di Paolo Crosa Lenz
(pubblicato su Lepontica 39)
Il rastrellamento della Val Grande, un vasto territorio alpino tra il Verbano e l’Ossola oggi tutelato come parco nazionale, rimane ancora oggi impresso nella memoria storica delle popolazioni locali come uno degli eventi più tragici della Resistenza.
Dall’11 giugno al 1° luglio 1944 l’operazione, coordinata dal comando SS di Monza, tese ad annientare la formazione partigiana attestata nella zona: il Valdossola di Dionigi Superti, coinvolgendo anche la Cesare Battisti e la Giovane Italia.
Per venti giorni parecchie migliaia di soldati tedeschi e fascisti (con l’appoggio di aerei, blindati e artiglieria pesante) braccarono circa 500 partigiani, molti dei quali disarmati.
Il rastrellamento vide atti di estrema ferocia da parte dei reparti speciali antiguerriglia delle SS con torture, fucilazioni sommarie di civili, partigiani gettati vivi dai dirupi.
Vittime del rastrellamento non furono solo le formazioni partigiane, ma anche pastori e alpigiani, che pagarono con la vita e la distruzione di stalle e alpeggi l’appoggio dato alla Resistenza.
La mattina del 20 giugno 1944, alcuni partigiani catturati durante il rastrellamento vengono prelevati dalle cantine dell’asilo di Malesco, caricati su un camion e condotti nei sotterranei di Villa Caramora a Intra, sede del comando SS. Dopo ore di sevizie e torture, verso le 15.00, 41 partigiani, più il gappista Marino Rosa di Intra e una donna, Cleonice Tomassetti, vengono fatti sfilare incolonnati da Intra a Fondotoce.
Le strade sono deserte, le persiane chiuse, la città è silenziosa. In testa alla “colonna” con Cleonice due partigiani sono costretti a portare un cartello con la scritta: “Sono questi i liberatori d’Italia oppure sono i banditi?”.
La marcia dei prigionieri si conclude a Fondotoce sulla riva del canale che mette in collegamento il Lago di Mergozzo con il Lago Maggiore. I martiri a tre a tre vengono uccisi dal plotone di esecuzione. Un ufficiale tedesco spara a ciascuno un colpo alla nuca.
Si salva solo il partigiano diciottenne Carlo Suzzi, ferito e coperto dai cadaveri dei compagni. A sera verrà raccolto dalla popolazione di Fondotoce, curato e messo in salvo. Riprenderà a combattere da partigiano fino alla Liberazione con il nome di battaglia Quarantatré.
In passato avevo già visto la fotografia della colonna di prigionieri partigiani, ma non ne sapevo altro.
Grazie a Paolo Crosa Lenz per le notizie.
Grazie per questo ricordo. Morti per la libertà