L’isola della vela

di Giorgio Giua, pubblicato su Giorni diversi

 

Sbarco sull’isola un lunedì mattina di metà settembre. Mi vengono a prendere il titolare e due giovani istruttori della scuola di vela. Sono gen­tili ed educati, forse mi guardano con curiosità per i capelli bianchi, ma non fanno domande.

Sono venuto a fare l’istruttore anche io, un “lavoro” procurato da Lorenzo, mio eclettico secondogenito, che, per mancanza di tempo, non riesce a cogliere tutte le opportunità che la vita gli offre. Lorenzo mi è empaticamente solidale: sa che da quando ho accettato il prepensiona­mento, terrorizzato dall’idea del “vuoto lavorativo”, svolgo volentieri attività di ogni tipo, soprattutto se all’aria aperta, rispolverando antiche passioni tra cui, in primis, la vela. La situazione è paradossale: invece di essere io ad aiutare mio figlio a cercare lavoro, è lui che me lo rimedia!

A vela ero discreto come regatante e poi apprezzato come istruttore non professionista; intorno ai trent’anni allenavo la squadra zonale di Laser, classe che poi sarebbe diventata olimpica. In pratica mi occupavo di una selezione di ragazzi che aspiravano a diventare atleti di interesse nazionale e probabili olimpici.

“Ma ora chissà …. Non insegno da tanto tempo”, continuo a rimu­ginare sul gommone, mentre attraversiamo la baia, “non vorrei essere obsoleto, i genitori di questi istruttori sono sicuramente più giovani di me”.

La base nautica è piena di vita: decine di ragazzi, per lo più adole­scenti, sciamano tra la base e la spiaggia dove sono in secco le imbarca­zioni. La scuola è grande, vanta una flotta di oltre quindici imbarcazioni e una dozzina di istruttori; questi ultimi sono tutti giovanissimi, liceali o al massimo universitari. Anagraficamente potrei esserne il nonno. Ma sono bravi, mi incanto a sentirli spiegare i primi rudimenti di vela; alcuni hanno il dono dell’insegnamento e tengono sotto controllo la platea di allievi con energia positiva.

1979 Giorgio in azione. Foto: Giorgio Giua

“Quante cose ci sono che non ricordo, possibile? Faccio le cose in maniera automatica da una vita, ma poi chissà se sarei capace di spiegarle con verve e semplicità, come fanno loro? Quant’è che non insegno vela o qualsiasi altra cosa, venti, trent’anni?”

Finisce la teoria e inizia la pratica; mentre issiamo le vele e conti­nuiamo a spiegare i nodi e le principali manovre, mi rendo conto che alcuni degli allievi del gruppo che mi è stato assegnato non sono entu­siasti di venire a bordo con me. Giustamente preferirebbero andare con uno degli aitanti giovanotti miei colleghi, di pochi anni più grandi di loro e dal classico fascino del “maestro”: di vela, di sci o di tennis è lo stesso, funziona sempre benissimo. Mi tranquillizzo vaneggiando presuntuo­samente che forse anche io, con le loro mamme, avrei un certo appeal e continuo a fare il mio lavoro. Fortunatamente le regole della scuola sono rigide: gli equipaggi vengono assegnati tramite sorteggio o su in­dicazione degli istruttori e non si possono cambiare.

Istruttori e istruttrici sono tutti molto gentili con me: ogni tanto qual­cuno si affaccia e mi chiede se ho bisogno di una mano. In effetti, non conoscendo bene queste barche scuola, ogni tanto mi devo fermare a riflettere su come organizzare al meglio alcune manovre specifiche. Ma, in fondo, le barche sono tutte uguali e non ho particolari problemi ad armare anche quelle di questo tipo. Tutti questi riguardi nei miei con­fronti un po’ mi infastidiscono. Mi sento “vigilato speciale”, quasi una “grana” in più da gestire per loro.

Finalmente usciamo in mare, gli allievi sono attenti e seguono bene la parte pratica. La giornata è bella e la brezza giusta per l’insegnamento. Mano a mano che prendo confidenza con il timone dell’imbarcazione, inizio a divertirmi e mi accorgo che riesco a suscitare interesse nei ra­gazzi. Quando è ora di rientrare a terra, starei volentieri un’altra ora in acqua: gli allievi più svelti hanno già capito i capricci del vento e la re­golazione di base delle vele. Mi sento sereno e appagato, la prima gior­nata è andata!

Andiamo in foresteria dove, invece, il caos è indescrivibile; a fine estate si sono accumulati strati di lenzuola usate, magliette abbandonate, zaini e valigie di tutte le fogge, felpe e accappatoi. Per questa foresteria ci sono passate centinaia di persone e, nonostante la pulizia periodica, è impossibile che sia tutto in ordine.

Fortunatamente non sono schizzinoso, chiedo ai compagni di stanza dove mi posso sistemare e mi indicano la cuccetta più disordinata, quella dove è stata accumulata tutta la roba “avanzata” del turno precedente. Mi do da fare, piego le lenzuola da lavare alla buona e le infilo nella cesta, sistemo le coperte nell’armadio, metto borse e indumenti sugli scaffali. Poi tiro fuori il mio sacco lenzuolo da 150 grammi, amico fidato di tanti pernotti al rifugio, e lo stendo con cura sul materasso, suscitando la curiosità degli astanti non abituati a un corredo del genere.

Dopo cena i ragazzi vanno in paese, sembra che ci sia una festa molto partecipata; qualcuno mi invita, ma si vede che è un proforma. Preferi­sco leggere un po’ e andarmene a dormire. Il giorno dopo si attacca alle 9,00 e non voglio essere l’ultimo ad arrivare. Con il passare dei giorni la sensazione di essere “sotto custodia” si attenua; gli allievi non mi danno più del “lei” e non fanno storie quando mi vengono assegnati. Anche gli istruttori e il direttore della scuola si rilassano; abbiamo avuto un giorno di vento con mare formato e hanno potuto verificare sul campo la mia affidabilità. Si instaura un clima di rispetto, distaccato, ma di ri­spetto.

Il distacco si attenua un po’ quando una sera offro una bottiglia di amaro a tutto lo staff, ma la distanza è ancora tanta perché, per loro, sono veramente troppo vecchio. Io che, in genere, riesco ad “attaccare bottone” con tutti, potendo argomentare su diversi temi, dal lavoro, allo sport, alla politica, al sociale, faccio fatica ad aprire una breccia nelle re­lazioni tra diciottenni che hanno in comune con me solo la vela.

Ma la vita scorre bene lo stesso: la scuola di vela funziona come un’al­legra macchina da guerra che coinvolge più di cento persone tra allievi, istruttori, personale di terra e addetti alla logistica; ho il tempo per leg­gere diversi libri e nei ritagli di tempo posso dedicarmi alla visita del­l’isola; qualche mattina riesco addirittura ad andare a correre. Non c’è niente che non vada, mi sento un po’ estraneo, ma non è grave, sarà solo per poche settimane.

Dopo aver armato la barca, si è pronti a veleggiare. Foto: Giorgio Giua

L’ultimo giorno di ogni corso ci sono le regate. Quando facevo l’istruttore nei villaggi, a vent’anni, erano in assoluto l’avvenimento più

temuto dai direttori delle scuole di vela. Infatti, come nelle partite a cal­cetto tra scapoli e ammogliati, in regata esce sempre fuori il peggio di noi. Ogni istruttore vuole fare bella figura con gli allievi e questi ultimi spesso fomentano la situazione con un tifo da stadio. Succede quindi che ci siano incidenti e barche danneggiate per via del mancato rispetto delle regole sulla precedenza in navigazione.

Le consuetudini di questa scuola prevedono che la prima regata la faccia al timone l’istruttore, capo barca, per illustrare il percorso e le ma­novre; le altre, a seguire, gli allievi a turno, generalmente quattro o cinque per barca.

Vinciamo la prima regata con un buon margine; facile per me, gli altri sono bravi istruttori, ma almeno in questo turno non ce n’è nessuno che abbia un passato da regatante: non regolano perfettamente le vele, non correggono l’assetto dello scafo al mutare dell’intensità del vento, non individuano subito la rotta giusta e non sono smaliziati sulle regole di ingaggio tra le imbarcazioni. Ora tocca ad uno dei miei allievi, porgo il timone al più bravo e spero di non trascendere nella foga di impartire ordini all’equipaggio. Partiamo maluccio, ma è inevitabile, per partire bene in una regata ci vogliono anni di esperienza, non può bastare di certo un corso di una settimana! Mi impongo di non toccare il timone per “deontologia professionale”, ma cerco di coinvolgere timoniere ed equipaggio con la mia carica emotiva: “Orza”, “Poggia”, “Cazza”, “Lasca”, “Vira”, “Avanti”, “Indietro” “Fuori che sbandiamo”, “Dentro che è calato il vento”. I ragazzi mi ascoltano e vinciamo anche la seconda regata; di misura, ma la vinciamo. L’equipaggio è alle stelle e comincia con i cori di sbeffeggiamento rivolti agli avversari.

Istruttore velico. Foto: Giorgio Giua.

Cambiamo timoniere e ci piazziamo bene anche nella terza regata. Gli altri istruttori si lamentano, dicono che abbiamo la barca più veloce. Allora cambiamo imbarcazione e rimescoliamo gli equipaggi: ora tutti gli allievi vogliono venire con me sperando di vincere almeno una re­gata.

Per farla breve, mi piazzo sempre bene, pur cambiando barca ed equipaggio. Gli allievi mi osannano e alcuni istruttori diventano più friendly: “A Giò, ma che facevi le regate?” mi domanda qualcuno a terra.

“Senti, noi ci facciamo un aperitivo, che fai vieni?” mi chiede un altro. Quando facciamo il giro dell’isola, vuoi per fortuna, vuoi per mestiere, veleggio sempre in testa al gruppo. Ormai ho imparato a conoscere bene queste barche scuola: sono datate e ben rodate come me e, forse per questo, non hanno più segreti. Inoltre mi avvantaggio della psicologia degli allievi: tutti mi stanno a sentire quando parlo e si danno da fare per non deludermi. Così, siamo sempre concentrati e, di conseguenza, più veloci perché sbagliamo di meno.

I caffè e gli aperitivi con gli altri istruttori diventano più frequenti e dal rispetto distaccato è facile passare alla solidarietà cameratesca. La conferma definitiva dell’affiliazione al gruppo arriverà anche dall’atletico e piacente leader degli istruttori, che una sera a tavola mi domanda:

“Ti va di venire a correre domani mattina?”

 

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