Juniores. Deludente invece il comportamento tattico di Elisa Longo Borghini, tra le favorite al titolo tra le Elite donne, che, per sua stessa ammissione, nonostante avesse ottime gambe e belle sensazioni, ha fatto una delle peggiori gare della sua vita. Ottimo anche Giulio Ciccone, sesto la domenica, nella gara delle gare. “Una delle giornate più dure della mia vita in bici. Una sofferenza immane fin dall’inizio. Credo di aver perso 15 anni di vita, sono arrivato sfinito” dirà poi alla fine.
Una gara, quella regina, che noi, gravellisti all’avventura sulle strade africane, abbiamo vissuto un po’ su tutto il percorso. Come unici “mzungu” sul muro di Kigali, immersi in una marea umana di gente del posto festante, che ha inondato ogni angolo occupabile ai bordi della salita, rendendo quest’ascesa epica, per il godere visivo dei tantissimi fotografi accreditati accorsi da tutto il mondo. Poi, con un rapido spostamento in moto-taxi, abbiamo vissuto le fasi salienti, per più giri, sulla massacrante Cote de Kimihurura, dove la manifesta superiorità di Pogačar ha inginocchiato tutti gli avversari, di cui uno sfortunatissimo Evenepoel, che per problemi tecnici legati alla sella, negli ultimi giri ha dovuto cambiare per ben due volte la bici. L’arrivo solitario quindi, dello sloveno, che abbiamo vissuto ammassati l’uno sull’altro a 90 metri dal traguardo, tra migliaia di braccia tese come a voler toccare un Dio, quello della bicicletta, che fino a oggi, in Africa, più che uno sport, era un mezzo di trasporto. Due ruote su cui trasportare merci, animali e persone, due pedali dove dover spingere e faticare solo per vivere, ma che da oggi, forse, grazie alla scelta certamente azzardata ma vincente dell’UCI, potrebbero trasformarsi in qualcosa di più. Vedremo, solo il tempo potrà darci risposte certe, intanto complimenti agli organizzatori e a tutti quelli che in questo difficile sogno africano hanno creduto fin da subito.
Ormai è solo tutto business. Come tutti gli sport agonistici anche il ciclismo (agonistico), che a me piace tanto (da appassionato e da spettatore, mai fatto gare) è ormai solo business. Inutile quindi scandalizzarsi se all’atto pratico questi eventi (come mille altri) presentano infiniti risvolti commerciali e consumistici.
Oltre a far vendere più biciclette e accessori vari qui da noi, questi eventi sportivi servono per portare il business occidentale in paesi “nuovi” che potrebbero diventare “nuovi” mercati per beni e servizi occidentali (ben al di là delle sole biciclette).
Forse gli appassionati dei vari sport, a cominciare dal sottoscritto, devono rivolgere le loro genuine attenzioni solo più a gare collaterali, dilettantesche e/o giovanili. A livello di vera passione, il trofeo del quartiere è più sano di un evento internazionale di grido.