(spunti di riflessioni su etica ed estetica di un cambiamento)
di Claudio Smiraglia
(pubblicato su Montagna, Annuario GISM 2017-2019)
L’argomento del titolo è sicuramente impegnativo e si presterebbe ad approfondite ed erudite analisi che dovrebbero spaziare dalla filosofia, alla sociologia, alle scienze fisiche e naturali e ben oltre. In quest’occasione vorrei limitarmi a riproporre qualche cenno su quanto presentato recentemente a Torino in occasione del convegno che celebrava i novant’anni del GISM con qualche spunto di riflessione personale che non ha assolutamente alcuna pretesa di sistematicità, partendo dall’esigenza di un corretto e, ove possibile, condiviso utilizzo delle singole parole, esigenza che deve essere avvertita e ricercata soprattutto quando si fa divulgazione. Il termine “cambiamento”, innanzitutto, che nell’accezione cui ci si vuole riferire è spesso inteso come “cambiamento climatico” e di conseguenza cambiamento del paesaggio montano. Che tutto sia in costante cambiamento e mutazione è una constatazione talmente ovvia da essere spesso dimenticata o sottovalutata. Il cambiamento avviene di attimo in attimo, è inevitabile, grazie ad un continuo e inarrestabile scambio di energia e di massa. È tuttavia importante sottolineare che il cambiamento si realizza con scale temporali molto diversificate nei diversi sistemi e sottosistemi in cui si concretizza l’ambiente oggettivo. L’esempio sicuramente più classico è quello dell’utilizzo interscambiabile dei termini “tempo” (inteso come “tempo atmosferico”) e “clima”. In quante occasioni ci siamo sentiti ripetere dai mezzi di comunicazione che il clima non sta mutando, che non c’è in atto da decenni una tendenza a un incremento delle temperature globali del nostro pianeta, perché in quella sera particolare, in quel sito particolare le temperature sono molto rigide! La conoscenza delle differenze anche solo di base fra i concetti di “tempo” e “clima” dovrebbe pur far parte del bagaglio culturale di chi fa informazione e divulgazione a qualsiasi livello. Oppure ancora l’interscambiabilità disinvolta dei termini “ambiente” e “paesaggio” o l’utilizzo solitamente contrapposto dei termini “ambiente naturale” e “ambiente umano”, come se la specie homo sapiens, non facesse parte, seppur in modo del tutto peculiare, della “natura”. Da questa brevissime riflessioni introduttive può scaturire l’altra ovvia, ma anche in questo caso fondamentale, constatazione che anche la montagna cambia ed è sempre cambiata. Ad esempio, per riprendere le parole di Umberto Monterin (1932), la trasformazione, per quanto riguarda gli aspetti antropici, nella prima metà del XX secolo “del campo in prato” oppure più prosaicamente l’evoluzione di un antico proverbio (“sotto la neve, pane”) che potremmo aggiornare in “sotto la neve, euro”. Di fondamentale importanza per qualsiasi approccio al tema in oggetto è anche quello della percezione dei cambiamenti della montagna, che deve tener conto di una doppia scala: geografica e storica.
Quando osserviamo o contempliamo un paesaggio glaciale attuale (un tempo lo si sarebbe chiamato “panorama”), in particolare quello di un grande ghiacciaio vallivo a bacini composti, da una cima o da un versante non vicinissimi all’oggetto osservato, siamo portati a formulare una valutazione estetica, che ovviamente si basa sul nostro vissuto culturale e sugli stereotipi che ci siamo creati nel tempo e che normalmente riesce a soddisfare il nostro senso del “bello” o del “sublime”. Se cambiamo scala e ci avviciniamo a fine estate alla fronte dello stesso ghiacciaio e ne percorriamo l’area proglaciale, il senso che viene stimolato è piuttosto quello dell'”orrido”, si ha la sensazione di osservare la distruzione o meglio la decomposizione di una realtà altrimenti perfetta, di vedere all’opera forze demoniache (con parole meno retoriche potremmo dire che stiamo assistendo alla rapida transizione da un sistema glaciale a un sistema paraglaciale), che stanno provocando il venir meno di quella realtà. Per ripetere le parole di un collega svizzero, Samuel Nussbaumer, stiamo passando “from the glory of ice during the Little Ice Age to a landscape of ruins of ice”. Da questa constatazione derivano sia l’esigenza di ampliare la percezione di questo paesaggio a una scala non solo geografica ma anche storica, sia soprattutto la consapevolezza di dover introdurre un paradigma etico. Di fronte a un “paesaggio di rovine” scaturisce inevitabilmente la riflessione sulle cause che hanno creato queste “rovine”, cui deve unirsi la valutazione sul comportamento della nostra specie e dei suoi valori sociali e individuali nei riguardi della “casa” comune che ci ospita insieme ad altri miliardi di specie viventi. Non per nulla ormai si parla di “geoetica”, nella convinzione che, come sottolineano Raffaele Matteucci et al., 2014, “geoscientists have to make good use of their sound knowledge of the Earth history and the laws that govern geological processes and guide the management of locai and global use of Earth resources, thus ensuring sustainability of human life in the long term”. È chiaro che etica ed estetica si sono evolute nel tempo con il mutare della percezione che l’uomo ha avuto nel corso della sua storia di realtà naturali quali montagne, ghiacciai e clima. Colpisce soprattutto l’ambivalenza di questa percezione, che nella cultura simbolica premoderna vede l’acqua allo stato solido, e in generale molte delle componenti del paesaggio montano, come elementi di negatività. La Piccola Età Glaciale è ricca di manifestazioni e testimonianze che vedono i ghiacciai e l’alta montagna in genere, dimora di demoni e streghe o in ogni caso sede di forze distruttrici che possono devastare campi, foreste, abitazioni. Sono ben note le rielaborazioni tardo ottocentesche di Henry George Willink del 1892 o di H. Wieland del 1898 che raffigurano rispettivamente il Ghiacciaio Wilderwurm durante la Piccola Età Glaciale in forma di drago gigantesco che scende da una stretta valle verso l’avampaese, dalla cui bocca mostruosa non fuoriescono fuoco e fiamme, bensì acqua gelida, e la processione al Ghiacciaio Mittelberg, sulla cui fronte si innalzano croci, si susseguono preghiere ed esorcismi per impetrarne l’arresto e allontanare la punizione divina (non dobbiamo del resto stupirci, anche in tempi recentissimi in momenti siccitosi si sono svolte processioni per chiedere piogge e acqua). Ancora all’inizio dell’Ottocento Joseph-Marie Couttet, guida a Chamonix, poteva scrivere: Cette année 1825, les glaciers n’ont pas atteint nos champs. On craignait de voir des maisons détruites comme il y a cent ans. Aujourd’hui, les glaciers avancent et reculent sans que l’on sache pourquoi. Peut-etre que dans 200 ans ils auront disparu de nos montagnes: qui sait?“. Ma la rivoluzione era già iniziata, montagne e ghiacciai si apprestano a divenire da un lato laboratori scientifici che sconvolgono le certezze bibliche, dall’altro sublimazione romantica da parte di una élite urbana alla ricerca di un possibile Eden (su questi temi si vedano, fra gli altri, Enrico Camanni, 2010 ed Elisabetta Dall’Ò, 2019).
La transizione successiva, pur negli intrecci delle percezioni estetiche e delle convinzioni etiche, è ancora più rapida e porta alla visione novecentesca della montagna e dei suoi ghiacciai, che diventano regioni da esplorare, obiettivi di conquista e soprattutto luoghi di svago e di attività che potremmo genericamente definire sportive e che coinvolgono grandi masse di persone. Da qui nascono quei paradossi, come, per fare solo un paio di esempi, l’infrastrutturazione dell’alta montagna che in alcuni siti deve garantire per poche settimane all’anno livelli di vita comparabili a quelli urbani, mentre nella valle contermine predominano spopolamento e abbandono, oppure le code di centinaia di persone che non solo si accalcano sugli itinerari che portano a vette famose, “relativamente” poco elevate, come il Monte Bianco o il Cervino, ma annaspano lungo i pendii che portano alla cima dell’Everest. Paradossi che la sociologia e l’economia si affannano a interpretare, il più delle volte senza successo. L’alba del nuovo secolo (se vogliamo utilizzare una periodizzazione certamente comoda, ma troppo schematica) vede la diffusione di nuove consapevolezze che nascono da un diverso intreccio etico-estetico, intreccio che a loro volta possono amplificare. Si diffonde da un lato la percezione di un paesaggio montano totalmente deprivato delle sue caratteristiche di naturalità (o meglio di pseudonaturalità) e si grida alla perdita di un “paradiso perduto” (qualcuno ha scritto che i parchi e le aree protette sono la testimonianza più evidente del fallimento di un rapporto positivo fra la nostra specie e il resto dell’ambiente); dall’altro lato la scienza comincia ad evidenziare le capacità umane di interferire pesantemente sui sistemi naturali (in particolare l’atmosfera) e a mettere in discussione le convinzioni dello sviluppo infinito. Termini come “cambiamento climatico” e “riscaldamento globale” diventano in breve di utilizzo comune e di universale diffusione, anche se non hanno inciso profondamente (almeno finora) su comportamenti a vasta scala. Il ghiacciaio, nella percezione comune l’elemento certo più emblematico del paesaggio di alta montagna, è divenuto in pochi anni il simbolo, e a livello scientifico anche il sintomo, più evidente dei cambiamenti climatici in corso, un vero e proprio canary in the coalmine. Le sue trasformazioni (in particolare i cambiamenti di lunghezza, di superficie, di volume) rappresentano un’integrazione delle variazioni del bilancio energetico, e ne fanno quindi un indicatore affidabile di questi fenomeni. La consapevolezza che queste modifiche del bilancio energetico siano massicciamente dovute alle attività antropiche recenti è (o dovrebbe essere) universalmente diffusa e dovrebbe implicare un deciso mutamento comportamentale basato su quella che definire “rivoluzione etica” non è certamente esagerato. Non è questa la sede per approfondire né a livello scientifico né a livello socio-economico il complesso tema del cambiamento climatico globale e soprattutto delle iniziative di mitigazione e di adattamento che sarebbe ormai urgente intraprendere. È un tema al quale, come è ben noto, sono stati dedicate migliaia e migliaia di libri e di articoli che fanno capo ai più svariati campi della scienza.
Mi sia consentita come unica citazione riproporre le parole di un famoso glaciologo statunitense, pioniere delle perforazioni non solo nei ghiacciai polari ma anche nei ghiacci montani e alpini: “… there is now a very clear pattern in the scientific evidence documenting that the earth is warming, that warming is due largely to human activity, that warming is causing important changes in climate, and that rapid and potentially catastrophic changes in the near future are very possible. This pattern emerges not, as is so often suggested, simply from computer simulations, but from the weight and balance of the empirical evidence as well (Lonnie G. Thompson, 2010)”. Queste affermazioni derivano da osservazioni, ricerche, analisi effettuate direttamente nelle zone polari e sui ghiacciai delle montagne più alte dei vari continenti, dall’Himalaya alle Ande, al Kilimanjaro, e recentemente anche su ghiacciai italiani. Da queste parole è trascorso un decennio e le ricerche scientifiche successive, sempre più approfondite e affidabili, non hanno fatto altro che confermare quanto affermato da Thompson (IPCC, 2019). Questa evoluzione è stata accompagnata dallo sviluppo della già citata “geoetica” che tende sia alla valorizzazione sia alla salvaguardia di quella che in senso lato possiamo definire Geosfera, di cui montagna e ghiacciai sono parte integrante, senza dimenticare naturalmente che il tutto fa parte di un ambiente dove geosfera e biosfera sono inscindibili e interagenti. Da questo clima culturale nasce la recente antropomorfizzazione dei ghiacciai, che tende a definirli una “specie” in pericolo o addirittura in estinzione (glaciers en-dangered species, per ripetere le parole di Mark Carey, 2007), portando a una riclassificazione ontologica ed epistemologica del ghiacciaio stesso. Non più o non solo oggetto più o meno significativo e attrattivo per la ricerca scientifica fine a se stessa, non più o non solo elemento di polarizzazione di flussi alpinistici ed escursionistici sempre più intensi, ma soprattutto luogo centrale ed emblematico che sta sperimentando gli effetti dei cambiamenti climatici, dove scienza e conoscenza, politica e società interagiscono in un sistema socioeconomico totalmente dinamico. L’approccio al ghiacciaio tende quindi ad uscire dagli ambiti di una glaciologia in senso più o meno lato, dominio delle scienze della Terra, dove geologi, geofisici, idrologi, climatologi, meteorologi, fisici, chimici, si affannano a ricercare cause ed effetti delle trasformazioni di una realtà naturale che occupa meno di un decimo della superficie terrestre. I nuovi ambiti dell’approccio moderno al ghiacciaio potrebbero definirsi olistici, nella convinzione che questa “specie” in pericolo necessiti di attenzione, di cura e di interesse da parte della nostra specie, consapevole di avere grandi responsabilità in questi accadimenti.
La transizione ontologica ed epistemologica nello studio dei ghiacciai deve sfociare quindi in una transizione etica. In altre parole si deve arrivare a una situazione, per seguire Elizabeth Allison (2018), “in which human ethical obligations for the amelioration of harm to glaciers arise from the realization of human responsibility for the decline and “endangerment” of glaciers”. Mai come durante l’estate 2019 si è assistito a una serie di manifestazioni, talune molto folcloristiche e ampiamente divulgate dai mezzi di comunicazione, riguardanti i ghiacciai in pericolo di estinzione o già estinti. Concerti di requiem, posa di lapidi, veri e propri funerali si sono succeduti dai ghiacciai islandesi a quelli del Lys sul Monte Rosa o dei Forni sull’Ortles-Cevedale fino al Calderone in Appennino, vera icona di un fenomeno globale. Sono iniziative certamente utili e lodevoli per sensibilizzare l’opinione pubblica su eventi che stanno avendo un impatto non lieve sulla vita di ciascuno di noi e soprattutto, se non si procederà a rapidi e decisi interventi di mitigazione, avranno impatti sensibili sulle future generazioni. L’auspicio è che tutto ciò contribuisca a farci evolvere da un’ecologia ambientale ad un’ecologia culturale e integrale (o meglio “integrata”), che si configuri quindi come etica ambientale, culturale, integrale. L’ideale sarebbe fare nostre in modo concreto parole pronunciate pochi anni fa, dove ecologia, etica ed estetica si fondono e si autosostengono:
“Se noi ci accostiamo alla natura e all’ambiente senza apertura allo stupore e alla meraviglia, se non parliamo più il linguaggio della fraternità e della bellezza, nella nostra relazione con il mondo, i nostri atteggiamenti saranno quelli del dominatore, del consumatore o del mero sfruttatore delle risorse naturali, incapace di porre un limite ai suoi interessi immediati. Viceversa, se noi ci sentiamo intimamente uniti a tutto ciò che esiste, la sobrietà e la cura scaturiranno in maniera spontanea (Papa Francesco, 2015)”.
Bibliografia citata
- Allison Elizabeth (2018) – Mountains of Memory: Confrontìng Climate Change in Sacred Mountains Landscape. In: Hobgood L. & Bauman W. (Eds.): The Blo-omsbury Handbook of Religion and Nature. The Elements. Bloomsbury Academic, London, 209-218.
- Camanni Enrico (2010) – Ghiaccio vivo. Storia e antropologia dei ghiacciai alpini. Priuli & Verlucca, Scarmagno (To), 303 pp.
- Carey Mark (2007) – The History of lce: How Glaciers became an Endangered Species. Environmental History, 12, 497-527.
- Dall’Ò Elisabetta (2019) – I draghi delle Alpi. Cambiamenti climatici, Antropocene e immaginari di ghiaccio. In: Gugg Giovanni, Dall’Ò Elisabetta, Borriello Domenica (Eds.): Disasters in Popular Cultures. Il Sileno Edizioni, Rende (Cs), 197-222.
- IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) (2019) – Summary far Policymakers. In: IPCC: Special Report on the Ocean and Cryosphere in a Changing Climate. WMO-UNEP, 42 pp.
- Papa Francesco (2015) – Laudato Si’. Lettera Enciclica del Santo Padre Francesco sulla Cura della Casa Comune. Libreria Editrice Vaticana, Roma.
- Matteucci Ruggero, Cosso Guido, Peppoloni Silvia, Piacente Sandra, Wasowski Janusz (2014) – The “Geoethical Promise”: A Proposal. Episodes, 37, 190-191.
- Monterin Umberto ( 1932) – Lo spopolamento montano nelle ricerche antropogeografiche sulla media e bassa Valle d’Aosta con particolare riguardo alla Valle di Challant. In: Studi e monografie dell’Istituto Nazionale di Economia Agraria n. 16 – Lo spopolamento montano in Italia, I, Failli, Roma, 209-309.
- Thompson Lonnie G. (2010) – Climate Change: The Evidence and Our Options. The Behavior Analyst, 33, 153-170.