Un’invasione che non riusciamo (e non vogliamo) fermare. Lo scienziato ambientale Piero Genovesi: questo disastro globale costa oltre 400 miliardi di dollari.
Lo tsunami delle specie aliene
(dalla Xylella allo scoiattolo grigio)
di Maurizio Menicucci
(pubblicato su lastampa.it/la-zampa il 18 febbraio 2025)
All’inizio, forse, non ci avevamo fatto caso. Poi, tra un pappagallo sul platano davanti a casa, un “sorcio gigante” nel parco metropolitano, un granchio turchino “appena pescato” in offerta al mercato, e, ultimissima, la notizia di centinaia di salmoni sulle coste dell’Alto Adriatico, probabilmente “evasi” da allevamenti croati, abbiamo cominciato a sospettare che, almeno dalle nostre parti, la storia della “biodiversità sempre meno diversa” non fosse altro che l’ennesima fola. Ma è un’impressione superficiale, alimentata dal fatto che siamo più attenti alle novità, mentre tendiamo a non accorgerci della sparizione dei “vecchi compagni” intorno a noi. Perché la verità è un’altra. Quegli stessi organismi, che sembrano arricchire il repertorio della natura italiana, lo fanno proprio a spese dei suoi ambienti, che ne vengono fatalmente impoveriti.
Perché, tranne rari casi di diffusione naturale, come lo sciacallo o il castoro nel Nord Italia, le nuove presenze s’iscrivono sempre tra le cosiddette specie aliene o alloctone: quelle, dice la scienza, prelevate dall’uomo, anche senza volere, nei territori d’origine, e immesse là dove, privi di nemici naturali, possono moltiplicarsi a volontà, causando danni enormi agli ambienti, all’economia e anche alla salute, con la diffusione di nuovi patogeni. Come i virus trasmessi dalla Aedes Albopictus, o zanzara tigre, la cui esemplare vicenda Piero Genovesi, uno dei nostri massimi esperti di fauna selvatica, riassume così, nel suo Specie Aliene, edito da Laterza: “Arrivata in un carico di pneumatici, ha portato con sé 20 microrganismi responsabili di febbri epidemiche come Chikungunia e Dengue”.
Anche gli invasori più grandi, però, possono essere ottimi veicoli di gravi malattie: la nutria, ad esempio, è associata alla temibile leptospirosi, tanto per chiarire che, al di là della simpatia che possono ispirarci questi grandi viaggiatori, siamo di fronte a un fenomeno gravissimo, al quale gli esperti addebitano, direttamente, o indirettamente, il 60 per cento di tutte le estinzioni degli ultimi decenni. Eppure, lo stiamo trascurando, prima di tutto perché non ci rendiamo conto di esserne responsabili, poi, perché è difficile da risolvere e, infine, perché è talmente ambiguo da sfuggire alla definizione.
Chi ha l’età giusta, potrebbe ricordare un surreale dibattito, negli Anni 70, su certi “ratti grandi come canguri” avvistati nel delta del Po. Erano nutrie, appunto, ma ora che lo sappiamo è troppo tardi: non possiamo più liberarcene. In Gran Bretagna, invece, sono intervenuti subito e per questo – racconta Genovesi – ce l’hanno fatta. “Il programma di eradicazione, voluto contro tutti dalla Thatcher, era costato circa 5 milioni di sterline in 11 anni. Oggi, in Italia, spendiamo ogni anno molto di più per i danni e per abbattere centinaia di migliaia di nutrie, ma senza incidere sulla popolazione complessiva”. Il punto è che, una volta socchiusa la porta della questione, si viene investiti da una valanga di casi e cause, soluzioni e obiezioni, da togliere il fiato a chi volesse andare oltre le righe, quasi sempre abborracciate e iperemotive, della cronaca generalista.
Eppure, per capirci qualcosa, occorre partire proprio da lì: dalle dimensioni complessive del problema e dal numero delle specie estranee. Genovesi ne conta circa 3500, in costante aumento ed equamente distribuite su tutti i pioli della scala naturale: 1061 piante, 1852 invertebrati, 461 vertebrati, 141 microbi; non tutti ospiti della Penisola, certo, ma lesti ad approfittare di ogni occasione per diventarlo, se non prendiamo coscienza del rischio e dei fattori che, dal commercio al riscaldamento del clima, li assecondano. In cima alla lista, soprattutto perché esemplifica un certo tipo di “contributo umano”, l’autore mette lo Sciurus carolinensis, uno scoiattolo che al tempo in cui lo svedese Carl von Linnè stilava il catalogo a doppio nome della natura viveva nei boschi temperati del Nuovo Mondo. Oggi è uno dei roditori più comuni del Nord-Ovest italiano, dove basta un alberello e dargli casa e rifugio anche in piena città.
L’Iucn, l’Unione Internazionale per la Conservazione della natura, lo considera uno dei 100 alloctoni più dannosi. A introdurlo – racconta Genovesi – fu un diplomatico subalpino. A metà ‘900, ignaro dei disastri già combinati dalla specie in Gran Bretagna, se n’era portati due esemplari da Washington, liberandoli nel Parco di Stupinigi. Da qui, i loro discendenti hanno infestato Piemonte, Lombardia e Liguria e minacciano Francia e Svizzera, che a loro volta minacciano ritorsioni all’Italia per la sua inerzia. Nella conquista di nuovi territori, “l’americano” è accompagnato da notizie spesso fantasiose, che lo dipingono come killer insaziabile dei piccoli di scoiattolo rosso o di uova e nidiacei. Invece, si tratta di competizione alimentare o, meglio, di uno scippo. Il “rosso” sotterra le proprie scorte di semi, aiutando anche la rigenerazione del bosco. Il grigio gliele sottrae, danneggiando oltre al cugino l’intero ecosistema, anche perché integra la propria dieta con la corteccia degli alberi, che diventano più vulnerabili all’attacco dei parassiti.
Il piano per eradicarlo era già pronto 20 anni fa, ma si era bloccato perché una parte dell’opinione pubblica trovava il roditore del Nuovo Mondo anche più carino e socievole del nostro e non vedeva il motivo di perseguitare una specie della cui presenza siamo noi i colpevoli. Aiutato dalle obiezioni animaliste, “il grigio” non ha avuto bisogno di dazi per imporsi al “rosso”, ormai confinato sopra i 700 metri di quota. Nel frattempo, in provincia di Varese, è comparso anche lo sciuro di Pallas, venuto chissà come dall’Asia. Dietro gli scoiattoli esotici, o meglio insieme a loro, nel catalogo degli ospiti più ingombranti, troviamo altri mammiferi, serpenti, anfibi, pesci e alberi, tutti uniti dal fatto di non aver chiesto a nessuno di cambiare aria, ma di essersi trovati in paradiso dopo averla cambiata: pochi e fiacchi avversari diretti in un mondo di nuove possibilità alimentari e ambientali.
Non è un caso se proprio le isole, dove, come insegna Darwin, queste caratteristiche ecologiche sono espresse al livello più alto, siano anche gli habitat più sensibili: quelle che una sola specie estranea può trasformare in un deserto. Genovesi ce ne racconta di devastate da serpenti, da chiocciole giganti, da piante, formiche, ratti, coleotteri e conigli; di salvate e anche di ormai perdute, come le Hawaii, dove la malaria aviaria ha eliminato 56 delle 114 specie originarie di uccelli. Poi ci sono i mari e tra questi “l’alienatissimo Mediterraneo”, esso stesso, in fondo, isola d’acqua sempre più tiepida e invitante per le specie esotiche portate a zonzo con le zavorre liquide dei mercantili: come il Callinectes sapidus, o granchio blu, che campeggia sulla copertina del libro, e il neurotossico e letale Lagocephalus scellerato, o pesce palla argenteo, per citare due degli esempi più noti di una catastrofe ecologica rappresentata da circa 900 invasori.
Dove, però, la vicenda delle specie aliene rischia di ingarbugliarsi è quando rivela di essere cominciata molto tempo fa e di aver prodotto anche cose buone, almeno per noi umani. La pecora, la gallina, la carpa, il cipresso, il castagno e la maggior parte degli alberi da frutta, così come i pomodori e le patate, furono introdotti in tempi antichi dall’Oriente mediterraneo, tanto che ormai si possono considerare a tutti gli effetti “indigeni”. Lo stesso gatto soriano è un alieno, per non dire della trota fario: tutti la credono più alpina degli edelweiss, ma è un salmonide del Nord dell’Europa, liberato a scopo alimentare nei nostri fiumi secoli fa, così come d’altronde è avvenuto in tutto il mondo, fino alla Nuova Zelanda. Oggi è considerata una sorta di Attila ecologico per la sua capacità di far danno a un gran numero di insetti, anfibi e pesci autoctoni, che preda direttamente o mette in difficoltà esistenziale.
Nulla da invidiare, dunque, al Silurus glanis, gigantesco capofila di una serie di pesci orientali introdotti dai pescatori sportivi per aumentare il proprio divertimento a spese delle nostre acque dolci, dove la presenza di specie alloctone arriva ormai all’80 per cento. Gli effetti economici di un fenomeno dai confini così dilatati e sfumati sono difficili da indicare, ma secondo l’Ipbes, (Piattaforma Intergovernativa sulla biodiversità e i servizi ecosistemici) gli alieni generano ogni anno perdite complessive per 423 miliardi di dollari, destinati a quadruplicare a ogni 10 anni.
Uno dei comparti più colpiti è l’agricoltura. Se frutta e verdura sono sempre più care è soprattutto per il costo della lotta ai parassiti che arrivano insieme con i prodotti esotici; casi di scuola, la cimice asiatica e la Xylella fastidiosa dell’ulivo. La prima, ha provocato, per ora, più di 500 milioni di danni in Val Padana e interferisce con la produzione biologica, perché, in attesa di soluzioni “pulite”, costringe a usare il contrasto chimico. Quanto alla Xylella, il suo sbarco in Salento, probabilmente dal Sudamerica attraverso il mercato delle piante ornamentali di Amsterdam, si ritiene accidentale. Sarebbe opportuno, però, chiedersi se il ruolo principale, nell’epidemia che finora ha ucciso 20 milioni di ulivi, non l’abbiano avuto i complottisti e i magistrati che, dando credito ai loro vaneggiamenti antiscientifici, avevano bloccato per oltre un anno il taglio degli alberi infetti.
Quando si parla di specie aliene, si corre in modo particolare il rischio di piangere sul latte versato, trascurando nuove emergenze. L’ultima della serie, per l’Italia, è Solenopsis invicta o formica di fuoco. “Colpisce moltissime piante da frutto – spiega Genovesi – e ha un morso doloroso. Originaria del Brasile, ha infestato tutto il mondo. La si può controllare solo nelle fasi iniziali, poi diventa quasi impossibile. In Sicilia, il suo primo approdo europeo, è passato troppo tempo prima che venisse segnalata e, infatti, non sappiamo che fare e, tra l’altro, siamo in procedura d’infrazione con Bruxelles. In Nuova Zelanda, non appena compare, intervengono subito con un progetto di disinfestazione locale e uno sforzo economico limitato: così, finora, sono riusciti a fermarla”.
Alla fine, di fronte a un numero crescente di specie nuove che arrivano da tutti i possibili canali di un mondo sempre più interconnesso, le soluzioni dettate dall’esperienza consistono semplicemente nel prevenire, eradicare, controllare. “Nella regione dei Grandi Laghi, in Nord America, la gestione delle acque di zavorra ha ridotto del 95% l’ingresso di specie estranee. Anche l’eradicazione, quando queste sono ancora localizzate, è efficace. Nelle nostre piccole isole l’intervento mirato contro i ratti (con mangimi contraccettivi o tossici, Ndr) ha portato a recuperare numerose specie autoctone, anche se non è stato facile farlo accettare al pubblico. Poi c’è il controllo, che però va meditato bene, perché a volte si investono grandi cifre con effetti quasi nulli oppure si rischia di introdurre una specie nemica che poi si rivela ancora più dannosa. In ogni caso, a forza di sbagliare, qualche lezione l’abbiamo imparata. Così come sono riusciti a fermare la Salvinia molesta, la pianta acquatica brasiliana che stava invadendo l’Africa, potremmo farlo in tanti altri casi. Abbiamo mezzi e conoscenze. Certo, occorrerebbe un salto di qualità nelle risorse e nell’informazione, ma ci sono battaglie più complicate, come quella al cambiamento climatico o all’estinzione. Tutto sommato, tra salvare un milione di specie che stanno per scomparire, o controllarne 3500, non avrei dubbi su quale sia l’obiettivo più realistico”.
Dimostrazione che in natura è opportuno non mescolare i diversi habitat. Se le specie aliene arrivano in un habitat dove prima non esistevano, il sistema NON è attrezzato per “contenerle” e queste specie aliene distruggono l’habitat in cui arrivano improvvisamente. nel senso che lo modificano profondamente e quello che sarà quell’habitat non ha più nulla a che fare con la formulazione originaria dell’habitat in questione.
Ma bisogna fare un passo in più. E’ inutile che ci prendiamo in giro: la specie umana è una specie animale a tutti gli effetti, come tutte le altre specie, e lo stesso principio vale anche per noi umani. Non è una questione che “questa” civiltà sia meglio di “quell’altra”, ma i bacini antropologici devono rimanere separati (salvo scambi contingenti, ma non in termini di spostamento duraturi e irreversibili), così come è meglio che accada per gli habitat naturali.
Il tema dell’invasione delle specie aliene, che oggi è ormai esploso a livello mediatico generale, nei settori scientifici è noto da almeno 15-20 anni. In questo arco temporale così ampio mi è capitato di leggere e/o sentire molti interventi sul tema. Molti “scienziati” si sono espressi anche a livello divulgativo. Non faccio specifico riferimento all’autore di questo libro, sia chiaro. Ebbene un risvolto mi ha colpito da tempo: chi è rigido in termini scientifici (propendendo per il contrato o addirittura per l’eradicazione assoluta delle specie aliene) lo fa perché è convinto che sia un bene preservare integri i nostri habitat dall’invasione di specie aliene.
In altre parole, costui ci tiene all’ambiente, quindi, in genere, possiamo dire che rientra nell’ideologia “verde”. Ebbene i verdi sono normalmente schierati a sinistra (più o meno radicale) e in tal senso sono bendisposti verso il fenomeno dell’immigrazione umana, quanto meno non auspicano ostacoli né “eradicazioni” di individui “alieni”.
Ma qui c’è una contraddizione grande come una montagna: o siamo sempre rigidi e applichiamo gli stessi criteri a ogni specie naturale, compresa quella umana, oppure siamo sempre per la massima libertà di spostamento e questo vale per la specie umana come per qualsiasi altra specie naturale, e quindi evitiamo prese di posizioni rigide sul tema strettamente scientifico. Io ovviamente propendo per la prima ipotesi, ma ciò che ora chiedo è la coerenza ideologica.
Non è un fenomeno nuovo.
Da sempre dove è arrivato il Sapiens, si è assistito a estinzione di specie preesistenti.
Leggere La sesta estinzione di Kolbert e Armi, acciaio e malattie di Diamond per conferme.
“Ma qui c’è una contraddizione grande come una montagna: o siamo sempre rigidi e applichiamo gli stessi criteri a ogni specie naturale, compresa quella umana, oppure siamo sempre per la massima libertà di spostamento”
Crovella, non c’è alcuna contraddizione, oltre al fatto che manifesti evidenti carenze scientifiche: homo sapiens è la stessa specie in tutto il pianeta, le specie aliene animali o vegetali no, si sono sviluppate ed evolute in milioni di anni nel loro habitat e senza la mano dell’uomo non si sarebbero “spostate” in ambienti dove non hanno trovato competitori in grado di contenerle.