Dall’Homo Naledi al Monte Analogo

Dall’Homo Naledi al Monte Analogo
(ovvero, come sopperire alla dorsiflessione perduta attraverso lo sviluppo della brachiazione)
di Eugenio Maria Cipriani
(pubblicato su Lo Zaino n. 20)

Oggettivamente, l’arrampicata è una delle attività più assurde e pericolose che l’homo sapiens abbia mai inventato. Aggiungerei pure che è una delle più innaturali, ben sapendo di affermare qualcosa che potrebbe suonare a molti come un’eresia. Certamente si tratta di un’attività che va nella direzione contraria a quella che è stata, e continua a essere, l’evoluzione della specie homo. Le teorie darwiniane, rivoluzionare a loro tempo ma oggi scientificamente obsolete pur nella loro validità di fondo, facevano derivare gli ominidi direttamente dai primati, cioè dalle scimmie. Cosa, questa, che potrebbe indurre alcuni a sostenere che il “senso del verticale”, vale a dire l’attitudine spontanea ad arrampicarsi, sia insita nella natura umana. A prova di ciò viene tirata solitamente in ballo una testimonianza collettiva, quasi universale: anche chi in età adulta, per vertigine o semplice disinteresse, si tiene accuratamente distante da ogni forma d’altura, da bambino almeno una volta è salito, o ha cercato di arrampicarsi su un albero, un muretto o un sasso, spinto a ciò da un impulso tanto inspiegabile quanto naturale.

Nelle foto che seguono, l’autore dell’articolo mentre cerca di imitare (invano) i suoi progenitori Nalediani.

In realtà, studi recenti condotti da ricercatori dell’università del Michigan hanno dimostrato che per poter vivere appollaiati sugli alberi, arrampicarvisi in cima e poi spostarsi con leggiadria di ramo in ramo come i primati, ci vuole il fisico giusto. E noi, rientranti nella categoria homo sapiens sapiens non abbiamo il fisico giusto. O meglio: non lo abbiamo più. Non lo hanno nemmeno Adam Ondra, Stefano Ghisolfi e tutti gli altri straordinari atleti della verticale, anche se le loro performances sembrerebbero dimostrare il contrario.

Il problema, dicono gli esperti, è la dorsiflessione, ovvero l’angolo d’articolazione dell’anca.
Infatti, già a partire da circa quattro milioni di anni fa, i nostri antenati, prove paleontologiche alla mano, presentavano una dorsiflessione non più assimilabile a quella delle scimmie e, per questo motivo, non potevano più essere protagonisti di quelle prestazioni che noi arrampicatori tanto invidiamo a esse. In estrema sintesi, quindi, per l’essere umano, e a maggior ragione per l’uomo contemporaneo, l’ars arrampicandi non è nel DNA. Eppure, sebbene ormai privo della primigenia dorsiflessione, onore e vanto delle scimmie e dei primi ominidi, un esponente del genere Homo in tempi non tanto distanti da noi, almeno sul piano paleoantropologico, diciamo fra i quattrocentomila e i duecentomila anni fa, sfruttando rami e presumibilmente anche rocce, era in grado di spostarsi tanto in orizzontale quanto in verticale, se non addirittura, parafrasando Georges Livanos, Au delà de la verticale.

Ma chi era mai questo fortunato mortale in grado di spostarsi in posizione eretta come un uomo e di volare da un ramo all’altro come una scimmia, tanto da riuscire a passare ore intese appeso con le dita sul vuoto? Era un nostro antenato sudafricano, assai diverso da noi sapiens quanto a dimensioni sia del corpo che del cranio, ma non dissimile da noi e dai nostri “fratelli” neanderthaliani, quanto a culto dei morti e alla predisposizione all’utilizzo di strumenti in grado di agevolare le attività basilari. Nel 2013, nella grotta di Rising Star, in Sudafrica, è stata scoperta una straordinaria quantità di resti fossili di un ominide sino a quel momento sconosciuto. La classificazione e successiva ricomposizione di quei resti ha permesso di stabilire che appartenevano, appunto, a una nuova specie di ominide vissuta tra i 335.000 e i 236.000 anni fa. A questa specie venne dato il nome di Homo Naledi. Approfondite analisi della mano e del piede di Homo Naledi hanno poi confermato e rimarcato l’unicità di questa specie di Homo, specie con la quale i paleoantropologi si trovano ora a dover fare i conti nella complessa, e sempre ricca di colpi di scena, ricostruzione dell’albero filogenetico del nostro genere e della nostra specie. I risultati di questi studi sono descritti in due articoli pubblicati sulla rivista scientifica Nature Communications.

Nelle foto che seguono, l’arrampicata entra sempre di più nella vita quotidiana.

Il primo studio, a firma Tracy L. Kivell, descrive approfonditamente la mano di uno di questi resti fossili di Homo Naledi, che rivela un pollice lungo e robusto e una morfologia del polso che si ritrova tanto nei Neanderthal quanto negli esseri umani moderni e che testimoniano un’elevata capacità di manipolazione degli oggetti. Tuttavia, le ossa delle dita sono più lunghe e più incurvate rispetto non solo all’essere umano moderno, ma anche rispetto alla maggior parte degli australopitechi:
la mano Homo Naledi, infatti, è risultata essere adatta anche per afferrare i rami, così da potersi arrampicare sugli alberi e sostenere il corpo in posizione sospesa.

Il secondo studio, a firma William E.H. Harcourt-Smith, è invece dedicato al piede di questo antico ominide. Si tratta di un piede sostanzialmente moderno: morfologia dell’alluce, allungamento del tarso e struttura della caviglia e dell’articolazione calcaneo-cuboidea testimoniano in maniera chiara che Homo Naledi era abituato alla stazione eretta e a camminare in modo bipede. Eppure, anche in questo caso si riscontrano alcuni dettagli, in particolare la curvatura delle falangi prossimali del piede, che rimandano a una buona capacità di arrampicarsi sugli alberi. Secondo i ricercatori, tutti questi caratteri indicano che Homo Naledi doveva avere un repertorio di capacità di locomozione più ampio tanto degli australopitechi, poiché era perfettamente a suo agio con la camminata bipede, quanto dell’uomo moderno, poiché si poteva comunque arrampicare e spostare fra i rami molto più agevolmente.

Di fatto, l’Homo Naledi, anche se aveva perso (o stava perdendo, gli studi in merito sono ancora agli inizi) la dorsiflessione, godeva tuttavia di un’altra qualità che gli permetteva di eccellere nell’ars arrampicandi: la brachiazione (dal latino brachium, cioè braccio), ovvero una modalità di locomozione animale, sviluppatasi nei mammiferi e in particolare tra i primati, che sfrutta principalmente gli arti anteriori o toracici. In altri termini la si può definire come l’adattamento evolutivo che permette alle articolazioni delle braccia di oranghi, gibboni e scimpanzé e, con buona probabilità, dell’Homo Naledi, di ruotare in ogni direzione e sostenere il dondolamento del corpo appeso. E’ questa capacità che distingue le scimmie antropomorfe dal resto dei primati. Oscillando e muovendosi rapidamente per non perdere ritmo e slancio, anche una scimmia pesante come un gibbone o un orangutan può dondolarsi da rami che non reggerebbero mai il suo peso statico. Sono considerati animali brachiatori quegli animali che utilizzano prevalentemente questa modalità di locomozione, che in alcuni casi, come appunto nei gibboni, raggiunge un tale livello di efficienza da permettere loro di spostarsi da un ramo all’altro a velocità anche superiori ai 50 km/h!

Se ci si serve dei rami più come funi che come sbarre – scrive l’alpinista e scrittore Robert Macfarlane nel libro Luoghi selvaggidiventa possibile sfruttarne anche le estremità più sottili. Il fondamentale vantaggio evolutivo della brachiazione fu quindi di permettere alle grandi scimmie di muoversi anche fra le fronde più sottili ed elastiche e di raggiungere i frutti che vi maturavano in punta. La brachiazione favorì, inoltre, una tendenza alla stazione eretta, con le relative conseguenze in termini di evoluzione“.

Di contro, però, questa modalità di locomozione prospettava nuovi pericoli legati all’altezza dal suolo in cui avviene la locomozione brachiale. Per questo motivo animali come i gibboni hanno dovuto sviluppare un cervello di grandi dimensioni per muoversi in sicurezza. Un cervello in grado di elaborare i sofisticati calcoli necessari a volare di ramo in ramo tra le fronde più alte senza rischiare di sfracellarsi al suolo. Calcoli che, a ben guardare, pur con qualche differenza, sono quelli che elaborano anche gli scalatori quando intraprendono una ascensione, lunga o corta che sia. Se nell’Homo sapiens sapiens “climberensis”, chiamiamolo così, della dorsiflessione nulla è rimasto, ben diversamente stanno le cose per quanto concerne la brachiazione. Riguardando i primi filmati di arrampicata sportiva che avevano come protagonisti i due fuoriclasse francesi Patrick Edlinger e Patrick Berhault, soprattutto in strapiombo, la brachiazione appare essere il metodo prevalente di progressione. Se poi si vanno a guardare i più recenti video che immortalano gli attuali fuoriclasse sulle linee più difficili al mondo di arrampicata sportiva, noteremo che oggi la brachiazione è praticamente la regola, dal momento che le vie di grado 9, salvo rarissime eccezioni, sono tutte fortemente e lungamente strapiombanti, cosicché il climber è costretto a restare aggrappato con le dita (usando quindi prevalentemente i muscoli deputati alla brachiazione,) talvolta anche per trenta o quaranta metri e quindi per decine e decine di movimenti.

Più o meno come faceva l’Homo Naledi sino 236.000 anni fa che, non a caso, possedeva dita, polsi e articolazione calcaneo-cuboidea sviluppati in funzione appunto della brachiazione, ovvero dello stare appesi a lungo.

Caratteristiche, queste, che fanno dell’Homo Naledi non solo un antesignano dei moderni climber, ma pure un possibile punto di arrivo (o di ritorno, si potrebbe anche dire) quando in un futuro, forse non lontano, si inizieranno ad “allevare” scalatori prodigio stimolandoli sin dall’infanzia, ovviamente per gioco e non per necessità di sopravvivenza, come nel caso dell’Homo Naledi, a sviluppare la modalità brachiale di spostamento. Può sembrare un’idea balzana degna di uno scienziato folle a metà fra Mengele e il dottor Frankenstein, eppure esiste un precedente letterario di altissimo livello in cui la brachiazione come metodo non solo di allenamento ma anche di spostamento casalingo viene eletta a sistema. Mi riferisco al capolavoro di René Daumal Il Monte Analogo, romanzo incompiuto a causa della prematura scomparsa dell’autore e pubblicato per la prima volta nel 1968, ma riproposto anche in tempi più recenti (2020) da Adelphi. Daumal (1908-1944), fondò negli anni Trenta la rivista Le grand jeu, in contrasto con il movimento dei Surrealisti; fu viaggiatore, letterato, poeta e studioso di lingue antiche, quali l’Indoeuropeo e dunque il Sanscrito e l’Indù.

La trama de Il Monte Analogo è semplice, lineare e giocosa come quelle che caratterizzano i romanzi d’avventura di Jules Verne: attraverso una serie di deduzioni paradossali, che vanno a coinvolgere le più svariate discipline del sapere umano, un ristretto gruppo di alpinisti si convince che deve esistere da qualche parte sulla Terra un monte molto più alto dell’Everest, mai scoperto dai geografi. Si mettono perciò in viaggio per tentare di raggiungerlo e scalarlo. Al di là della piacevolezza della lettura di questo romanzo incompiuto, uno degli aspetti che più mi aveva colpito quando lo lessi, sfogliandone quaranta anni fa la prima edizione italiana, fu la descrizione della casa del protagonista. Essa si sviluppava su più piani ma, per coprire il dislivello fra gli stessi, non prevedeva la presenza di scale, bensì di una serie di appigli e appoggi disposti anche sulle pareti delle camere e, se ricordo bene, pure su parte dei muri esterni. La casa ideale per un Homo Naledi, quindi, ma anche per una famiglia di climber del futuro che volessero tornare e far tornare i propri figli, alla duplice facoltà di locomozione propria dei nostri antenati “nalediani”, ovvero quella bipede su terreno orizzontale e quella brachiale su terreno verticale.

Un sapiens oltremodo Nalediano fu il mitico scalatore Paul Preuss che, pur di arrampicare, sfruttava qualsiasi opportunità. D’altronde, pur se di ottima famiglia e dotato di buona cultura, Preuss era psicologicamente affetto da una mania ossessivo-compulsiva nei confronti dell’alpinismo e in particolar modo dell’arrampicata. Mania che pagò con la vita.

Ebbene, nella biografia che di lui scrisse un suo grande ammiratore, Severino Casara, viene riportato un singolare episodio che ci riporta tanto all’Homo Naledi quanto al protagonista del Monte Analogo. Un giorno il “Cavaliere della Montagna” (cosi lo definì Casara) venne invitato, se la memoria non m’inganna, presso la sede del CAI di Milano a tenere una conferenza sulle proprie imprese. Per sottolineare la sua personalità alpinistica a dir poco unica, anziché salire le scale e presentarsi dopo aver bussato alla porta d’ingresso, pare che si sia arrampicato lungo i muri esterni e che abbia bussato, per farsi aprire, a una delle finestre.

Non so se vero, ma se lo è direi che rispecchia perfettamente il personaggio.

E ora voglio concludere con una vera e propria “chicca letteraria” a firma di uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento, Italo Calvinom, e che si ricollega, sempre paradossalmente, al futuro morfologico e posturale umano. Calvino è stato uno scrittore che, fra le righe, in più di un racconto o romanzo ha esaltato l’ars arrampicandi, in primis quella della locomozione arboricola propria dell’Homo Naledi. Il Barone rampante è l’esempio in tal senso più emblematico.
Il testo riportato nelle righe che seguono è la trascrizione effettuata da me personalmente di un intervento radiofonico risalente al 1970 dal titolo Scrittori, medicina e malattia dello stesso Calvino. In esso lo scrittore descrive quella che secondo lui avrebbe potuto essere l’evoluzione morfologico-posturale del genere “Homo”.

Va goduta per la brillantezza e piacevolezza della scrittur,a oltre che per i deliziosi paradossi che contiene.
Ecco cosa disse Calvino.

Lo star seduti è certamente un male ma andare a cavallo non era certamente più igienico. Letterati e cavalieri hanno in comune, tra tante altre cose, il costringere il corpo a un’innaturale posizione. Comunque è sempre meglio star seduti che stare in piedi e farsi venire le vene varicose.

In realtà tutti i mali vengono all’uomo dall’aver deciso di essere un bipede mentre la sua natura gli imponeva di distribuire il peso del corpo su quattro arti. Va detto che, così facendo, i nostri progenitori hanno sviluppato l’agilità delle mani liberandole dalla funzione locomotoria e rendendo possibile la storia umana. Ma penso che il perfetto equilibrio sia stato raggiunto durante la lunga era di permanenza sugli alberi. Sebbene le mani non fossero interamente disponibili alle tecniche e alle arti dovendo servire ad aggrapparsi ai rami, la varia struttura dei sostegni arborei imponeva al corpo umano posizioni sempre diverse e dava occasione al brillare di sempre nuovi talenti. Si pensi a come e quanto le civiltà agricole abbiano umiliato l’intelligenza del piede favorendo la vittoria ad un’ottusa progenie d’uomini dal piede aderente al suolo con stolta e callosa pervicacia, chiudendo le vie della selezione naturale ai dotati di piedi prensili, versatili, industriosi, abilmente digitali, nervosamente tattili, musicali.

Comunque, le glaciazioni che ci cacciarono giù dagli alberi condannandoci a una vita che non è da noi, sono state un evento irreversibile.
Indietro non si può tornare. Abbiamo costruito un mondo per bipedi seduti che non ha più niente a che fare con il nostro corpo, un mondo che sarà abitato dagli organismi più adatti a sopravvivervi. Passando gran parte della mia vita seduto a una scrivania la forma che mi sarebbe più comodo assumere è quella del serpente. Avvolto nelle sue spire il serpente distribuisce il suo peso uniformemente su tutto il corpo e può trasmettere ogni minimo movimento a tutte le sue membra tenendole in esercizio pur senza spostarsi. Mi rendo conto che un me stesso serpente, disponendo solo della coda per tutte le operazioni cosiddette manuali vedrebbe diminuite alcune capacità fisico-mentali legate alla digitazione, dalla stilografla all’uso di opere da consultazione, dal contare sulle dita al mangiarsi le unghie, eccetera. E allora la forma perfetta sarebbe quella del polpo o della piovra la cui ridondanza d’arti di grande versatilità locomotorio-prensile-positurale diventerebbe un incentivo a nuovi talenti operativi, a nuove metodologie e attitudini. Oltre a tutto i polpi possono benissimo guidare l’automobile. E’ chiaro dunque che saranno i polpi a prendere il nostro posto. Il mondo che abbiamo costruito è fatto a loro immagine e somiglianza. Abbiamo lavorato per loro!”.

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2 Comments

  1. says: ratman

    Il solito guazzabuglione di chi più ne sa piu ne scriva, senza capo ne coda.
    I Neanderthal stavano a noi come gli asini stanno ai cavalli: eravamo specie diverse, cugini al massimo, ma non fratelli.

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