La vita, disgraziata e pericolosa, dei pigmei del Centrafrica

Il loro mondo è in via di estinzione così come l’ecosistema che è sempre stata la loro casa: la foresta. Ma ora c’è un nuovo problema a minacciare la loro sopravvivenza: le malattie della modernità.

La vita, disgraziata e pericolosa, dei pigmei del Centrafrica
di Angelo Ferrari
(pubblicato su agi.it il 6 aprile 2022)

Quello dei Pigmei è un mondo affascinante. Vivono di caccia e di pesca, sono nomadi raccoglitori. Vivono in foreste inestricabili, che incutono paura. Guaritori e indovini, hanno resistito a lungo alla contaminazione dell’uomo moderno. Hanno resistito anche alle malattie che i loro vicini dei villaggi hanno portato inconsapevolmente. Hanno sempre vissuto in un loro mondo. Contenti di esserci e di rimanere ancorati alle tradizioni ancestrali.

Ma la modernità è arrivata, contamina, strappa le tradizioni. Piccoli, abbastanza brutti, sono trattati dalla gente dei villaggi come dei paria, buoni solo per essere sfruttati, trattati alla stregua di bestie da soma, senza nessun diritto e dignità. L’uomo bantu manifesta così la sua presunta superiorità. Il mondo dei Pigmei è in via di estinzione così come l’ecosistema che è sempre stata la loro casa: la foresta. Viene sfruttata per ogni cosa. Ma ciò che assilla ora questo mondo, che per molti versi resta affascinante, sono le malattie.

Ai margini della foresta tropicale della Repubblica Centrafricana, il villaggio di Sakoungou, nella regione di Lobaye, ospita da nove mesi una clinica allestita da Senitizo, una piccola Ong americana specializzata nell’accesso alle cure. Lontano dall’abbandonare i loro riti ancestrali, gli Aka, popolo nomade pigmeo delle foreste del sud-ovest della Repubblica Centrafricana e del nord della Repubblica democratica del Congo, sempre più spesso vanno alla clinica della Ong per curarsi gratuitamente, perché colpiti da virus o batteri arrivati da un mondo più moderno, che i loro anziani non conoscevano.

Pigmei. Foto: Fabien Essiane/Anadolu Agency/via AFP.

Nel tempo, infatti, alcuni aka si sono stabiliti nei villaggi o nelle città per sfuggire alla deforestazione e alle violenze delle milizie armate che in questo paese dettano ancora legge e dove i conflitti tra comunità sono ancora all’ordine del giorno.

A Sakaoungou, circa 200 chilometri a sud-ovest della capitale della Repubblica Centrafricana, Bangui, le capanne di fango essiccato si affiancano ai margini della foresta, alle semplici abitazioni fatte di fogliame, dalla forma paragonabile a quella degli igloo, dei pigmei che ancora sopravvivono alla modernità. Una pista di terra rossa entra, quasi di prepotenza nella foresta pluviale, quasi a rappresentare la stessa prepotenza degli abitanti dei villaggi nei confronti della popolazione Aka, sempre più vessata, discriminata e disprezzata in tutto il paese. Proprio vicino al centro sanitario della Ong americana campeggia un cartello, la frase è eloquente: “Villaggio pigmeo, proteggiamo le nostre minoranze”.

Secondo l’Unesco, gli Aka – detti anche Bayaka – sono considerati i primissimi abitanti della Repubblica Centrafricana e, nonostante la loro ancestrale tradizione, sono sfruttati dalle altre comunità del paese, che si ritengono più “moderne e superiori”. Ormai nessuno apprezza le loro tradizioni, sono piuttosto dei paria da sfruttare e, anch’essi, sono diventati, con il tempo, dipendenti dalle esigenze dei loro sfruttatori. I pigmei sono i più poveri tra i poveri del secondo paese meno sviluppato al mondo, secondo le stime dell’Onu.

Un paese in guerra civile da almeno otto anni e che dipende quasi esclusivamente dagli aiuti umanitari internazionali per nutrire e prendersi cura dei suoi quasi 5 milioni di abitanti. Eppure, l’Unesco ha classificato le canzoni polifoniche dei pigmei come Patrimonio Mondiale dell’Umanità nel 2003. Canzoni polifoniche legate alla nascita, alla vita quotidiana, alla morte e alla caccia, tutto ciò, insomma, che appartiene alla loro tradizione ancestrale.

La discriminazione contro i pigmei è ovunque in Centrafrica”, osserva Alain Epelpoin, antropologo del Centro nazionale per la ricerca scientifica (Cnrs) in Francia. “Salari bassi, duro lavoro. Vittime di umiliazioni, considerati come servi della gleba dal resto della popolazione”. Sono diventati schiavi e spesso è bastato poco per soggiogarli: una bottiglia di gin, di cui vanno matti, e qualche sigaretta. Per queste poche e misere cose i villageois li mandano in foresta, che temono e di cui hanno paura, a cacciare per loro. Tutto ciò minaccia la loro stessa esistenza, si stanno incamminando, senza volerlo, verso l’estinzione così come i loro ecosistemi forestali.

Anche per questo, ormai, per la modernizzazione che incalza, sono costretti a recarsi al centro medico. Juliette, decano degli Aka di Sakoungou, peBayaka

r risolvere i suoi problemi di salute non può far altro che recarsi al centro medico. Non aveva mai fatto ricorso alla medicina moderna prima che la Ong Senitizo aprisse il suo ambulatorio.

Gli Aka hanno molti più problemi di salute degli altri e la loro aspettativa di vita raramente supera i 40 anni”, spiega alla France Presse, Jacques Bébé, medico del centro. “Consumano acqua imbevibile o addirittura stagnante, non hanno un riparo degno, né lenzuola né zanzariere. L’acceso ai farmaci è limitato e si curano in modo tradizionale”. Se un tempo molto lontano questa pratica era sufficiente, ora con la contaminazione e il contatto con le altre popolazioni, portatrici di malattie sconosciute ai pigmei, non è più possibile.

Sono molti, infatti, coloro che si recano al centro medico, anche se “resistono” nel non voler abbandonare le loro tradizioni. Continuano a battere la foresta alla ricerca di quelle piante che possono essere utili per curare il mal di testa e il mal di schiena, non rinunciano alla loro indole di raccoglitori. Juliette continua a vivere nella sua casa fatta di foglie essiccate. Vicino alla capanna l’acqua bolle sul fuoco, come sempre e come tutti i giorni. Una donna della sua famiglia è intenta a preparare un decotto di piante: “È molto efficace per la pancia, qui tutti conoscono i rimedi della foresta”, dice con orgoglio Juliette. Ma, a volte, l’orgoglio viene messo da parte e quando “c’è un centro sanitario nelle vicinanze degli insediamenti pigmei, dove non si sentono discriminati, i pigmei ci vanno”, spiega Ebelpoin. Gaspard, un uomo sulla quarantina, mentre attende il suo turno nella sala d’attesa del centro medico, spiega che la vita “nella foresta è molto dura, quindi vado al villaggio, di tanto in tanto. Per vivere raccolgo bruchi, un piatto molto apprezzato e ricercato, ma sono un coltivatore di manioca e banane, cacciatore e pescatore”. Quest’uomo, vestito di stracci non ha nulla contro la modernizzazione, “ma temo che un giorno le nostre tradizioni scompariranno”.

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1 Comments

  1. says: Guido

    Dal libro “L’uomo e l’Invisibile” dell’antropologo francese Jean Servier (1973):
    “…Nessuno di questi “eroi civilizzatori”, ingenui oppure odiosi, si è domandato se non sia ridicolo proporre la civiltà occidentale come la sola possibile, se questo non sia tanto assurdo quanto offrire all’eremita del Monte Athos un posto in una fabbrica e due stanze più servizi, per una esistenza più “razionale”, “progressista” e “civile”.
    Nessuno di questi professionisti del pensiero riesce ad ammettere che la macchina, come il nostro sistema di produzione e di consumo, è un criterio esclusivo della civiltà occidentale in un dato momento della sua esistenza: un criterio relativo, come la ruota, il tornio del vasaio, il boomerang o il gioco delle carte, che non sono mai l’indice innegabile di un punto d’arrivo del pensiero umano.
    Vi è anche il “Quarto Mondo”, quello di cui nessuno si cura, così come agli Stati Generali i signori del Terzo Stato non si preoccupavano degli interessi dei contadini che lavoravano le loro terre. Vi sono i tatuati, i piumati, i nudi, messi ai margini dell’umanità, sfruttati da tutti, anche dal “Terzo Mondo”; popoli i cui nomi compaiono soltanto nei musei di etnografia. Questi non hanno altra scelta che quella di morire: si spengono a poco a poco inesorabilmente, davanti alla civiltà occidentale, come sono scomparsi certi animali senza difesa o troppo ornati.
    Così l’Occidente ritaglia l’umanità secondo la propria struttura, stroncando civiltà in fiore, gettando via deliberatamente tesori di conoscenza e di pensiero. Non abbiamo mai compreso che questo sottosviluppo ostinato di interi continenti o anche di regioni europee è in realtà la grossa valvola di sicurezza dell’umanità, una valvola che protegge i soli uomini capaci di sopravvivere quando gli ascensori si bloccano e le panetterie sono chiuse.
    Molti casi della nostra civiltà dovrebbero farci misurare l’orgoglio dell’Occidente, che ammette soltanto il sottosviluppo materiale.
    Mi domando quale sociologo accetterebbe di studiare il sottosviluppo intellettuale e morale della civiltà occidentale in questa fine del secolo ventesimo. Saremmo disposti ad accettare che filosofi oceaniani, africani o asiatici si preoccupassero per l’aumento delle malattie mentali e della criminalità in Occidente o che ci proponessero un piano metodico che tendesse a fare di noi delle popolazioni “in via di sviluppo”?
    Abbiamo deciso di ignorare il nostro enorme passivo, per proporci come modello al resto del mondo, un po’ per vanità, ma soprattutto per interesse. Siamo i “benestanti” e per questo abbiamo tutti i diritti sul resto dell’umanità. Abbiamo deliberatamente falsato l’equilibrio economico e umano delle civiltà tradizionali e abbiamo trascinato il resto dell’umanità dietro a noi, nella nostra lotta senza fine per conquistare i beni di questo mondo.
    Nessun moralista ha mai posto il problema della responsabilità dell’Occidente in questa creazione di bisogni artificiali, che mascheriamo sotto il nome di “civiltà” o di “tenore di vita”, che ha l’unico scopo di far lavorare le nostre fabbriche.
    Sul piano umano ci siamo imposti come esempio al resto del mondo. La colonizzazione è stata sempre soltanto la volontà di provocare deliberatamente dei mutanti intellettuali sotto l’etichetta del progresso morale: essa prosegue la sua opera inesorabilmente, molto dopo che le armi sono state deposte. …”

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