Lassù sulle Alpi Occidentali
di Ugo Ranzi
Sono sempre stato più attirato dall’arrampicata su roccia che su neve e ghiaccio. Ho passato più tempo sulle Dolomiti che sulle Alpi Occidentali, però qualcosa ho fatto anche là. I 4000 con le loro distese di nevi eterne (speriamo!) esercitano un’attrazione cui non può sfuggire uno che ama la montagna e si crede un alpinista. Le mie prime esperienze montane le avevo fatte in Trentino a partire dai 4/5 anni ma già a 14 ero stato in val d’Aosta.
Il mio curriculum delle Occidentali include qualche incompiuta eccelsa, una sconfitta cocente, alcuni 4000, l’altitudine massima da me raggiunta.
Le prime volte a 3000 metri
La prima volta che ho superato i 3000 metri avevo 14 anni. Ero ad Entreves con l’oratorio in una casa vacanza. Oltre a quelli del mio oratorio c’erano ragazzi provenienti dal Piemonte. In particolare c’era un gruppo di ragazze di San Salvatore in provincia di Alessandria. Per la prima volta ricambiando gli sguardi di una di loro, Laura, avevo scoperto che c’erano anche altre cose interessanti oltre il gioco del calcio, ma questa storia è fuori tema.
In quei 15 giorni avevo visto il lago del Miage, il rifugio Elisabetta, avevo trovato insieme agli altri un masso spaccato con all’interno tanti cristalli bellissimi di quarzo blu, avevo esplorato il primo chilometro del tunnel del monte Bianco in costruzione, avevo assaggiato il genepy, avevo imparato a costruire dei piccoli cestini usando rametti di pino, corteccia e fil di ferro ed ero salito ai 3375 metri del rifugio Torino. Senza nessun merito perché avevo usato la funivia che a quel tempo aveva costi accettabili anche per un ragazzino. Avevamo ammirato il Dente del Gigante e, guidati dal sacerdote che ci accompagnava, malgrado l’equipaggiamento approssimativo, ci eravamo spinti oltre i Flambeaux.
Il vero battesimo dei 3000 venne l’anno successivo, avevo 15 anni e avevo sviluppato una mentalità competitiva sia verso gli altri che verso me stesso. L’oratorio ci aveva portati in vacanza ad Antagnod a 1719 metri in val d’Ayas e lì per due volte ho superato l’ambita quota.
L’allenamento l’avevo fatto su e giù per i 1000 metri di dislivello del monte Zerbion, cercando di arrivare prima dei miei amici e cercando di abbassare il mio record di salita.
Allenamento fruttuoso per la salita della Testa Grigia, quella di Champoluc non la gobba nevosa dei Breithorn. Partendo da Antagnod, i suoi 3315 m e gli ultimi metri abbastanza emozionanti (non c’erano ancora corde fisse), mi hanno impegnato per più di sette ore tra salita e discesa, che belli i laghi Pinter. Qualche giorno dopo, la salita al rifugio Mezzalama 3036 m, dalla caratteristica struttura di legno, mi fece conoscere l’ambiente delle morene e del ghiacciaio.
Ci accompagnava il sacerdote responsabile dell’oratorio femminile. Avevo con lui grandi discussioni sull’argomento organizzazione di gite miste oratorio femminile/oratorio maschile. Mi ero guadagnato una buona fama di organizzatore di gite e quindi ero richiesto anche per l’organizzazione delle gite dell’oratorio femminile. Io gli parlavo di abbattimento di costi, socializzazione, scambio di esperienze ma lui era irremovibile, gite separate. Riuscii una volta a partecipare alla gita femminile a Bellagio con la scusa di ottenere indicazioni per le gite successive. Ero l’unico maschio, una pacchia, sono riuscito a conoscere più ragazze in un giorno che in tutti gli anni precedenti. Oggi suona strano ma negli anni ’50 non era facile conoscere ragazze: genitori severi, maschi imbranati, sesto comandamento, discoteche di là da venire e altre complicazioni. In gita avevo finalmente conosciuto lei, la ragazza con gli occhi neri e con le lunghe trecce, nere anche quelle; “galeotta fu la gita e chi la organizzò”, nacque una storia sentimentale da adolescenti. Puntualmente arrivò la reprimenda del Don “così non va bene, fiducia tradita, ecc.”, qualche delusa aveva fatto la spia ma chi se ne… La svolta avvenne l’anno dopo, ebbi l’illuminazione: organizzare le gite per le ACLI della parrocchia. Lì le gite miste erano permesse, c’erano molte ragazze più grandi di me e qualche storia fu meno platonica.
Breithorn, il mio primo 4000 senza saperlo
Sul primo 4000 ci sono arrivato per caso. Ero a Valtournenche in una casa vacanze di un’associazione di Alessandria. Avevo fatto amicizia con tutti i ragazzi e le ragazze lì in vacanza. Un giorno mi dissero “andiamo sul Breithorn, vieni anche tu?” “Va bene”. Non sapevo di cosa si trattasse ma non volevo fare brutta figura di fronte agli occhi grigi di quella bella ragazza bionda di Alessandria.
Si doveva prendere la funivia del Plateau Rosa a Cervinia e poi si proseguiva a piedi in salita, una delle tante gite che avevo fatto in quei giorni, non sapevo cosa fosse il Breithorn e tantomeno la sua altezza. Non avevo nessuna attrezzatura particolare, solo un paio di occhiali da ghiacciaio, di mio papà, risalenti ai primi del 1900. Niente piccozza, niente ramponi, nessuna crema protettiva, neanche le ghette per cui dopo un po’ i piedi erano fradici. Unico elemento a mio favore, l’energia dei miei diciassette anni che supplivano a tutto ciò che mancava. Una lunga camminata sulla neve, l’ultimo tratto in forte pendenza ed eccomi sul mio primo 4000, per l’esattezza il Breithorn Occidentale 4165 m. Il tempo era fantastico, neanche una nuvola, il panorama meraviglioso, il Cervino lì di fronte lo conoscevo, il monte Rosa anche, ma senza sapere i nomi delle singole cime.
Dopo la sosta d’obbligo e un po’ di foto reciproche, giù a salti per la discesa. Saliva una guida in cordata con due clienti, ce ne disse di tutti i colori. Non capivamo il perché, pensammo che volesse convincere i suoi clienti che non avevano sprecato i loro soldi per affidarsi ad una guida. Lo capii solo anni dopo quando, frequentando i ghiacciai, mi resi conto del pericolo dei crepacci nascosti. Dopo una notte insonne per le scottature e dopo aver cambiato due volte la pelle della faccia capii anche a cosa servivano le creme protettive.
Capanna Margherita
Alla capanna Gnifetti ero stato alcune volte con mia moglie Mila. Lei, amante del mare, mi seguiva in montagna un po’ per curiosità un po’ per rassegnazione. Comunque meglio un marito che la portava in mezzo alla natura piuttosto che un marito che alla domenica la portasse allo stadio. I 3647 metri di altitudine sono stati il suo record di altitudine. Devo anche dire che mentre io, montanaro abituale, sentivo uno sgradevole peso alla nuca, lei, marina dall’infanzia, non aveva nessun disturbo causato dall’altezza. La prima volta eravamo passati dal rifugio Mantova, la seconda dalla via attrezzata. Ci eravamo tornati poi con una coppia di amici.
In queste gite avevo maturato il desiderio di salire anch’io ai 4554 metri della Punta Gnifetti. L’entusiasmo e la luce di felicità negli occhi di quelli che tornavano dalla capanna Margherita ai quali avevo chiesto informazioni mi avevano fatto capire che doveva essere un’esperienza da non perdere.
Non fu così facile, occorsero due tentativi prima del successo.
La prima volta eravamo un gruppo numeroso: Alberto, Paolo e Gianni colleghi d’ufficio, Giorgio abituale compagno d’alpinismo e io. Il rifugio era gremito e ci diedero da dormire alla bell’e meglio. La cena non era stata delle migliori, c’è una ragione fisica per cui nei rifugi in quota la pasta è quasi immangiabile, a 3000 metri l’acqua bolle a meno di 90 gradi e quindi bisognerebbe cuocerla più a lungo ma nessuno lo fa, anche il secondo era dello stesso genere. Avevo fatto agli amici il fervorino sui disturbi dell’altezza raccomandando parsimonia nel mangiare e nel bere. Gianni, disobbediente, aveva passato parte della notte alla toilette invece che sul materasso.
Alle quattro nella sala sembrava di essere in piazza del Duomo, non c’era uno spazio libero, colazione frettolosa, borracce di acqua calda per il tè, ramponi killer, intrichi di corde. Finalmente fuori, ma il tempo non era quello desiderato, nebbia e poco freddo non facevano presagire niente di buono. Tutti in fila su verso la meta, difficili i sorpassi, non tutti i componenti del mio gruppo erano in forma. Cosa andavamo a fare in un posto dove ci si vedeva solo a tre metri con la nebbia uguale a quella di Milano? Optai quindi per l’idea di portare i miei amici fino al battesimo dei 4000 metri per poi tornarcene prima che il caldo magari causasse il battesimo della caduta in un crepaccio.
La seconda volta eravamo solo io e Giorgio. Tempo splendido nella salita alla capanna Gnifetti, tempo fetido il giorno dopo, più nebbia della volta precedente a mala pena si vedeva la traccia nella neve sotto i piedi. Forse più su, come tante volte succede in montagna e quasi sempre in aereo, c’era il sole per cui ci mettemmo di mala voglia in cammino. Niente da fare, così decidemmo di salire sulla Piramide Vincent almeno per conquistare un 4000. Individuata con difficoltà, causa nebbia, la direzione giusta cominciammo la salita. Poco prima della vetta, un vento fortissimo spazzò via tutto e ci regalò un panorama meraviglioso. Era ormai troppo tardi per la Margherita, per cui continuammo il piano B, la Vincent. Arrivati alla vetta dovemmo procedere carponi per non farci spazzare via anche noi.
Finalmente nel luglio del 1989 ce la facemmo. Eravamo Giorgio, io e Alberto che aveva partecipato al primo tentativo. Raggiunta la Gnifetti con un tempo splendido abbiamo mangiato la solita pasta orrenda, previdenti il secondo ce lo eravamo portati da casa. Notte buona, sveglia un po’ prima della massa, calzatura di ramponi senza complicanze e via tra i primi in una notte ancora stellata e foriera di giornata splendida. Giudicando il numero dei sorpassi effettuati, eravamo tutti e tre in gran forma. Con l’arrivo della luce il Monte Rosa ci mostrò la magnificenza delle montagne che ci circondavano, Lyskamm, Zumstein, Parrot e, sempre più vicina, la punta Gnifetti. Credo che abbiamo realizzato un ottimo tempo, non lo controllo quasi mai, solo in salite di allenamento, perché do più importanza al godimento dell’ambiente che alla prestazione. Procedevamo in fila indiana, a qualche decina di metri dalla Margherita noi tre ci aprimmo a ventaglio per arrivarci tutti primi.
L’altitudine non mi ha dato fastidi, solo una sensazione di euforia, non so se per l’altezza o per la contentezza. 4554 metri, la maggior altitudine raggiunta nella mia vita.
Sconfitta sul Castore 4228 m
Nel mezzo del cammin della mia vita
Mi ritrovai su una cresta oscura
Ove la via per la vetta era tracciata
Quel giorno compivo 50 anni e per questa ragione ero giù di corda, credevo fosse l’inizio della vecchiaia, come ero sciocco… magari oggi potessi tornare a quell’età. Ovviamente questa situazione psicologica influiva abbondantemente sul mio morale.
Volevo aggiungere il Castore alla lista dei miei 4000. Con Giorgio avevamo pernottato al rifugio Quintino Sella 3585 m, non mi ero trovato male e avevo anche dormito bene, cosa che di solito sopra i 3000 non mi capitava. Fisicamente stavo bene, avevo un buon allenamento, le premesse erano buone. Il tempo non era esaltante, cielo un po’ lattiginoso ma nessun rischio di nebbie o temporali. Era il morale che non funzionava bene, cosa ci facevo lì alla mia età?
Superati i 4063 metri del Colle del Felik e lasciati alle spalle i Lyskamm, mancava poco alla cima. Arrivammo a una malefica crestina lunga una decina di metri e larga meno di 50 centimetri, sotto da entrambi i lati sprofondavano abissi di centinaia di metri. Avevo letto che se uno cade basta che l’altro si butti dall’altra parte e facendo contrappeso ci si salva tutti e due, ma una parola è la teoria e un’altra trovarcisi coinvolti. Provai la soluzione di passare uno alla volta mentre l’altro faceva sicura sulla piccozza piantata completamente nella neve. La mia era ancora di quelle lunghe quasi un metro e quindi la tenuta era assicurata ma anche se fosse stata lunga cinque metri non sarebbe bastata per convincermi a passare in equilibrio su quella cresta. Vedevo la cima a portata di mano ma la paura era troppa e così rinunciai.
L’unico dispiacere è stato di aver fatto rinunciare anche Giorgio che non soffriva delle mie turbe e che anche in quella situazione fu molto comprensivo.
In montagna se si hanno in programma cose impegnative si deve avere buona forma sia fisica che psicologica. Se la prima manca si può comunque combinare qualcosa, ma se la seconda non è perfetta è meglio andare al mare.
Gran Paradiso e quasi Dente del Gigante
Il nome Gran Paradiso è già un programma. Le valli ai suoi piedi sono tutte belle e sono abitate da animali selvatici che sembrano quasi domestici. Mi è sempre piaciuto incontrare i selvatici, avevo la fortuna di avere una nonna con la casa vicino a Trento, ai piedi del versante occidentale del Sorasass, e qui incontravo spesso scoiattoli, ghiri, caprioli e lepri, più raramente volpi, tassi e donnole. Vedevo volteggiare falchi e poiane e una volta al crepuscolo ho visto anche un gufo. Una volta dopo dieci minuti di rincorse ho catturato un volpacchiotto che mi ha dilaniato un dito prima che lo mettessi in una gabbia per i conigli, ovviamente senza conigli. Dopo un’ora l’ho liberato commosso dai tristi ululati della madre che si aggirava sconsolata nei dintorni.
Oggi tanti selvatici scendono persino in città ma 50 anni fa vedere un camoscio a meno di 100 metri era quasi impossibile. Solo nel parco del Gran Paradiso riuscivo ad avvicinarli: così con la scusa di portare il mio bambino a vederli, in realtà portavo a vederli il bambino che era in me.
Sono stato spesso in Valsavarenche e val di Rhêmes ma quella che ho frequentato di più è stata la val di Cogne. L’albergo Sant’Orso non era ancora 4 stelle, aveva prezzi accessibili, cucina ottima, camere tutte in legno e soprattutto un prato immenso con vista montagne. Addirittura si diceva che quello fosse il prato più grande d’Europa.
Naturale conseguenza della frequentazione delle sue valli era ammirare il Gran Paradiso e desiderare di salirci. Cosa che feci assieme a Massimo.
Ero arrivato con un giorno di anticipo al rifugio Vittorio Emanuele II, lui mi avrebbe raggiunto il giorno seguente. Nel tragitto avevo incontrato ogni tipo di animale e dal rifugio il panorama era veramente entusiasmante. Una cima, con la sua bella forma piramidale, aveva attirato la mia attenzione. Non sembrava difficile e così decisi di salirla, che bello fare qualcosa di non programmato! Purtroppo capita raramente, famiglia, lavoro, maltempo, obblighi e tutti gli altri impegni difficilmente permettono di fare quello che vuoi nel momento in cui lo desideri. Mi era rimasto in mente particolarmente un episodio che avevo letto nel libro Arrampicare è il mio mestiere. A Cesare Maestri, mentre faceva una passeggiata sopra Molveno con degli amici, era venuto il desiderio di arrampicare sul Croz dell’Altissimo, aveva salutato gli amici e si era salito da solo la via Dibona. L’avevo sempre invidiato, aveva avuto un desiderio e lo aveva subito realizzato. Ecco io quel giorno apprezzai la situazione “che bella montagna, ci salgo”, oltre al piacere della salita mi sono goduto la mia libertà. Seppi al ritorno che si chiamava Pizzo Tresenta.
Alla sera arrivò Massimo e per prima cosa disse “ormai abbiamo 40 anni dobbiamo fare attenzione ai nostri limiti”. Cena ottima, cosa rara a quei tempi, quando l’attrazione dei rifugi era alpinistica e non gastronomica. Solita sveglia antelucana, barcollando ancora un po’ addormentati arrivammo all’inizio della parte nevosa da affrontare dopo aver indossato i ramponi. Non sono mai stato un patito del ghiaccio per cui mi trovai un po’ a disagio sul ghiaccio vivo di una lunga traversata con rischio di scivolata ancora più lunga. Superato il “mauvais pas” la salita proseguì senza problemi, eravamo in ottima forma. Il freddo era intenso e cambiare il rullino della macchina fotografica e fare pipì risultò piuttosto complicato. La giornata era molto bella e quindi dalla cima il panorama era favoloso. Nessun problema in discesa, anche il mauvais pas non era più tale grazie alla temperatura che aveva ammorbidito il ghiaccio.
Tornati al rifugio scattò l’idea ardita: “e se domani facessimo il Dente del Gigante alla faccia dei quaranta anni?” Discesa di gran carriera, ultima corsa della funivia per rifugio Torino presa al volo. Unica condizione posta da Massimo: il giorno dopo voleva essere assolutamente dalla sua Franca al mare a Chiavari.
Al rifugio Torino la cena non fu al livello di quella della sera precedente, ma la notte ci regalò un ottimo riposo. Al mattino, dopo i soliti riti di vestizione e nutrimento, ci accolse il ghiacciaio. Avevo un po’ di preoccupazione per l’erto canalino dove cominciava l’avancorpo del Dente, invece lo superai senza difficoltà. La brutta sorpresa arrivò subito dopo, aveva da poco nevicato e tutta la parte successiva era innevata. Bisognava salire con cautela pulendo ogni appiglio, le invernali non mi attirerebbero proprio. Per arrivare alla Gengiva impiegammo un mucchio di tempo. Ancora un po’ di paura sul ghiaccio lucente per traversare alla Salle à Manger e finalmente toccai la roccia e che roccia fantastica.
Assaporando finalmente il piacere dell’arrampicata ho raggiunto la bellissima placca Burgener la cui estetica era disturbata da una specie di gomena. Snobbata la corda fissa ho salito la placca con grande piacere, quasi in estasi.
E’ passato molto tempo e forse nella mia testa questa placca la idealizzo un po’ troppo. Certamente il cordone ha permesso di raggiungere la vetta a tanti che senza il suo ausilio non avrebbero potuto provare quella gioia, però per altri la salita è avvilita dalla sua presenza. Forse si potrebbe mettere una corda fissa tipo ferrata a qualche metro di distanza in modo da lasciare la placca nella sua bellezza originale e nello stesso tempo facilitare la salita di chi deve utilizzare la corda fissa.
Fatto mezzo tiro seguente realizzammo che se non fossimo scesi subito Massimo avrebbe perso l’ultima funivia e con dispiacere interrompemmo l’ascensione.
Sul ghiacciaio, Massimo accese il turbo e con una velocità da ventenne conquistò l’ultima corsa di funivia. Io invece me la presi con calma e, non avendo più stimoli, accusai la fatica: la stanchezza accumulata esplose di colpo. Per raggiungere il rifugio Torino impiegai un tempo da novantenne. Una birra di premio e un po’ di riposo; la camera aveva una posizione favolosa, dal letto vedevo la cima del Monte Bianco inquadrata nella cornice della finestra. Con quella bella immagine mi addormentai svegliandomi solo alle otto di mattina del giorno dopo.
Peccato per la vetta mancata, però quei tre giorni così intensi sono rimasti impressi tra i miei ricordi di montagna più belli.
Testa del Rutor
Partendo da La Thuile sono stato sul Rutor 3486 m. Salendo al rifugio Deffeyes si incontrano tre belle cascate ognuna delle quali merita una breve digressione dal sentiero principale.
Purtroppo un po’ di inconvenienti. Dal rifugio in su aveva nevicato di fresco e i 20 centimetri di neve su terreno sconnesso (eravamo i primi e non c’era ancora la traccia) avevano molto disturbato il cammino verso la cima. In discesa mi sono preso un grande spavento. Lo zoccolo di neve sotto i ramponi mi aveva fatto scivolare per una trentina di metri ed ero riuscito a fermarmi solo nel punto di confine tra roccia e neve. Impegnato a tirare accidenti non avevo realizzato che in quel punto il calore della roccia aveva creato una sorta di crepaccio molto profondo. Poco dopo, ripensandoci, mi resi conto di che pericolo avevo corso.
Quasi Cervino
Qual è la montagna più bella? Ce ne sono parecchie che possono aspirare al titolo. Dipende anche dai gusti, c’è chi preferisce le guglie, chi le cime innevate, chi… Per me è il Campanil Basso ma, dato che è la montagna cui sono più affezionato, mi rendo conto di non essere obiettivo. Di certo il Cervino riscuote molte preferenze, senz’altro in Italia e in Svizzera. Quale alpinista non desidera salirlo? Da anni era nei programmi miei e dei miei amici. Volevamo fare una delle due normali, il difficile era far combaciare tutti gli elementi: preparazione fisica, acclimatamento ai 4000, tempo atmosferico, impegni di lavoro e soprattutto mogli consenzienti.
Finalmente fu possibile nel luglio del 1989, le mogli erano al mare, bel tempo previsto, ecc. Io nel fine settimana precedente ero salito in gran forma alla capanna Margherita, ero quindi super gasato. La spedizione era formata dal nucleo storico Massimo, Maurizio, Ugo che molti anni dopo si sarebbe anche aggiudicato la Fox-Stenico in Dolomiti di Brenta.
Avevamo deciso di salire dalla normale svizzera, partendo da Cervinia e andando a raggiungere l’Hörnlihütte. Si trattava di una camminata su neve che non presentava particolari difficoltà. Stavamo passando sotto la parete est quando alzando lo sguardo mi sono accorto che sopra di noi erano sospesi dei seracchi dalle dimensioni esagerate.
I frequentatori delle Occidentali abituati a crepacci, salite di canaloni con cadute di massi e seracchi a profusione sorrideranno ma io ne fui terrorizzato. I circa 100 metri sotto tiro sono stati tra i più ansiosi della mia attività alpinistica. Al ritorno di certo non sarei più passato di lì.
Arrivati, senza ulteriori miei patemi, al rifugio dell’Hörnli trovammo una sistemazione super confortevole: ampia camera, sarà stata di 20 metri quadri, con tre letti non a castello. I ricordi sono un po’ sbiaditi ma mi pare che anche la cena sia stata ottima. Il tutto favorì un sonno ristoratore, purtroppo breve perché, si sa, nelle Occidentali non si fa in tempo ad andare a letto che subito suona la sveglia. Pochi minuti per lavaggi e operazioni simili, colazione frugale e fuori a godere il gelo notturno.
La prima preoccupazione arrivò subito ma nulla aveva a che fare con l’alpinismo. A pochi minuti dal rifugio c’era una corda fissa di quelle di acciaio con i fili intrecciati. Capita spesso che si spezzi un trefolo e quando ci metti sopra la mano ti punge. Niente di male, noi rudi uomini dei monti siamo adusi a ben altro. Complice il buio, quel trefolo pungeva tutti e ognuno gli lasciava il proprio contributo di sangue. Però era il periodo che si faceva un gran parlare del nuovo flagello, l’AIDS, e della possibilità di ammalarsi per colpa di trasfusioni infette. Davanti a me c’era un gruppo di spagnoli ed erano loro che mi avevano donato il sangue tramite il malefico trefolo spezzato. Saranno stati sani? Il dubbio mi attanagliò per parecchio tempo fino a quando le prime difficoltà mi fecero pensare ad altro.
Credevo di essere in forma per via dell’allenamento della settimana precedente, invece sia il fisico sia la psiche non erano all’altezza della situazione. Forse erano stati fiaccati dalla paura dei seracchi incombenti, dalla preoccupazione dell’AIDS, dalla soggezione che comunque mi incuteva il Cervino. Sta di fatto che, mentre Massimo euforico saliva disinvoltamente senza problemi, io procedevo timoroso preso da mille pensieri funesti. In qualche punto addirittura chiesi a Maurizio di assicurarmi con la corda, anche perché, abituato alla roccia delle Dolomiti di Brenta, mi trovavo un po’ a disagio su quella roccia non sempre ideale.
Lo sguardo continuava ad essere attirato dal baratro crescente della parete est. Una macchia arancione qualche centinaio di metri sotto di me mi preoccupava, una giacca vento persa o un precipitato?
Malgrado tutto arrivai alla capanna Solvay in un tempo accettabile. Concentrati sulla scalata non ci eravamo accorti che il tempo atmosferico stava cambiando. Nella sosta alla capanna, guardandoci intorno ci accorgemmo che si addensavano fosche nubi. Dopo la fermata d’obbligo ricominciammo la salita ma a questo punto con un occhio alla roccia e uno al cielo. Le nubi erano sempre più minacciose per cui, arrivati all’inizio delle corde fisse finali, anche vedendo che molte guide facevano dietro front, decidemmo a malincuore di rinunciare. La pioggia arrivò e qualche raro fulmine attraversò il cielo, comunque lontano da noi. Nulla però di tremendo per cui la discesa si concluse senza problemi con il ritorno alla Hörnlihütte.
Il giorno seguente le nostre strade si divisero per poi ricongiungersi a Cervinia. Massimo e Maurizio ripercorsero a ritroso l’itinerario dell’andata, io, ancora terrorizzato dai seracchi sospesi, scesi a Zermatt per prendere la funivia che sale al Piccolo Cervino e da lì raggiunsi Cervinia.
Che bella Zermatt, c’ero arrivato molte volte con gli sci ma non l’avevo mai visitata. Sarà l’assenza di auto, la visione continua del Cervino dal suo lato più classico, quello sulle scatole dei cioccolatini svizzeri, l’abbigliamento stile alpino di turisti e residenti (magari oggigiorno è cambiato), ci si respira alpinismo vero, cosa che non ho riscontrato in altre località come Chamonix, Cervinia, Courmayeur… Mi piacque così tanto che ci tornai in treno (costosissimo) qualche anno dopo senza velleità alpinistiche ma solo per goderne l’atmosfera.
Massimo e Maurizio anni dopo tornarono al Cervino e ne raggiunsero la vetta. Io non ci sono più tornato e, purtroppo per colpa mia, quello del Cervino non è rimasto tra i miei ricordi più belli.
Laggiù sotto le Alpi Occidentali
Molte volte è il caso che ci aiuta nelle nostre scoperte, la leggenda di Newton e della mela lo ricorda.
Correndo in auto con l’obiettivo di arrivare il prima possibile a Cogne o Cervinia o Courmayeur, con gli occhi fissi sul traffico, non mi ero mai guardato intorno. Capitò un giorno che un provvidenziale intoppo mi costrinse a stare fermo dalle parti di Verrès. Dopo aver tirato un po’ di accidenti contro i lavori in corso mi misi tranquillo e mi resi conto di c’erano posti belli anche prima della meta. C’erano boschi, filari di viti e c’erano anche rocce alte, chissà magari arrampicabili. Su una di quelle colonne rossicce c’erano anche delle macchiette variopinte che si muovevano. Erano proprio arrampicatori, qualcuno si era accorto prima di me che li si poteva arrampicare.
Mi ripromisi di approfondire la questione dopo il ritorno a casa. Non era facile reperire notizie, internet era di là da venire, Google era solo un verso subacqueo in qualche fumetto come gulp, roar e altri.
Divagazione: i bigini di alpinismo?
La mia scoperta casuale di Machaby e dintorni mi fa riflettere sul fatto che la maggioranza di noi, appassionati di montagna, conosciamo alcune zone (Occidentali famose, Dolomiti, ecc.) e le zone vicine a noi, nel mio caso Grigne e Presolana. Tutte le altre le conosciamo poco e le frequentiamo ancora meno. Io per esempio sono stato solo una volta al Cridola, alla Baiarda in Liguria, alla Sfinge in val Masino, sulle Piccole Dolomiti, in val Gerola e qualche altra. Leggendo gli articoli di Ugo Manera trovo cime e valli che ignoro completamente, leggendo sulla Rivista del CAI relazioni di salite di Roberto Mazzillis stessa cosa e anche la Torre Formenton ripetuta da Alessandro Gogna 52 anni dopo la sua apertura non l’avevo mai sentita nominare; i Monti del sole, la Schiara, il Feruc li ho letti solo nei libri di Severino Casara per non parlare di tutto quello che c’è al di sotto del Po. Certo è colpa mia ma succede la stessa cosa a quasi tutti quelli che conosco. O ci si mette di impegno a cercare il nuovo o i confini restano limitati.
Certo ci sono tante pubblicazioni, le 100 salite del Paulke, Dimensione quarto grado, i Cento nuovi mattini di Gogna pensando al passato; le guide del Bernardi e simili, le eccezionali guide dei Monti d’Italia del CAI e poi tutto quello che si trova su internet pensando al presente. Però ci si disperde un po’, sarebbe bello che ci fosse qualcosa di simile ai bigini del Bignami, magari c’è già e io non lo conosco. Gli studenti di oggi non sanno cosa siano i bigini, i vari Google danno tante risposte ma non mi pare che ci sia l’equivalente dei preziosi Bignami che con le loro copertine marroni erano ben conosciuti e utilizzati da me e dai miei coetanei. Quanto tempo ci hanno regalato per una partita di calcio in più, per andare a spasso mano nella mano con una ragazza, per berci una grappa con gli amici parlando dei nostri “grandi” problemi: ragazze, ragazze, ragazze ma anche scuola e futuro… I bigini riassumevano in poche righe i punti salienti delle pagine che si dovevano studiare. La Divina Commedia l’ho studiata solo sui bigini, certo non è un esempio da imitare però nel frattempo ho letto libri che mi sono piaciuti tanto come Furore, Fiesta, l’Amleto e tutto Shakespeare, Bonatti, Maestri, Dove la parete strapiomba, il Ragno Bianco, ecc.
Un bigino d’alpinismo potrebbe coprire tutti i gruppi montuosi, noti e non, e in due pagine dare le notizie essenziali per ciascuno di essi: accesso, rifugi, un paio di normali, un paio di classiche e un paio di moderne. Chissà se qualcuno lo farà, ormai per me è un po’ tardi, anche sui monti che conosco riesco ad andarci sempre meno per colpa di quel disturbo che colpisce quelli della mia generazione, la vecchiaia. Però potrebbe essere utile a chi di energie ne ha ancora.
Frugando tra libri e riviste, trovai qualche notizia, forse su Plaisir sud, e scoprii nomi come Arnad e Machaby fino ad allora sconosciuti a me e ai miei amici. La volta successiva, tornando da una sciata a Cervinia, un sopralluogo fu d’obbligo. Camminando tra le vigne facendo attenzione a non rovinare il lavoro del contadino arrivai alla zona dove avevo visto le macchie variopinte e scoprii per la prima volta Topo pazzo.
Da allora ci sono tornato parecchie volte e sempre con grande soddisfazione. Le vie che conosco alle Corna di Machaby sono Buccia d’arancia, Diretta del Banano, lo Dzerby; offrono una roccia rossiccia, rugosa, arrampicabile gradevolmente; anche se parcamente chiodate offrono difficoltà accessibili anche a un alpinista medio. Il bello delle arrampicate in fondo valle è che spesso, finita la via, si arriva in luoghi riposanti. Qui si arriva in mezzo a dei boschi di castagni e, volendo, ci si può fermare a mangiare in un gradevole trattoria dal nome di difficile pronuncia Dzerby. Altrimenti anche la via di discesa è bella sempre tra i boschi, niente doppie, manovre di corda, dubbi di orientamento, veramente “plaisir”.
Poco distante, ad Arnad, c’è la mia via preferita: Dottor Jimmy. L’ha scoperta il mio amico Alessandro e l’ho percorsa tante volte, oltre che con lui, con Massimo, Maurizio e Claudio. Ogni volta è stato un piacere perché offre tutto quello che mi piace. All’attacco ci si va in discesa, cosa molto rara. L’unica analogia che conosco è sul Sass Pordoi dove si possono attaccare alcune vie scendendo nel canalone dopo essere arrivati in cima con la funivia. Io non ne ho mai usufruito perché sono sempre salito dal Passo Pordoi per attaccare in orari antelucani e la funivia non funzionava ancora. Sulla Dottor Jimmy la roccia è super salda, la via è molto varia, super chiodata e permette dei passaggi in A0 nei periodi di scarsa forma. La discesa è un facile sentiero. Accanto sale parallelamente I love you Julie un po’ più impegnativa ma quasi ancor più bella. L’ho salita solo una volta, con Maurizio, ma ne ho un ricordo speciale.
E poi lì vicino, dall’altro lato della valle, ci sono le Placche di Oriana, sempre scoperte da Alessandro, di sana roccia appigliata; e prima ancora, con una deviazione da Ivrea, si può andare ad arrampicare a Traverselle con bella roccia e difficoltà per tutti i gusti a partire dal terzo grado.
Insomma la val d’Aosta offre veramente una grande varietà di alternative per gli amanti della montagna. Oltre alle cime più alte e conosciute, coi loro ghiacci eterni (speriamo!), anche il fondo valle offre agli arrampicatori attrattive bellissime.