Sotto l’acqua

A fine marzo è uscito un nuovo libro dedicato alle Terre Alte: Sotto l’acqua. Storie di invasi e di borghi sommersi, di Fabio Balocco (LAREditore, marzo 2024).
Il libro raccoglie le testimonianze indirette e dirette relative ai borghi che nello scorso secolo e nelle Alpi Occidentali furono sommersi per produrre energia elettrica. Cinque casi, ognuno con delle sue particolarità. Il libro è arricchito di foto d’epoca su come erano quei luoghi prima che fossero sommersi per alimentare l’industrializzazione della pianura. Fu l’inizio della colonizzazione delle Terre Alte. Qui di seguito la sinossi e l’introduzione.

Sotto l’acqua
(Storie di invasi e di borghi sommersi)
di Fabio Balocco

Sinossi
Sono un’attrazione turistica, ancor di più quando li svuotano ed emergono antichi ruderi. Sono gli invasi artificiali, in particolare quelli per realizzare i quali furono sommersi interi paesi. Ma qui non è dell’attrattiva che voglio parlare, bensì del dramma. Il dramma di vivere da sempre in un luogo che non esisterà più perché così vogliono le magnifiche sorti e progressive. È opportuno parlarne perché ricorre più o meno il centenario di quando iniziarono quelle sommersioni che riguardarono diverse comunità dell’arco alpino occidentale, e non solo, in funzione dello sviluppo industriale del paese. Ma è opportuno parlarne anche per sottolineare che lo sviluppo non è mai gratis: le dighe spesso sommersero paesi, così come i pannelli solari oggi coprono campi e le pale eoliche segnano i crinali. Niente è senza costi ambientali e spesso sociali delle attività umane, men che meno la produzione di energia. Cinque furono gli invasi importanti nell’arco alpino occidentale. Iniziando da sud: Osiglia, per il quale destino vuole che non venisse mai realizzata la centrale; Pontechianale, in Alta Val Varaita; Ceresole Reale, in Val Locana, che comportò la sommersione di uno degli altopiani più belli delle Alpi che ispirò anche Carducci; Agaro, nell’Ossola, che comportò la dislocazione di un’intera comunità Walser; Beauregard, in Valgrisenche, che rischiò di diventare un nuovo Vajont. Cinque invasi realizzati, ed uno che invece non lo fu perché venne rifiutato dalla popolazione: Badalucco in Valle Argentina, Alpi Liguri. Per ogni invaso sono state raccolte le voci di testimoni diretti o indiretti di quelle opere. Con fotografie a corredo che illustrano com’erano quei luoghi.

Un po’ di storia
I primi impianti idroelettrici nacquero in Italia verso la fine del 1800 tramite sbarramenti fluviali. Essi garantivano da un lato una discreta produzione di energia e dall’altro l’indipendenza energetica, visto che fino ad allora la produzione era dipendente da centrali a carbone, tant’è che l’energia idroelettrica fu denominata “carbone bianco”.

Il primo impianto idroelettrico di un certo rilievo fu realizzato nell’Appennino mediante due laghetti artificiali e ben tre centrali in serie lungo il torrente Gorzente, alle spalle di Genova. Era l’anno 1889 e l’energia serviva per alimentare stabilimenti industriali nel circondario della città. Ad esso seguì la centrale idroelettrica di Tivoli, realizzata nel 1892 per l’alimentazione di Roma. Essa sfruttava il salto delle cascate del fiume Aniene ed aveva una potenza superiore ai mille KW. Ma il vero e proprio salto di qualità si ebbe pochi anni dopo, nel 1898, quando entrò in esercizio a Paderno d’Adda la centrale Bertini, 9600 KW, ricavata tramite uno sbarramento sul fiume Adda. Si trattava del più grande impianto idroelettrico in Europa, secondo al mondo solo a quello del Niagara negli Stati Uniti. Esso fu realizzato dalla  Edison, società nata nel 1884 dal Comitato di Giuseppe Colombo, che aveva già creato nel 1883 a Milano la prima centrale termica destinata a illuminare la città. Stante la sua dimensione, per comodità possiamo far partire da tale data l’inizio della costruzione di grandi impianti idroelettrici. Questa politica fu perseguita sia dalla monarchia, ma sia soprattutto dal fascismo, tramite grandi società private, come appunto la Edison, la Società Adriatica di Elettricità (SADE), la Società Idroelettrica Piemonte (SIP), la Società Elettrica Ligure-Toscana (SELT), l’Unione Esercizi Elettrici (UNES), la Terni, la Società Meridionale di Elettricità (SME).

Per produrre energia in notevole quantità occorrevano abbondanza d’acqua e notevoli dislivelli. Fu così che iniziò il sistematico sfruttamento delle acque montane a fini energetici che ebbe il massimo sviluppo dagli anni venti in poi, specialmente con la realizzazione di grandi invasi, che potevano garantire una maggior produzione di energia, atta a soddisfare le crescenti esigenze dell’industria della pianura. Fu una sorta di “colonizzazione delle terre alte”, come l’ho definita, colonizzazione necessitata appunto essenzialmente dal fabbisogno industriale. Ma la demografia dell’arco alpino di quell’epoca in particolare prevedeva che le vallate fossero abitate. Ed ecco allora che la realizzazione di invasi poteva includere la sommersione di interi borghi e la ricollocazione altrove dei relativi abitanti. E qui è opportuno sottolineare come quegli invasi prevedessero la ricollocazione di abitanti per garantire l’approvigionamento energetico di quelle industrie della pianura che sarebbero in seguito state proprio la causa principale dello spopolamento di quelle valli. In realtà non furono comunque molti i borghi sommersi, ma furono concentrati proprio dove l’energia elettrica era maggiormente necessitata in allora, cioè l’arco alpino occidentale con la contigua pianura padana. Ve ne furono però anche altri. Famoso il Lago di Resia, dove le comunità di Curon e Resia si batterono inutilmente contro la realizzazione[1], e quello di Vagli, nell’Appennino, che comportò la sommersione di Fabbriche di Careggine.

Un’annotazione a margine. Quando si parla di dighe, la memoria ancora oggi va alla tragedia del Vajont: realizzata dove non si doveva. Ma quella diga comunque tenne l’impatto dell’acqua che superò lo sbarramento e si riversò sulla pianura. Non si ricorda invece un episodio altrettanto grave: il cedimento strutturale della diga di Gleno, in Val di Scalve, nelle Alpi Orobie: il 1° dicembre 1923 alle ore 7.15 la diga crollò. Sei milioni di metri cubi d’acqua, fango e detriti precipitarono dal bacino artificiale a circa 1.500 metri di quota, dirigendosi verso il lago d’Iseo e procurando la morte di almeno 356 persone.

Un po’ di attualità
Le storie che racconto nel libro sono quelle dei borghi sacrificati sull’altare del progresso. Voglio però ricordare che alcuni invece si sono salvati nello scorso secolo. Per tutti è esemplare la storia dell’Alpe Veglia, per la quale, riprendendo un progetto dell’Edison risalente agli anni trenta, cioè l’epoca del boom degli impianti, l’ENEL voleva seppellire l’alpe sotto l’acqua, innalzando uno sbarramento nella gola di Groppallo. In quel caso ci fu una levata di scudi da parte dei comuni interessati, Trasquera e Varzo e da parte di Italia Nostra e Lions Club. Quando la Regione Piemonte intraprese la salvifica politica di istituzione dei parchi regionali, negli anni settanta, l’Alpe Veglia fu tutelata e il progetto cadde[2]. Ma tutto può ritornare in un periodo come questo di necessità di energia “verde” e nel contempo di siccità. Ed ecco il progetto ”mille dighe” sull’intero arco alpino proposto da Coldiretti, ENEL, ENI e Cassa Depositi e Prestiti.[3]


Note
[1] Della resistenza ne parla in forma romanzata Marco Balzano, nel suo “Resto qui”, Einaudi 2018. Sulle Alpi è da ricordare anche la strenua lotta degli abitanti di Tignes, in Francia, nel 1952: https://www.parismatch.com/Actu/Societe/Tignes-barrage-village-englouti-1952-photos-1802030#15

[2] https://www.areeprotetteossola.it/it/eventi-e-iniziative/i-40-anni-del-parco-veglia-devero

[3] Progetto vivacemente contestato ad esempio dal Club Alpino Italiano: https://www.cai.it/appello-del-cai-al-governo-no-a-18-miliardi-del-pnrr-per-nuove-1000-dighe-e-invasi-in-montagna/

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