La montagna romantica
di Paola Giacomoni
Lo scrittore romantico si lascia ispirare dal paesaggio “moderno” della montagna ed è spinto a osare un linguaggio audace e innovatore. Non c’è grandezza dell’umano che non conosca al tempo stesso il proprio lato oscuro e inquietante. Il paesaggio montano ne diviene adeguata rappresentazione.
Sono i romantici a fare della montagna un topos letterario. Nonostante antecedenti e precursori, solo a fine Settecento questo paesaggio domina alcune delle più grandi opere di poesia e letteratura, fornendo ad esse uno sfondo adeguato. In epoche precedenti era facile far posto nelle opere letterarie a una sorta di empatia per una natura concepita sotto il segno del luogo ameno, del paesaggio campestre regolare e regolato, che dà adito a sensazioni gradevoli e rassicuranti (locus amoenus). Molto meno semplice riconoscere valore positivo ai fenomeni della natura selvaggia e irregolare, descritti come luoghi della bellezza terribile, o del sublime, di tutto ciò che si presenta come esteticamente esaltante passando per la paura o per l’orrore (locus horridus).
Solo gradualmente la cultura occidentale prende atto infatti della complessità e della non uniformità dell’universo, il cui ordine comprende anche fenomeni poco classificabili e dimensioni poco addomesticabili della natura. Quando questo atteggiamento scientifico e filosofico si afferma, esso porta con sé, a partire soprattutto dal XVIII secolo, una sensibilità nuova che contempla la bellezza del selvaggio e dell’irregolare come luogo esteticamente fornito di valore. Ciò che si presenta come trasgressivo rispetto a una legge o regola universale, come irregolare o anche come deforme apre ora a una nuova dimensione della bellezza, che va oltre la convenzione, inaugurando una nuova stagione conoscitiva ed estetica.
Lo scrittore romantico si lascia ispirare dal paesaggio “moderno” della montagna ed è spinto a osare un linguaggio audace e innovatore, che riconosce e accetta la trasgressione e la discontinuità e la rovescia nel valore positivo di una poetica del frammento o in una prosa che spesso ricorre al genere epistolare per dare il maggior spazio possibile a una soggettività lacerata e conflittuale. La sensazione dello smarrimento o anche della catastrofe che il paesaggio montano suscita pare aprire nuovi paradigmi, il sublime che esso ispira si pone come elemento che segna un passaggio, come luogo di trasformazione, come elemento dinamico, innovatore.
Il tema era già presente nella letteratura “gotica” inglese, ma ora esso travalica ogni confine di genere e si pone al centro di molte delle opere più significative dell’epoca romantica, dal Prelude di Wordsworth, alle poesie di Shelley, di Byron, di Hölderlin, ai romanzi di Goethe, di Tieck, di Foscolo, di Mary Shelley. Qui darò tre esempi, tra i molti, dei diversi significati del paesaggio montano per la generazione romantica.
La complessità e i molti significati del mondo delle pietre e dell’ambiente montano emergono chiarissimi in alcuni racconti, tra i più famosi, di Ludwig Tieck, come Der blonde Eckbert del 1796 o Der Runenberg del 1802 [1]. In ambedue i casi la montagna è anzitutto rifugio per chi fugge da un presente infelice: rifugio tra i monti come ricerca di un’identità negata, che trova ambiente favorevole in uno spazio misterioso, inizialmente percepito come desolato e solitario, poi protettivo e incantato, arcano ma disposto ad accogliere positivamente un animo solitario. Il paesaggio montano appare come possibile Eden che un’anima sensibile percepisce come luogo di elezione, in cui può rinsaldare se stessa e trovare un punto d’appoggio, anche se non definitivo, per la sua identità e un punto di partenza per la sua libertà. Al tempo stesso tutto il potenziale distruttivo di cui i simboli del paesaggio montano sono espressione può essere attivato dalla trasgressione di un comando di un essere demonico. I minerali preziosi che esso fornisce rappresentano la ricchezza, ma da essi si libera un fascino distruttivo e inquietante che rende vana quella ricostruzione di un’identità perduta cui il paesaggio sembrava aver contribuito.
Anche il Runenberg, inserito, come Der blonde Eckbert nella raccolta Phantasus, presenta il motivo della scelta dell’ambiente montano come rifugio accogliente e gradito per l’uomo solitario che si sente in gabbia nella vita usuale e trova invece una patria nel “nuovo mondo” scoperto tra gole e precipizi [2], attratto dalla vita del cercatore di cristalli, dal fascino algido e astratto delle pietre. Più in generale tutto l’ambiente minerale assume qui il fascino del primordiale; vi si avverte la seduzione di un mondo eterno e incorruttibile, fornito di luce e perfezione assoluta. Il sortilegio delle pietre e della bellezza assurge a simbolo di perfezione, rispetto alla quale il vivente appare come una ferita, come una sorta di violazione di un corpo lucente e incorrotto.
Acquisitando fino in fondo la tipicamente romantica consonanza con un ambiente inquietante, irregolare e misterioso, esso diviene in Tieck addirittura simbolo di originaria perfezione, rispetto al quale ogni divenire, anziché arricchimento, appare come caduta o come lacerazione. La selvaggia infecondità dei monti non appare più svalorizzata rispetto all’amena pianura ricca di messi: al contrario il suo disordine si rovescia ora nell’ordine più perfetto e duraturo della geometria del minerale. La vera bellezza è quella delle pietre secondo Tieck, non scalfibile, non distruttibile dalle blande copie della bellezza semplicemente umana.
Ugo Foscolo sceglie invece la forma epistolare per trattare le vicende sentimentali e politiche delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, scritte tra il 1798 e il 1802 [3], e ambienta la storia intorno ai confini italiani tanto disputati di allora, tra il Veneto e la Liguria, contraddistinti dal paesaggio delle Prealpi e delle Alpi. L’importanza del paesaggio è una novità per la letteratura italiana dell’epoca, un’innovazione che fornisce uno sfondo capace di illuminare la storia di luci e di ombre, di fornire densità di immagini a una vicenda narrata tutta “in soggettiva”, in cui le emozioni del protagonista trovano risonanza in squarci paesistici di pregnante intensità.
Locus amoenus e locus horridus si alternano nell’opera e si mescolano a fornire significati cosmici alle vicende emblematiche dell’intellettuale tormentato di fine secolo. Se ad Arquà il paesaggio collinare appare sotto il segno ameno dell’armonia e della fecondità, perfetta icona dell’entusiasmo amoroso del protagonista, l’universo “geme” assieme a Jacopo quando egli avverte la propria impotenza a mutare la propria situazione e quella politica dell’Italia: e a quel punto le rupi e i precipizi prevalgono celando sempre più le dolci colline coltivate da lui tanto amate, e il tono si fa fosco. La ricerca della solitudine sulle cime dei monti non è tanto desiderio di meditazione sulla complessa vicenda del mondo, ma disperato lamento nei confronti di una natura che è specchio dell’animo e che il sole non riesce più a rendere viva e pulsante, ma solo aspra e rude.
Le Alpi, percepite in tutta la loro dissonante bellezza, rappresentano con grande fedeltà sia il tormento amoroso, sia le difficoltà storiche della costruzione in Italia di un’identità spirituale, culturale e politica. Il paesaggio delle Alpi Marittime appare sotto il segno di una solitudine che non è più pace benefica, ma assenza di vita:
“La Natura siede qui solitaria e minacciosa, e caccia da questo regno tutti i viventi”. [4]
Non barriera protettiva, non utile sorgente di vita, le Alpi appaiono a questo punto come luogo di lacerazione, di scontro e di terrore. La loro spazialità è tuttavia significativa e il ruolo simbolico ambivalente da esse svolto è divenuto, da sfondo secondario, scenario principale dell’azione e dell’emozione del protagonista. Il quale, poco prima del suicidio, torna a visitare le “sue” montagne, le “sue” solitudini, quello spazio abitato dall’anima romantica e da essa reso significativo. E sarà sul monte dei pini che Jacopo sarà significativamente sepolto alla fine del romanzo. [5]
Lo scenario montano è dunque in diversi modi divenuto in quest’epoca ambiente adatto a esprimere i conflitti interiori: esso svolge una funzione simbolica non immaginabile nell’estetica classica. È la natura in pezzi a rappresentare adeguatamente un cuore in pezzi, è l’irregolarità a consentire di esprimere il conflitto e la lacerazione. Il paesaggio montano appare adatto quindi a rappresentare nella trasfigurazione letteraria il più complicato animo romantico.
Qualcosa di simile avviene con il Frankenstein di Mary Shelley. È noto che esso fu concepito durante il soggiorno svizzero del 1816 con Percy B. Shelley e George Byron e che il paesaggio svizzero (e francese) svolge una funzione centrale e costituisce lo sfondo delle scene-chiave. Nella storia di Victor Frankenstein, giovane appassionato di scienza, lo scenario naturale ha infatti un ruolo essenziale. La nascita ginevrina del protagonista fa sì che il paesaggio montano costituisca il punto di partenza, la matrice, l’origine, il criterio distintivo del personaggio. Il paesaggio alpino appare come paesaggio originario, e come tale esso ispira al protagonista sentimenti basati sul riconoscimento e sul senso di appartenenza. Si tratta del paesaggio dell’anima, quello in cui l’io si è formato, un paesaggio sereno e riposante, in cui letteralmente si ritorna a casa e si ristabilisce l’armonia perduta:
“Il peso che gravava sulla mia anima si alleggeriva man mano che mi addentravo nella gola dell’Arve. Le montagne e i vertiginosi strabiombi che mi circondavano da ogni parte, il rumore del torrente che infuriava tra le rocce e lo scrocio delle cascate intorno mi parlavano di una forza immensa come l’Onnipotente, e io cessai di aver paura e di chinarmi al cospetto di ogni essere meno potente di colui che aveva creato e dominatva quegli elementi, qui dispiegati in tutta la loro terrificante maestà.(…) Persino i venti sussurravano con accenti sommessi e la natura materna mi invitava a non piangere più [6]”.
In altri passi tuttavia le Alpi sembrano rappresentare “un’altra terra”, appaiono come “le abitazioni di un’altra razza di esseri” [7], quasi un mondo a parte, diverso e meraviglioso anche nel senso dello stupefacente e del sorprendente. L’alta montagna appare come qualcosa di speciale e di elevato, di materno ma pur sempre prodigioso, un sortilegio della natura benigna ma anche smisurata. Dentro la stessa amenità della scena si cela l’elemento inquietante e straniante, nel cuore della serenità appare il lato oscuro e distruttivo della natura.
La “creatura” di Victor Frankenstein infatti è a suo agio tra i crepacci, vive senza paura tra caverne e ghiacciai. L’individuo bandito dalla società degli uomini trova riparo nei luoghi desolati, tra i ghiacci alpini o tra quelli polari, che sono posti sullo stesso piano. Questi luoghi non appaiono più come adatti all’uomo e si presentano come ambienti d’elezione per ciò che è deviante, disumano, mostruoso: non luogo di presenze superiori, ma sfondo adeguato per il lato demonico dell’uomo, per il doppio deforme del dottor Frankenstein.
L’ambientazione montana ben si presta a fornire l’atmosfera adeguata a un gioco delle parti dei due aspetti dell’umano, quello prometeico e creatore e quello essenzialmente trasgressivo e disumano. Il paesaggio simboleggia con chiarezza l’ambivalenza di Frankenstein, la sua sete di conoscenza e la sua hybris, che disperde lo slancio nel deforme e nel mostruoso. Per l’animo romantico proprio ciò che appare familiare e riposante, essenzialmente umano, si presenta al tempo stesso come distruttivo e come mostruoso. Non c’è grandezza dell’umano che non conosca al tempo stesso il proprio lato oscuro e inquietante. Il paesaggio montano ne diviene adeguata rappresentazione.
Note
[1] Ludwig Tieck, Schriften. hrsg. Manfred Frank. Deutscher Klassiker Verlag, Frankfurt a. M., vol. 4.
[2] Ludwig Tieck, op. cit. p. 185
[3] Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis. a cura di Carlo Muscetta,.Torino 1983
[4] Ugo Foscolo, op. cit., p.156.
[5] Ugo Foscolo, op. cit., p.199.
[6] Mary Shelley, Frankenstein. ed. J. M.Smith, Boston and New York 2000, p.89, tr; it di M.P.Saci e F.Troncarelli, Milano 1991,pp.95-96
[7] Mary Shelley, op. cit. ibidem
Bibliografia
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L’autrice
Paola Giacomoni insegna Storia della Filosofia presso l’Università degli Studi di Trento. Si occupa di storia delle idee, dei rapporti tra filosofia, scienze e letteratura.