La cresta Signal
di Lionello Leonessa
(pubblicato su Scandere 1957-1958)
La Signal comincia a Varallo.
Questa è l’impressione che mi è rimasta dalle mie puntate in Valsesia. Dal giorno in cui, seggiotrasportato all’Alpe di Mera, ho posato per la prima volta lo sguardo sulla bitorzoluta massa del Rosa, via via alle successive scappate in quel di Alagna, sempre alla ricerca della fuggevole volta buona, Valsesia, cresta Signal, Monte Rosa hanno costituito una unica entità, una successione di particolari di un tutto senza soluzione di continuità, il prologo, svolgimento ed apoteosi di uno spettacolo che all’Arte non ha nulla da invidiare.
Ho detto Varallo, ma avrei dovuto dire Borgosesia, anzi Romagnano, là dove la strada lascia la fertile e piatta monotonia della pianura e s’inoltra tra le verdi e incolte collinette, fianco al fianco al pigro Sesia, ormai entrato nella maturità della sua corsa saltellante e canterina, nata fra i seracchi e cresciuta lungo i greti sassosi delle vallette montane. E’ serio e posato qui, il fiume: viene di lassù, dove noi siamo diretti e dove il desiderio già ci precede, ma nella sua esperienza ha perduto il brio e la limpidezza, scorre con sussiego tra gli argini che l’uomo gli ha assegnato e non riesce più ad evocare lo splendore della sua culla.
Le collinette che in principio si incontrano, e sembrano messe là tanto per dare movimento al panorama, diventano gradualmente montagnole sempre più consistenti, fra le quali la valle ormai fatica ad insinuarsi; il paesaggio pure gradualmente muta, passando dalla cittadina di fondovalle con i suoi palazzi e le sue cattedrali al gruppo di casolari addossati al campanile in bilico sul crinale, dai peschi e vigneti alle cupe pinete, dalle messi rosseggianti di papaveri alle rupi impellicciate di rododendri, da Varallo a Scopello, all’Alpe di Mera, a Riva, ad Alagna. Son tanti quadretti che si susseguono: l’autore non è famoso, il tocco non è sublime, ma sono piacevoli all’occhio e l’occhio vi si indugia, quel tanto che è necessario prima di passare al quadro successivo. Non è l’opera lirica ma la canzonetta orecchiabile, che l’udito inconsciamente registra e le labbra inconsciamente fischiettano, perché è un balsamo per lo spirito, perché è graziosa anche se è fatta di niente.

Alagna potrebbe essere uno stacco. Qui finisce il viaggiar comodo: d’ora in poi ogni centimetro guadagnato in altezza dovrà venir estorto, tradotto in calorie, dalle nostre riluttanti riserve energetiche. A parte questo particolare, la musica non cambia: la stessa valle, lo stesso torrente, lo stesso ambiente, la stessa meta. Le spalle si assoggettano al giogo dello zaino e le gambe ricominciano il loro secolare mestiere; oggi tuttavia ce n’è per poco, che ormai l’ombra prevale ed i fienili addossati alle malghe da cartolina disseminate tra i verdi pendii sono quanto mai invitanti. Questa sera possiamo ancora abbandonarci ai lussi di un pasto luculliano; la soddisfazione della lauta cenetta va divisa alla pari fra lo stomaco che si riempie e le spalle che vedono scemare il loro carico.
La fermata all’orrido rientra nelle consuetudini. La frizzante aria mattutina ha durato fatica a dissipare le nebbie di Morfeo e la prima mezz’ora di marcia è passata in uno stato di torpore semicosciente. Lungo la stradicciola diruta dalle acque, il pigro ritmare dei passi è stato accompagnato dal sussurrar del torrente, ed ecco là, dove il flutto si svincola da una strettoia ed il fruscio diventa fragore, ecco là, adagiata sul nero castone della valle boschiva, la gemma fulgente del Rosa già in pieno sole. E’ proprio lui, ma com’è bianco! L’elegante sinusoide della cresta Signal si staglia netta contro il ciclo terso, di un azzurro ancora cupo, e sembra irraggiungibile: un pio desiderio.
L’inattesa e fuggevole apparizione ha dato il definitivo scossone alla postuma apatia e il passo s’è fatto più deciso. Abbiamo incontrato la miniera d’oro, ormai dalle attrezzature smembrate e con gli stabili invasi dai figli del Meridione, e ora all’orrido, dicevo, si prende per buona la scusa della contemplazione dell’immenso paiolo per fare una prima sosta. Mentre si accende una sigaretta, nella profonda fossa che il Sesia bambino s’è scavata e in cui precipita con rabbioso frastuono, alcuni raggi obliqui tingono d’arcobaleno le vaganti miriadi che salgono dal ribollente baratro.
Quel che segue è un incanto. L’Alpe in fiore con i minuscoli abituri anneriti dal fumo, il maestoso scenario che dal Col d’Olen al Colle Signal sta rivelandosi in pieno, il sentierino imbottito d’humus che gioca a rimpiattino con i torrentelli sotto l’arcata di splendide foreste di conifere; il sole rifratto dalle perle di rugiada, l’aroma del bosco, il canto delle creature alate: una messa in scena degna di vagabondaggi ben più romantici di una banale marcia di avvicinamento. E pensare che l’alpinista, in teoria scopritore e dominatore spirituale di tante ricchezze, il più delle volte vi passa accanto curvo e sudato sotto il fastello di ferro e corda, con nella mente il solo pensiero delle difficoltà da incontrare, di cui ragiona in termini matematici, indifferente a quanto lo circonda salvo per discernere, tra la dovizia dei colori del creato, la compiacente vernice rossa che lo condurrà, diritto e incosciente, ai piedi del suo, non ideale, ma idolo e tiranno assoluto: la roccia!
Il pedaggio all’ingresso nel regno della alta montagna si paga quando, col sole già alto, si superano le bastionate che sostengono il circo glaciale. Qui non più pini, non più l’aromatica frescura, non più idilliaci recessi: la magra erbetta che contende alla pietraia il diritto alla vita è quanto rimane ad addolcire il passaggio alla neve eterna. Le vette eccelse sono scomparse e sopra al capo incombono informi paretoni rocciosi o pencolano minacciose le fronti delle seraccate. Scricchiolii sinistri e tonfi rovinosi sono contrappunto alla pesante sinfonia che, ispirata all’opprimente meriggio, non riesce a commuovere lo spirito. Si ha un bel essere poeti, qui: quella che prevale è la voce della materia, la voce della carne indolenzita, la voce dei sensi riarsi, ed è una voce di protesta!
E le balze nevose del basso ghiacciaio, sopra all’interminabile cono morenico, dove il sole dardeggia non mitigato da alcun alito di vento! E il rifugio che è là, a portata di mano, ma come un incubo sembra sfuggire, mentre il piede non trova appoggio all’improba fatica ma annaspa, sprofonda, scivola! E i primi assalti alla cresta, dove non è né roccia né ghiacciaio, ma traballante pietra accatastata dalla forza di gravità e inconsistente neve marcia, viscida sul sottostante vetrato!
No, non è un rifugio per turisti domenicali, la capanna Resegotti! Chi vi entra ha già sostenuto il battesimo, l’iniziazione, ed è ben degno di far parte del regno delle altezze.
Mentre i volonterosi si danno da fare a convogliare in una padella le stille che colano dai ghiaccioli e ad attizzare una specie di fumo acre e biancastro che per semplicità chiameremo fuoco, ne approfittiamo per dare un’occhiata all’ingiro. Di fronte a noi, la Signal rivela ora la sua robusta ossatura e le articolazioni lungo le quali la fantasia già sale in anteprima, fino alla cima dove il sole in controluce accende una fiaccolata sulle lamiere dell’Osservatorio. A sinistra ed a destra tutta la facciata del Rosa, dalle rocciose bastionate della Giordani, ai nastri argentei della Parrot, alla tormentata e precipite parete della Nordend. La vicinanza dell’immenso bastione è quasi opprimente e si cerca un po’ di respiro nell’opposta sagoma della Grober, molto più snella da questo punto di vista. Ai suoi, lati sprofondano la val Anzasca incredibilmente sconvolta, fino al Belvedere di Macugnaga, e la val Sesia a giganteschi gradoni, su cui spiccano ancora piccolissime le orme che ormai fanno parte dei nostri ricordi.
Nel ciclo vespertino si accendono ad uno ad uno i lumi del firmamento; nella pace del luogo e nella solennità dell’ora gli amici si raccolgono in silenzio. Nel fondo delle valli altri lumi si accendono; al di là dei monti, nella pianura, nella città che il progresso ha corrotto e da cui siamo fuggiti, c’è qualcuno che pensa a noi e, forse a quest’ora prega. Nell’infinita cattedrale che ha per navata la volta del cielo e per altare il trono del Creatore, la piccola capanna è un lumicino fioco, un atomo nel mondo di roccia, ghiaccio, stelle; qualcuno intona un canto sommesso, qualcuno tace; ma quel canto, quel silenzio, troveranno modo di unirsi alla preghiera lontana per giungere, assieme, a Dio.
Lo squassar della tormenta sulle strutture del rifugio si accompagna al frusciar della neve che ricopre e seppellisce rifugio, roccia, speranze. Questa è la prima percezione che giunge al cervello ancora non ben desto; la pigrizia innata, non più latente, impregna di un certo maligno sollievo il senso di incredula delusione che segna la fine del nostro sogno. In queste circostanze la cosa saggia è voltarsi nel giaciglio e infilare la testa sotto le coperte, alla ricerca del sonno perduto.
Questa mattina invece è giocoforza alzarci. All’orizzonte ancora perlaceo qualche cumulo, più decorativo che minaccioso, non impedisce di prevedere una buona giornata. Sbrigate perciò le poche faccende d’uso si dà l’addio alla dimora provvisoria, ed eccoci a tu per tu con la Signal. Molto bonaria, in principio: la crestina di neve che porta al colle costituisce un ottimo balcone sulle valli Ossolane; la neve tiene ottimamente e, dove l’eccessiva cornice fa prudentemente abbandonare il tagliente, compiacenti roccette rinfrancano i primi passi incerti. Intanto il sole con breve scaramuccia ha sgominato la sparuta schiera di vapori e già accarezza di viola il mare azzurrognolo che aleggia sulla lontana pianura; il Rosa, già scintillante, sj presenta nel suo abito da festa, tutto trine e gioielli (ma lo pagheremo salato il suo bianco paludamento!).
Concediamoci un’ultima sosta contemplativa e poi, bando al sentimento! Oggi è giornata di battaglia ed il monte che ieri ci ha visti sbigottiti e in soggezione ai suoi piedi ci vedrà trionfatori e dominatori. Ma la lotta sarà dura e non avremo occhi che per la via; tacerà lo spirito mentre trionferà il fisico, la muscolatura ben allenata, l’istinto sicuro e i riflessi pronti, i polmoni educati a strappar l’ossigeno all’avara atmosfera dei 4000. Sarà oggi il giorno dell’uomo tecnico, dell’uomo bruto!
La caratteristica della cresta Signal è la graduale variazione delle difficoltà. Comincia con un pendio nevoso, costellato di massi, il quale da dolce si fa sempre più ripido, fino a terminare ai piedi di un torrione rossastro. Il passaggio dall’orizzontale al verticale è talmente impercettibile che non ci si fa nemmeno caso e, intenti alla cernita degli appigli, ci si trova improvvisamente abbrancati al di sopra delle fauci spalancate del ghiacciaio. Il torrione si gira a destra, dopo di che segue un bellissimo ed aereo spigolo nevoso che muore sotto a giganteschi pinnacoli granitici.
Ed è qui che cominciano le dolenti note. Niente di estremo, intendiamoci; però mi piacerebbe vedere alcuni fra gli “scalettisti” puri di mia conoscenza, alcuni dei “sestaioli” della Rocca Sbarua, alle prese con il secondo e terzo grado della Signal, quando su tutti gli appigli un palmo di neve ricopre l’insidioso vetrato e sotto ai piedi sfuggono vertiginosi canalini senza fondo.
I granitici pinnacoli non si possono superare direttamente, ma si gira sul versante Ossolano: un pendio incrostato di bianco, tutto a salti e gole da cui pendono stalattiti di tutte le dimensioni e in cui bisogna inoltrarsi a casaccio. Di terrazzini, intesi come tali, neanche il segno: le soste si fanno aggrappati a qualche spuntone cementato dal gelo, con la muscolatura irrigidentesi nei crampi della posizione forzata, mentre i minuti scorrono eterni e ci arriva sul capo e si infila nel collo, fra accidenti ed imprecazioni, la neve ed i ghiaccioli che il primo scarica senza parsimonia nei suoi pur lentissimi movimenti. Ma, poveraccio, mettiamoci nei suoi panni: siamo abbarbicati a gelide scaglie di roccia dall’aspetto ben poco rassicurante, senza vedere un’uscita all’interminabile sequenza di blocchi vetrati e canalini gelati, senza poter contare sui chiodi, che qui le fessure buone sono un lusso e tornano molto più sicuri i chiodi da ghiaccio. Si ha sempre l’illusione di scorgere dei comodi e sicuri pianerottoli là dove, giunti sul posto, troviamo solo superfici sfuggenti e viscide, mentre la corda comincia a scarseggiare. La piccozza fa quel che può ma il più sovente è d’impiccio e i ramponi, tolti al colle, non abbiamo avuto più la possibilità di rimetterceli.
E’ veramente concentrata qui, la difesa della montagna; sembra che essa si opponga come può all’avanzata degli infinitesimi esseri che, centimetro per centimetro, si arrampicano senza una ragion logica, senza uno scopo pratico, ma per il puro sadico gusto di dar alla vita un sapore, un’ebbrezza, un senso differente da quello dell’esistenza vegetativa, di cercare nel rischio quei valori morali che solo a pochi fortunati l’Arte o la Mistica sa dare, a questi microbi che non esitano a sfidare il gigante di cui la minima scrollatina li può cancellare dalla faccia del creato.
Come tutte le cose a questo mondo anche le vicissitudini han termine e ci si trova su una crestina nevosa, su cui ogni tanto piovono i pezzi dei candelotti pendenti dagli strapiombi sovrastanti. Siamo al punto di flesso della gran sinusoide fra quegli strapiombi si dovrà cercare di passare. La guida, consultata in partenza, parla di un diedro-camino, ma tentativi diretti ad alcuni diedri delle vicinanze si infrangono invariabilmente contro delle cascate di ghiaccio, sotto a cui antichi chiodi testimoniano di precarie ritirate. Alla fine la sfinge viene debellata con una traversata a sinistra, su delle divertenti ed eleganti lame, sospese sopra un nevaio vertiginoso e repellente.
Ed ora improvvisamente torniamo allegri e cominciamo a considerare la Signal una bellissima salita perché, girato uno spigolo roccioso, ci troviamo sul bordo di un gigantesco canalone e, dall’altra parte, in alto, fra le nubi, ed ancora tanto distante ma all’illusione vicinissima, la capannina dell’Osservatorio rifrange di rosso i raggi del sole che siamo ancora tornati a salutare. La Signal è nostra!
Da questo punto l’animo si libera da quei noiosi patemi, da quella sottile angoscia dell’ignoto che è l’amaro nel calice di ogni ascensione sconosciuta. La gioia dell’arrampicata ritrovata in pieno, il sole, la vista della meta ormai sicura, fa considerare sotto un punto di vista completamente differente la neve e il vetrato che ancora ci attendono e fa superare al volo l’allegra crestina che ancora ci rimane. Un ultimo salto appena impegnativo, una parvenza di cornice tanto per salvare le convenienze, poi si mette piede su un largo dosso nevoso.
Diamo una manata scherzosa sulla spalla all’amico, «va là, vecio, che sei ancora in gamba», ma già la voce è strozzata e l’occhio corre libero sullo sterminato mare, ogni onda del quale ha un nome, una storia. Su molte di queste vette abbiamo lasciato la nostra impronta, su qualcuna il nostro cuore; dal Viso al Gran Paradiso, al Ruitor; dal Bianco maestoso al Cervino che giganteggia ardito sul catino del Grenz, appena limitato dal candido scivolo dei Liskamm; dalle vette del Vallese alle cime del Rosa che abbiamo vicinissime; dalla Jungfrau al lontano Bernina; innumerevoli altre cime di cui a malapena conosciamo il nome, altre che si confondono irrimediabilmente nella moltitudine anonima; c’è tutto il comitato d’onore raccolto a dare il benvenuto alla nostra egocentrica vanità.
Ma mentre la mano con gesto automatico cerca di arrotolare il nailon incrostato di ghiaccio ed il lento passo già ci avvia là dove, oltre la piramide del «Segnale», una voce amica lancia richiami dal rifugio, dilegua il trionfo e da vincitori ci sentiamo vinti. Non sono le montagne che rendono omaggio a noi ma siamo noi in adorazione al cospetto del miracolo della creazione, e questo mondo di gelo, senza colore, senza movimento salvo per il turbinar della neve sulle cornici indorate dal tramonto; questo mondo in cui la vita per l’uomo diventa problematica e fino l’aria gli nega il necessario all’esistenza; questo mondo ci ha soggiogati come l’invasore barbaro fu soggiogato dallo splendore di Roma imperiale invasa; noi siamo vinti e conquistati dalle vette che calpestiamo, siamo casi senza speranza.
E sempre senza, anzi contro ogni ragion logica, ricercando nella sua stessa inanità la causa prima e il perché della nostra passione, calcheremo ancora queste vette di cui siamo schiavi. E perché le vette sono vicine al cielo, per essere vicini al cielo torneremo ancora a salire, a gelare, a soffrire; torneremo a gioire, a trionfare; torneremo a piangere di commozione per un rosso tramonto visto attraverso una fumata di tormenta.