Piccola storia di Natale

(quando due solitudini si incontrano)
di Marcello Mason

Nel percorrere il consueto tratto di strada che lo separava dall’abitazione dov’era in affitto, Giuseppe sembrava sovrappensiero più del solito. Né poteva essere altrimenti, dato che il suo impiego di commesso in paese aveva visto termine proprio quel giorno prossimo al Natale. Il proprietario del negozio era apparso visibilmente dispiaciuto, ma cos’altro avrebbe potuto fare pover’uomo, con la clientela divenuta inconsistente, se non chiudere definitivamente i battenti? Ci aveva sperato sino all’ultimo, le aveva tentate tutte, ma alla fine, non diversamente da altri commercianti in precedenza, aveva dovuto prender atto della realtà.

Così quel 24 dicembre, solo, privo ormai di lavoro ed esaurite le poche formalità, non gli era rimasto che rientrare mestamente. L’aria era divenuta frattanto ancor più pungente finché, all’improvviso accendersi dei rari lampioni che costeggiavano la strada, iniziarono a volteggiare decisi i primi fiocchi di neve. In un altro momento avrebbe assistito a quello spettacolo della natura con ben diversa disposizione d’animo, negli anni cioè dell’infanzia in cui subito si univa ai coetanei nei giochi improvvisati. Ma si trattava di un’epoca ormai talmente lontana da domandarsi se per davvero gli fosse appartenuta.

Fu quando il percorso si avvicinò alla conclusione che nella luce incerta, ormai dominata dalle ombre, si avvide che una figura d’uomo che lo precedeva a poca distanza, nel suo improvviso scivolare, seguito da un incerto rialzarsi. Subito accorso, l’aveva aiutato, accorgendosi così che si trattava dell’anziano vicino di casa. Pur dolorante e malfermo, questi l’aveva rassicurato, spiegandogli che non era nulla più di una semplice contusione. Tuttavia a Giuseppe non sfuggì la presenza di una lacerazione sulla fronte, tanto da insistere per accompagnarlo, trovandosi l’abitazione lì a due passi. Sebbene così intabarrato, non era stato difficile riconoscere in lui la persona dal carattere scontroso con la quale invano, in più occasioni, aveva tentato di avviare una conversazione. Al punto che in seguito si era rassegnato all’evidenza, rinunciando alla conoscenza di una persona che si sarebbe potuta definire un perfetto sconosciuto. Aperto l’uscio, si presentò un salottino piuttosto disordinato: scorto il divano, lo convinse a stendersi. Successivamente lo aveva pregato di dirgli dove riponesse i medicinali, così in un armadietto trovò il necessario per una sommaria medicazione. Nella stanza regnava un gran freddo, perciò si dette da fare per accendere la stufa, alimentandola con dei pezzi di larice. L’uomo, frattanto, ne aveva osservato i movimenti in silenzio, e ciò sembrava quanto meno un’approvazione. Di lì a un po’ egli parve essersi ripreso, tanto da ringraziarlo per le cure che gli stava dedicando.

Dai convenevoli la conversazione si era poi sorprendentemente spostata sulla sua storia personale, spiegandogli che da tempo era rimasto vedovo, mentre l’unico figlio un giorno era partito per l’America, dando in seguito solo rare notizie di sé. Furono queste le ragioni, disse, che avevano finito per incupirlo e indurlo a considerare con indifferenza prima, e fastidio poi, il prossimo. Il dialogo proseguì per un po’: finché sembrò giunto il momento di congedarsi, seppur con l’intesa che il mattino successivo sarebbe tornato per informarsi del suo stato di salute. Al che, con sua grande sorpresa, gli fu proposto di pranzare assieme, se si fosse accontentato di quanto c’era in casa. Sembrava un’idea bizzarra, ma Giuseppe non poté fare a meno di considerare che diversamente l’altro avrebbe trascorso il Natale nell’assoluta solitudine, se non nei tristi ricordi che la ricorrenza avrebbe inevitabilmente accentuato. In realtà, anche nel suo caso quell’ultimo giorno, prima di lasciare definitivamente il Cadore, era destinato ad esser vissuto così, ed allora appariva meno triste la prospettiva di metterle assieme le due solitudini: la sua, di chi a quarant’anni si ritrova solo e senza lavoro, e quella di un anziano il cui mondo era ormai abitato unicamente dai silenzi e dalla malinconia. La mattina di Natale scoprì che la neve si era fatta strada in ogni dove, eppure per la prima volta, dopo chissà quanto tempo, Giuseppe avvertiva un clima capace di ricondurlo ad altri simili giorni del passato, di quand’era bimbo, nel clima protettivo della famiglia, con i suoi gesti consolatori e le liete usanze mai scordate che accompagnavano quel giorno speciale dell’anno. Perciò fu con animo un po’ più leggero che si avviò verso la casa dell’uomo che aveva scoperto chiamarsi Giulio. Si presentò a mezzogiorno con il panettone e una bottiglia di spumante, gli stessi che il suo datore di lavoro gli aveva donato il giorno prima, accorgendosi con sollievo che l’uomo, migliorato nell’aspetto, appariva lieto della visita. Pure la stanza stessa dava l’impressione di maggior ordine, rispetto a come la ricordava, mentre un gradevole profumo giungeva dalla cucina.

Fu un semplice pranzo, svoltosi in un clima di serenità, assecondato da un reciproco ed inaspettato scambio di confidenze e ricordi. Alla fine, dopo aver sorbito il caffè, il padrone di casa volle mostrargli delle fotografie custodite in una scatola di cartone: erano poche, ma rappresentavano i momenti salienti della sua lunga vita. Come quella che lo ritraeva in compagnia della moglie, una bella signora dalle trecce bionde e dal dolce sorriso, e così il ritratto del figlio sullo sfondo della statua della Libertà, il giorno dell’arrivo in America, il paese dal quale non aveva più fatto ritorno. A quel punto l’espressione si era fatta dolente, inducendo Giuseppe a cercare di rincuorarlo, sebbene ciò non fosse davvero facile. Più tardi, giunte le cinque del pomeriggio, si accorse della conversazione fattasi incerta e di come l’altro accennasse ad assopirsi, sinché si addormentò per davvero. Allora comprese esser arrivata l’ora di andarsene, non prima però di lasciare sul tavolo un foglio con alcune parole di congedo scritte lì per lì. Ravvivò il fuoco nella stufa, aggiungendo legna, dando poi un ultimo sguardo al compagno di quell’insolito Natale ed infine, spenta la luce, richiuse piano l’uscio.

Il giorno seguente l’uomo lesse le poche righe lasciate scritte da Giuseppe: “Caro Giulio, lei riposava così tranquillamente che non ho voluto disturbare il suo sonno. La ringrazio ancora per avermi accolto in casa sua e condiviso i ricordi che hanno segnato le nostre vite. È stato un buon Natale, quello che ci ha visti insieme e io non potrò che serbarne un buon ricordo. La saluto, nella speranza che un giorno ci si possa nuovamente incontrare”.

Difficile immaginare se in realtà ciò si sarebbe potuto realizzare: forse sì, perché la simpatia reciproca generatasi in tali ore era stata autentica. Ma, d’altro canto, era inevitabile che varie ragioni finissero poi per confinare ogni cosa in quell’unico episodio. Fatalmente infatti, al comparire del nuovo giorno, e quindi con la partenza di Giuseppe, di tale avvenimento sarebbe rimasto unicamente il ricordo. Seppur speciale, avendo fatto comprendere ad entrambi gli uomini l’importanza di non smetter mai di confidare nel prossimo, condividendone gioie e preoccupazioni. Che era esattamente ciò che avvenne quel Natale in cui fu chiaro quanto l’amicizia potesse portar sollievo. In fondo erano stati sufficienti un semplice gesto di solidarietà e parole partite dal cuore, ossia quei moti dell’anima da sempre capaci di consolare l’umanità. Donandole la gioia di non sentirsi abbandonata.

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