Un legame indissolubile
(secondo e terzo racconto dalla serie L’arte della solitudine)
di Armin Speranza
Quest’estate ho trascorso gran parte dei miei giorni liberi dal lavoro esplorando le meravigliose montagne cadorine, tra le Marmarole, gli Spalti Di Toro, i Monfalconi e la Cridola. Tante giornate in luoghi mai visitati accomunate da alcuni fattori, solitudine, curiosità e sano allenamento. Queste montagne sono state letteralmente una palestra, dove ho corso, scalato, camminato, trascorso lunghe notti misurandomi fino allo sfinimento, luoghi dove pensare in grande, fantasticare, immaginare, apprezzare la qualità della vita selvaggia che pure lassù tra tanta ostilità trova un posto dove crescere.
La montagna non è democratica ed è lì che sono diventato forte, imparando una ferrea disciplina che mi ha allontanato dai vizi della vita quotidiana, mi ha ridotto all’essenziale lasciando un grande spazio per crescere ed espandere l’immaginazione.
Fin da piccolo, quando competevo nelle gare di atletica leggera, i miei allenatori me lo dicevano, hai una marcia in più, pure gli amici, i coetanei e così i dottori quando mi visitavano notavano una capacità polmonare fuori dalla norma. Oggi con i mezzi moderni a disposizione di tutti ho scoperto di avere un VO2max molto alto. In breve è la quantità di ossigeno che si riesce a veicolare per ogni chilo di massa corporea in un minuto, misurato in milligrammi. Però vennero problemi di natura familiare ad ostacolarmi fuorviando la mia strada verso vicoli ciechi, verso lo sbando, verso una vita grama. Così per anni ho abbandonato la vita sportiva, un vero buco nero. Eppure la montagna mi ha sempre chiamato, urlava di tornare ma ero sordo. Il mio sguardo però non poteva non cadere su di lei, il fascino che la vista delle montagne suscitava in me non è mai scemato ma erano così distanti, così grandi, alte, irraggiungibili. Per alcuni rimangono fonte d’ombra, ostacolo ad un tramonto più lungo, per altri sono fonte di forza e ispirazione.
Ci tornai e a poco a poco ripresi in mano le redini della mia vita attraverso la disciplina che le montagne richiedono per essere vissute come io volevo. Quello fu il periodo più nero della mia vita, avevo abbandonato uno dopo l’altro due posti di lavoro, abitavo in un piccolo monolocale dalla quale uscivo la mattina e rientravo la sera dopo aver trascorso l’intera giornata per sentieri e cime delle Vette Feltrine che avevo a pochissimi chilometri di distanza. La signora a cui pagavo l’affitto che abitava poco distante credo si preoccupasse un po’, le avevo accennato qualcosa riguardo i miei giri ma senza scendere troppo nel dettaglio.
Inizialmente camminavo e camminavo instancabilmente, poi per necessità iniziai a correre pur di non trovarmi al buio in quota o nei grandi boschi che dal tramonto in poi prendevano letteralmente vita tra il via vai di bestie e le sagome della natura circostante che nella penombra diventano figure indistinte e inquietanti.
Ricordo nitidamente quando nei pressi di Passo Finestra, di ritorno da un lungo giro nei pressi del Sass De Mura, pur di fare in fretta e anticipare il buio, uscii dal sentiero prendendo una vecchia traccia poco battuta che scendeva a valle più diretta. Ero ancora in alto, correvo ingenuamente a grandi balzi, entusiasta della giornata trascorsa, fino a che mi resi conto di essermi perso, la traccia già labile di per sé era completamente svanita, la luce sempre più fievole, il bosco ripido e disastrato, cumuli di foglie e rami secchi ovunque, tronchi caduti qua e là. Iniziai ad andare in panico, ero sceso così velocemente che pur ripercorrendo i miei passi non cambiava nulla, tutto intorno a me era uguale identico e nulla mi riconduceva a qualcosa di simile ad una traccia.
Ricordo solo che andai ad intuito, muovendomi verso il fondovalle spostandomi sempre verso destra dove da qualche parte doveva per forza passare il sentiero. Pur di allontanare il panico pensavo solo a muovermi, fu un lasso di tempo interminabile ed era quasi totalmente buio quando con un sollievo indescrivibile intravidi qualcosa dai lineamenti troppo regolari nel caos del bosco abbandonato a se stesso: era il sentiero. Non avevo nemmeno un cellulare quel giorno, insomma commisi una serie di errori superficiali che oggi non farei mai perché la cautela è diventata una delle armi più preziose nel mio bagaglio. Il succo della giovinezza è proprio l’opposto della previdenza. Una cosa non è cambiata da allora, un motto che mi accompagna, se la solitudine è una scelta allora la conseguenza è di assumersene appieno la responsabilità.
Correre tornò ad essere un’abitudine come nella mia prima giovinezza e nell’adolescenza. Iniziai a comprendere che non erano poi tanto estese queste montagne, compresi che avrei potuto vederne molte, molte di più, questo desideravo e avrei potuto muovermi molto più leggero, in fondo ero lì per vivere l’ambiente non per accomodarmi su di esso.
I ricordi degli allenamenti di atletica iniziarono a riaffiorare e fu come riprendere in mano una bicicletta dopo tanti anni, devi riacquistare la forma ma non puoi dimenticare come si sta in sella. Non fu facile, la montagna mi prese a schiaffi, a calci, mi fece sentire tanto debole che dubitai delle mie capacità ma non mi cacciò mai, mi ferì molte volte ma non mi uccise, imparai ad essere onesto con me stesso, a partire da leone e a tornare meno arrogante, più consapevole di ciò che sapevo fare e ciò che dovevo migliorare.
Ogni volta porto a casa un dono, un piccolo insegnamento, una preziosa scintilla da utilizzare per creare quel fuoco che oggi ho riacceso dentro di me grazie allo sport, all’esplorazione, alla dura disciplina richiesta per allenarsi e sopravvivere lassù. È la scintilla della forza, della tenacia, della fantasia, degli spiriti liberi e soli.
Non ho mai più partecipato ad una competizione in vita mia, non ne sento il bisogno e così tanto devo recuperare verso me stesso che non esiste avversario più grande dell’abisso che avevo scavato tra me e me e che ancora devo colmare.
Raro e prezioso
(terzo racconto dalla serie L’arte della solitudine)
di Armin Speranza
La solitudine va imparata e, come ogni cosa, per essere appresa richiede fatica, crea repulsione e attrazione, dona gioia e fiducia in sé stessi.
Per impararla sono salito sulle montagne, ho prescelto le più selvagge tra le Dolomiti dove la natura dei luoghi è aspra e bellissima, dove gli incontri sono rari e preziosi, i sorrisi sinceri come le strette di mano. Ho incontrato più bestie che esseri umani ed entrambi bellissimi. Ho incontrato due ragazzi tedeschi alle prese con un percorso difficile sulle Marmarole, lo stesso dalla quale stavo rientrando, ho dato loro indicazioni e consigli nel mio inglese corretto ma fin troppo essenziale e la luce nei loro occhi, gli auguri di buon proseguimento e la bella stretta di mano scambiata forse sembreranno una banalità ma lassù tra le asperità un suggerimento, un’indicazione, una rassicurazione, un saluto vale come oro perché l’ambiente ti schiaccia, ti denuda, ti svuota ed anche un piccolo gesto può riempire di vigore.
Nella valle dei Monfalconi di Cimoliana un magico mattino azzurro incontrai un intero branco di camosci. Non appena fui fiutato le femmine e i più piccoli scapparono lanciandosi a capofitto lungo immensi ghiaioni mentre i maschi si tennero a breve distanza, alcuni arrampicandosi sulle pareti della Cresta del Leone, altri mantenendosi poco distanti dalla traccia. Io correvo sulle ghiaie e loro con me parallelamente, mi fermavo e così loro, ci osservavamo e forse stavamo giocando assieme. In quel momento ero uno di loro, i miei tendini, la potenza e il controllo muscolare che ho allenato negli anni li ho ammirati in loro e da loro mi sono ispirato.
Durante l’inverno finite le nove ore di lavoro passavo il tempo con il mio migliore amico, un bilanciere olimpico e quasi ogni giorno per mesi caricavo i soliti cento chili e giù di squat e affondi in tutte le salse perché la montagna pesa, la salita spacca, la discesa corrode e solo un pazzo non condiziona i suoi muscoli e articolazioni fino a farli diventare acciaio, così vale per le mani, i polsi, le braccia e le spalle ma con metodi differenti. Questa è solo pratica vita quotidiana: quindi torniamo in montagna dove c’è la poesia, torniamo nei Monfalconi e dai camosci. Il momento più bello è stato quando ormai sceso dove i primi alberi trovano il loro spazio, un camoscio dal pelo stranamente molto grigio mi accorsi era a pochissimi metri da me dietro un abete rosso e mi scrutava. Difficilmente si avvicinano così tanto all’uomo e di certo non lo avevo colto di sorpresa. Rimasi stranito e lo guardai così intensamente che ne ricordo perfettamente le sembianze, era adulto e robusto. I nostri occhi si incrociarono ma non volevo sfidarlo e distolsi subito lo sguardo. Le bestie selvagge sono imprevedibili e nutro sempre un certo timore di loro, una sensazione atavica. Battei le mani e ruppi l’incantesimo. Con la potenza che solo una bestia possiede, in tre balzi era già lontano metri. Via ognuno per la sua strada, lui quella delle cenge e delle rocce, io quella dei boschi dei Monfalconi.
Attendevo l’arrivo della notte al bivacco Gervasutti sugli Spalti di Toro, un riparo fatiscente corroso dal tempo e maltrattato da alcuni. In quella giornata le nuvole vorticavano attorno a me in continuazione da quando ero entrato nel versante friulano degli Spalti, i torrioni, le pareti, le cime più distanti d’un tratto non esistevano più. Riapparivano come sagome scure e indefinite fino a mostrare tutta la loro imponenza e nuovamente si celavano e così via in un continuo succedersi di forme e prospettive differenti.
Io stavo attorno al mio fuoco, acceso con fatica dopo aver vagato nel Cadin degli Elmi ripulendo i mughi, i magri larici e i piccoli abeti rossi delle loro parti morte. Ero lì assorto e speravo invano di vedere qualcuno scendere lungo la traccia che porta al bivacco quando sulla cresta apparve un camoscio, adulto, fiero, si muoveva lento, i passi delicati, la nebbia lo avvolgeva ma non era fitta abbastanza da escluderlo alla mia vista. Sembrava un dipinto e un miraggio. Lo ammirai, ammirai la sua libertà di poter essere lassù solo con la sua pelliccia, le sue corna e i suoi compagni, alcuni adulti altri più giovani che uno ad uno si affacciavano a dare un’occhiata nel Cadin. Avrebbero voluto scendere ma la mia presenza evidentemente li disturbava. Deve essere durissima la loro vita dalla prospettiva di un uomo ma loro non conoscono altro che quella perciò non lo è. Eccoli che proseguirono lungo il filo di cresta e d’un tratto la nebbia li avvolse, offuscò ogni cosa, non li vidi più.
Rimaniamo io e il fuoco, lo strepitio del peccio che brucia e le vive scintille. Le nubi si fanno sempre più cupe e avvolgenti, arriverà la pioggia ma io rimango ancora molto tempo a ravvivare la fiamma, ho tagliato un paio di tronchi di larice rinsecchito abbastanza spessi da garantirmi parecchia autonomia.
Il tempo scorre in quell’atmosfera mistica, la nebbia mi abbraccia e si è fatto buio, l’unica luce e fonte di calore siamo noi. Di tanto in tanto scruto l’oscurità e l’immaginazione vorrebbe espandersi a tal punto che devo fermarla.
Decido di andare a stendermi solo per qualche minuto sulla branda, non si abbandona mai un fuoco acceso ma ho camminato per più di venti chilometri per arrivare qui, partendo dalla stazione dei treni di Calalzo di Cadore, il dislivello è vicino ai duemila metri, inoltre tagliare legna mi ha portato a girovagare per il Cadin un bel po’, perciò sento la stanchezza che come al solito si manifesta dalla schiena. Così mi stendo e nel giro di qualche secondo sento il rumore della pioggia che risuona sulla malridotta lamiera del bivacco, sembrava stesse aspettando che mi coricassi per iniziare. Cade così forte che non mi preoccupo più del fuoco, si sarà smorzato nel giro di qualche secondo, piuttosto mi preoccupo di capire dove l’acqua entri dal soffitto perché sento un gocciolio, mi assicuro che nulla dei miei capi e delle coperte del bivacco siano sulla traiettoria, mi sdraio e mi lascio cullare dal rumore della pioggia fino a che non mi addormento.
Avrei voluto salire qualche vetta tra le tante meravigliose che mi circondano ma è la prima volta qui, non conosco nulla, il telefono non prende, la nebbia è fitta e la solitudine rende tutto più severo e imponente. Questo pensavo prima di addormentarmi.



