Slovenia-1

di Lucia Dell’Aira, pubblicato su Ecochange in data 16 giugno 2020

Questo articolo è dedicato a tutti quelli che amano l’avventura e la natura, ai climber, ai semplici viaggiatori e agli organizzatori di viaggi all’ultimo minuto. Perché sì, vi possiamo garantire che a pochi giorni dalla partenza sapevamo solo che saremmo andati: il luogo lo avrebbe deciso il meteo, che monitoravamo spasmodicamente. D’altronde, come scriveva il poeta austriaco R. M. Rilke, si deve sempre andare, nessun sentire è mai troppo lontano.

31 agosto 2019, ore 6.30: prima una vibrazione in lontananza, poi il suono ovattato. La sveglia. Oggi però è diversa, non pesa, sa di vacanza, di avventura e di selvaggio.

Ci prepariamo velocemente, tempo di stipare le ultime cose nel bagagliaio e ci siamo. In totale: una tenda, due materassini gonfiabili, due sedie da campeggio e un tavolino, utensili da “cucina”, candeline, cibo in scatola, corda, imbraghi, libri, cartine…e carta igienica. Fondamentale.

Triglav. Foto: Lucia Dell’Aira.

Imbocchiamo l’autostrada, da Verona fino al confine con la Slovenia il paesaggio è abbastanza uniforme, non ci riserva grandi sorprese. Siamo già proiettati verso qualcosa di nuovo. Finalmente usciamo dall’autostrada, le strade iniziano a diventare tortuose, il Parco Naturale delle Prealpi Giulie ci accoglie con un’esplosione di verde, montagne basse per noi abituati a tutt’altro e muretti rustici. Passiamo per Saga, poco dopo il confine, ed a questo punto la strada che ci guida fino alla nostra prima tappa, Plezzo (Bovec, in sloveno), assume forma liquida e prende il nome di Isonzo (Soča, in sloveno), da cui il nome della Valle Isonzo. Costeggiamo il fiume con i finestrini abbassati, l’aria è pungente. L’acqua è cristallina e brilla ad intermittenza sulle rocce, il sole splende, ancora per poco…

Arriviamo al campeggio ed iniziamo a perlustrarlo per accaparrarci la piazzola migliore. Non è una grande impresa, il turismo in Slovenia in questo periodo comincia a calare e possiamo aggiudicarci un bello spiazzo proprio attaccato al fiume. Non ci sembra vero, abbiamo tutte le comodità possibili immaginabili: individuiamo subito due alberi tra cui stendere l’amaca ed il filo per il bucato, abbiamo una struttura per il barbecue nei dintorni, i bagni sono vicini. Iniziamo a montare la tenda, imprecando talvolta contro i picchetti che non si piantano nel terreno. Ordinaria amministrazione da campeggio. Tutto quello che accade dopo, nel minimo lasso di tempo possibile immaginabile, si può riassumere in quattro parole: temporale, fango, tenda rotta. Abbiamo vinto alla lotteria, le probabilità che si sommino queste tre cose insieme è bassa, eppure noi rientriamo in quel 10% dei casi. Dopo lo sconforto iniziale, durato ben poco, ci rimbocchiamo le maniche e decidiamo di colonizzare una costruzione in pietra, presumibilmente a disposizione comune, per trovare un riparo temporaneo. Dopo un’ora e mezza circa, ci trovavamo all’asciutto sotto la tenda, a sua volta era sotto il soffitto in legno della struttura. Domani se viene il sole ci spostiamo sul prato, dicevamo. È andata a finire che per i tre giorni successivi non ci siamo mai mossi da lì. Succede sempre così quando ti affezioni ad un luogo che ti fa stare bene.

Il riparo. Foto: Lucia Dell’Aira.

Il giorno stesso del nostro arrivo, al primo spiraglio di sole, la fatidica frase “andiamo a fare due tiri?” ci spinge fino alla falesia di Kalkoritnica, a pochi chilometri dal campeggio. Quanto meno, questa era la nostra idea iniziale; perderci nel bosco, ritrovarci su ripidi e sassosi sentierini, sperando che ogni scorcio di roccia fosse la nostra parete, non era nelle intenzioni. Quello che ti frega sempre è il “secondo me è ancora un po’ più avanti”. Parcheggiata la macchina, bastava superare un gruppo di casette piuttosto fatiscenti ma tipiche e proseguire su un ben visibile, evitando di girare a sinistra alla prima stradina invitante. Riusciamo a scalare due orette prima dell’imbrunire, i profumi qui sono più aspri della nostra macchia mediterranea, ma un’aria di pace e di tranquillità ti inebria – la stessa atmosfera che ci accompagnerà per tutto il viaggio. La roccia è calda e compatta e scalarla è un piacere.

Il custode della falesia. Foto: Lucia Dell’Aira.

La cosa più bella dello svegliarsi in campeggio è prima di tutto svegliarsi integri, un po’ ammaccati ma vivi. Mettere fuori il naso dalla tenda, un tè veloce sul fornelletto e si parte. La falesia di Pri Plajerju è un posto magico, il cui custode è un simpatico asino che controlla che tutti rispettino l’ambiente. Non è raro vedere luoghi inquinati dal passaggio di climbers o di sportivi in generale, che per definizione dovrebbero essere quelli più attenti ad uno spostamento sostenibile. Quello che ci ha colpito sin da subito qui in Slovenia sono la cura della natura, che sembra ripagare tale rispetto con panorami verdi e rigogliosi. In realtà, la spiegazione è data dalle abbondanti piogge e dal clima, ma spesso l’uomo pensa che la natura non sia affar suo, usurpandola e pensando che tutto sia dovuto. Al mattino la roccia è fredda e umida, ci sono comunque tiri più semplici per me e vie interessanti per Paolo, distribuite in tre settori. Siamo in pochi e, come sempre in falesia, c’è un clima amichevole. Un po’ di frutta secca e qualche barretta per pranzo sono sufficienti per saziarsi, ma comunque non lo sono abbastanza per adottare uno stile di vacanza completamente “green”. Le monoporzioni di frutta secca sono rinchiuse in sacchettini di plastica, così come gli involucri delle barrette (qui come eliminarli). Informandoci e leggendo (consiglio di lettura: Addio plastica), ci rendiamo conto di come gli sforzi verso un futuro sostenibile siano in realtà infiniti e soprattutto possibili (eccone alcuni); spesso la pigrizia di procurarsi un contenitore in vetro o alluminio o, nella peggiore delle ipotesi, di silicone – comunque più duraturo e meno inquinante rispetto alle confezioni usa e getta – impedisce di porre in essere uno stile di vita più rispettoso nei confronti dei tanti altri nostri coinquilini della Terra.

Cerchiamo di improntare il nostro viaggio sulla sostenibilità e sull’equilibrio, seguendo i ritmi dell’alternarsi del giorno e della notte, del sole e della pioggia, del riposare quando si ha sonno e di mangiare quando si ha fame. Questo ci ha portato anche a mangiare una confezione di mais come merenda, direttamente dalla scatola, nella nostra “casa” improvvisata e ad addormentarci alle nove di sera, senza il disturbo perenne di cellulari, computer, tablet e, in generale, di tutti quei suoni che frastornano nella vita cittadina. Ci svegliamo riposati e felici.

Un pomeriggio, di ritorno dalla falesia, ci fermiamo lungo l’Isonzo, dove intravediamo delle piccole gole, un paradiso turchese incastonato tra le rocce. L’acqua è davvero color smeraldo, la conformità del paesaggio ricorda le gole dell’Alcantara in Sicilia. La temperatura dell’aria è quasi più fredda di quella del fiume, motivazione con cui proviamo ad immergere almeno le gambe. Niente da fare, per questa volta metteremo da parte l’orgoglio di buttarci, anche perché incomincia a piovigginare. Dopo una giornata di sole, ci voleva. Nonostante ci sia parecchia gente, tra cui un numero considerevole di bambini, l’atmosfera è tranquilla, probabilmente le voci si trascinano veloci verso fondo valle con la corrente. Panta rei.

Camping Bovec. Foto: Lucia Dell’Aira.

È tempo di lasciare Plezzo, ci rimettiamo in viaggio come nomadi – dal latino nomas, che erra per cambiare pascoli – alla ricerca di un altro luogo dove piantare la tenda, come in una sorte di ribellione alla vita di città. Colui che è nomade è per definizione “fluido nell’organizzazione, coglie la vita che gli serve per la vita”. Puntiamo la nostra carovana verso la Val Trenta, situata nel Parco nazionale del Tricorno (Triglav, in sloveno). Dentro di noi sentiamo che questa seconda parte di viaggio sarà di una vitalità magnetica di gran lunga superiore alla prima. Mitologia e storia ci accompagnano sin dall’imbocco della strada che porta al Passo della Moistrocca (Passo Vršič, in sloveno). Leggiamo sulla guida che questa strada è stata costruita nel 1915 dai prigionieri di guerra russi, all’epoca sotto il comando dell’esercito austriaco. Percorrerla è affascinante, visto che stiamo camminando su un pezzo di storia, oltre che impegnativo, essendo tortuosa e acciottolata. A metà del percorso circa, si erge una cappella di legno, la Cappella Russa, costruita tra il 1916 e il 1917 dagli stessi prigionieri russi per commemorare i soldati morti sotto una valanga. Valichiamo il passo e la discesa ci mette improvvisamente fame. Per il nostro ritorno alla civiltà, scegliamo Kranjska Gora, una località sciistica dai tratti austriaci i cui pendii circostanti promettono una powder entusiasmante per il periodo invernale. Il nostro desiderio di tornare nella natura ci spinge verso il lago Jasna, uno specchio d’acqua immobile che riflette il clima glaciale che cominciamo a respirare. Il monte Triglav è vicino, con i suoi 2864 m di altitudine è l’orgoglio del popolo sloveno. Si narra che il raggiungere la vetta in un giorno completi l’identità di uno sloveno. Ci rifugiamo sotto una casetta di legno a più piano sulla riva del lago (tanto per cambiare…piove) e, di fronte ad un picnic improvvisato, pianifichiamo la salita sul monte Triglav prevista per il giorno dopo. Paolo mi rassicura che la faremo in due giorni, sono circa 2.000 m di dislivello dal punto di partenza, ci sono molti rifugi lungo la via, che permettono di spezzare il percorso in tappe accessibili. Nonostante fossi elettrizzata all’idea, ero al contempo terrorizzata dal percorso. La maestosità del Triglav, avvolto nelle nubi e nelle leggende, mi intimoriva.

Paolo durante la salita al Triglav. Foto: Lucia Dell’Aira.

Spoiler: alle 19 del giorno stesso della partenza, ci stavamo togliendo gli scarponi alla macchina scrutando il parcheggio alla ricerca di una pozza d’acqua dove immergerli per alleviare la fatica.

 

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