Avventura sul Monte Bianco

di Mario Ogliengo

Li avevo quasi dimenticati. In queste giornate convulse e purtroppo virulente cerco di mettere un po’ in ordine là dove ordine non c’è mai stato. Quel paio di assi neri come la pece con scritte enormi geometriche rosse un po’ rassicuranti e un po’ minacciose ‘EXCALIBUR CARBONIUM MAGNUM’. Chi era quel genio che battezzava un paio di sci con un nome Anglo-Latino bah! Buttati lì con altre svariate paia di sci che hanno reso servigi e rotto crociati a un po’ tutta la famiglia. Ognuno di questi attrezzi racconta una storia di gioie e dolori ma questi, i più vecchi e secchi ne raccontano tante e fortunate. Di nevi fredde e soffici e di altre marce e pericolose. Di budelli che scendevamo tanti anni fa quando erano schifati un po’ da tutti. Di traversate verso l’ignoto che solo l’incoscienza dei nostri vent’anni rendeva possibili. Il primo sci che mi ha messo le ali ai piedi. Per la prima volta le discese diventavano un piacere anche se avevo le gambe dure e il fiato corto. C‘è sempre un prima e un dopo nelle evoluzioni del genere umano e Angelo Piana in questo Microcosmo di fottuti sognatori dell’inverno ha scritto l’evoluzione della specie. E’ stato l’Einstein delle traiettorie e il Darwin delle nevi. Un caro amico me li aveva regalati usati, io non avrei mai potuto permettermeli, giusto come ero in quegli anni con i soldi, ma Lui era un Grande e questo non si discuteva.

In quei primi anni ‘80 pochi uscivano dalle tracce classiche e quei pochi che osavano erano nomi diventati in seguito la Storia. Noi no, non eravamo abbastanza bravi come gli Estremi, noi eravamo gente di metà classifica con tanta voglia, pochi mezzi ma molto curiosi. L’inverno dell’81 fu grasso di neve e così potemmo immaginare un bel progetto in primavera. Avevo letto da qualche parte che una guida francese uno o due anni prima aveva effettuato la prima traversata integrale del massiccio del Monte Bianco seguendo il più possibile la linea di frontiera. Pochi avevano preso in considerazione questo viaggione. Dal mio punto di vista era eccezionale e meritava ripercorrerlo.

Si trattava di trovare un paio di matti che mi accompagnassero. Un gruppo di 3 persone sarebbe stato ideale per suddividere il peso di una vacanza in totale autonomia di almeno una settimana. Marco Degani fu d’accordo fin dall’inizio anche se non capiva proprio bene dove ci saremmo cacciati e a ben vedere non glie ne fregava un bel niente, qualsiasi cosa era preferibile al lavoro di rappresentante. Dante Vota, lui bastava convocarlo, non offriva molte garanzie ma ti faceva scompisciare e non facevi caso agli attimi di panico che lo assalivano nei momenti più impensabili; era robusto come un toro. Al resto ci avrebbe pensato il sottoscritto: una leadership molto discutibile.

Gli Excalibur 185

Preparammo il materiale: era pesante e ingombrante, si salvavano soltanto le buste di liofilizzati, ma non è che li potevi calzare al posto dei ramponi. Fine marzo, la primavera ci offre belle montagne bianche. Condizioni perfette. Venerdì prossimo partiamo. La meteo? Giovedì ci informeremo per il fine settimana e poi si vedrà. Avevo rifatto il sacco almeno venti volte ma non riuscivo mai a farci entrare tutto il materiale e cosi mi ritrovavo a caricarmi un affare dalle forme sbananate con appendici dondolanti. Trovato! Luisa ci accompagnerà il primo giorno cosi potrò rifilarle una parte delle mercanzie. Ed eccoci a risalire tutta la Val Veny, neanche fossimo schiavi babilonesi. In qualche modo raggiungiamo il rifugio Elisabetta e ci apprestiamo a passare la notte sotto la veranda… chissà dove era finito il locale invernale!! Mattino del sabato. Luisa ci saluta e rientra; noi partiamo verso il Col des Glaciers. Veloci non lo eravamo prima ma con quel po’ di carico sulla schiena assomigliamo ad una colonna in ritirata sul Don. Comunque al primo colle ci arriviamo. Il versante nord del colle era a quei tempi un bel pendio di circa 400 metri di dislivello sui 45 gradi senza rocce o trappole. L’unico rischio era quello di scenderlo velocemente sul culo considerata la neve dura. Con questi sacchi in spalla alla prima curva saremmo partiti diretti all’ospedale. Ed è qui che il raffinato stratega sfodera la sua arma letale: due robusti sacchi di juta. Ci alleggeriamo di una buona parte del materiale proteggendolo sui lati con i nostri Materassini. E poi via, li scaraventiamo giù dal pendio. Non avevamo mai testato il sistema ma non c’era motivo che non funzionasse. Prime curve alla ‘manico di scopa’ e poi pian piano si trova il ritmo e ce la godiamo.

Ghiacciaio di Trélatête

Ci vorrà un po’ di tempo per recuperare i sacconi, che per fortuna hanno retto, e ricostituire i carichi. Ma siamo positivi. Il primo ostacolo è superato. Va detto che era il più semplice. Andiamo. Sole caldo di primavera sul Ghiacciaio di Trélatête, nessuno in giro, una corona di montagne che ti dicono “vieni e lascia una bella traccia”. Arriviamo all’altezza del rifugio dei Conscrits nel primo pomeriggio ma del rifugio nessuna traccia, probabilmente è scomparso sotto la neve oppure… Non abbiamo portato tende. Troppo pesanti e ingombranti; avevamo scelto di dormire in trune o nei crepacci. Via di pala e la prima truna prende forma. A turno due di noi spalano e uno fonde neve e cucina sotto un sole africano. Improvvisamente il sole sparisce dietro gli Aravis e il freddo crudo s’installa. Nella nostra caverna passiamo una splendida notte. Prepararsi per la partenza richiede un bel po’ di tempo, la carcassa è un po’ rigida e il cervello appannato. Prossimo obiettivo il Col de la Bérangère e la traversata dei Dômes de Miage. Saliamo spediti su per un magnifico ghiacciaio, al colle ci carichiamo gli sci sui sacchi che diventano mostruosi e risaliamo lentamente la cresta. Le condizioni sono magnifiche e anche se procediamo lentamente ci ritroviamo in cima alla punta centrale molto in anticipo sulla nostra tabella così decidiamo di offrirci una sciata. La neve è cotta a puntino. Scendiamo fino alla terminale e li depositiamo il carico, poi leggeri ci spariamo giù per il Miage fino al piano. Non era nel programma ma chissenefrega a noi piace così. Una bevuta di improbabile tè e risaliamo alla terminale per il terzo bivacco. Ci troviamo proprio bene quassù. Domani ce la prenderemo comoda, ci resta un solo Dôme da attraversare e poi un lussuoso pomeriggio al bivacco Durier al Col de Miage. E così fu. Tappa breve ma abbastanza tecnica.

Un nido d’aquile il rifugio Durier. Ci sentivamo proprio bene ma le sorprese ci attendevano e tra non molto ne avremmo viste delle belle. Il tempo è sempre magnifico e di mattino presto ci prepariamo per la discesa del versante est del Col de Miage. Per la prima volta iniziamo subito con una discesa, per di più su un itinerario ben ripido, non diretto e poco evidente. Scaraventiamo giù i nostri sacconi che spariscono in fretta dietro un costone. Speriamo. Partiamo un po’ tesi. Le poche informazioni raccolte raccontavano di una discesa quasi estrema. Si rivelerà tecnica ma senza passaggi troppo difficili. Ci fiondiamo giù nella conca del Miage, raccogliamo i due sacconi un po’ malconci e ingurgitiamo un po’ di liquidi. Dante ci dice: “amici io scendo, bellissimo ma ne ho le palle piene, non scappo anzi se vi farà piacere vi chiamerò quando sarete al rifugio Torino e vi porterò un po’ di cibarie dalle parti del Leschaux”.

Tutto andava per il meglio e adesso? Incazzati e preoccupati, ci vogliono parecchi minuti per digerire la notizia e fare delle scelte. Alla fine decidiamo di continuare in due. Lo guardiamo partire verso il basso, noi verso l’alto. Oggi dobbiamo raggiungere il rifugio Gonella. Forza. Adesso il gioco si fa duro e noi proprio duri non siamo. I sacchi sono diventati una maledizione e quando saremo sulle corde fisse del Gonella e dovremo aggiungere al carico gli sci… Lentamente, molto lentamente, avanziamo ma tutta la ferraglia che in estate ti aiuta a superare lo zoccolo di rocce è scomparsa sotto la neve. Ci carichiamo i legni e proseguiamo su per ripidi canali di neve marcia. Caldo, sudore, fiato corto e occhiali appannati, chi ha detto che ci si diverte in montagna? Comunque piano piano prendiamo quota. Dovevamo aspettarcelo che tutto questo calore ci avrebbe messo nei guai. Una bella colata di neve marcia scende lenta e decide di fermare la mia salita. Pianto la piccozza e aspetto che passi la sfuriata ma tutto questo marciume si accumula sui miei sci legati al sacco. Ancora qualche istante e partirò verso il basso… e no, non voglio pensare che cosa succederà. Sento che a poco a poco la pressione si sposta su di un lato e diventa impossibile resistere tra un attimo decollo. Succede in un istante, invece di scivolare in basso faccio una piroetta e tutto il peso sparisce. Per fortuna avevo affondato per bene la piccozza. Sono stato molto fortunato. Trovo la forza di spostarmi di qualche metro, respiro e ancora respiro. E’ andata bene ma ho perso sicurezza e sono provato. Non manca molto al rifugio tuttavia decidiamo di ripararci su di un terrazzino ad aspettare che il sole scompaia e la neve si ricompatti. Al rifugio arriveremo tardi nel pomeriggio, in condizioni pietose ma siamo al coperto e questa sera ci offriremo una cena superba alla faccia di Dante. Domani sempre che il tempo tenga si sale al Bianco per poi scendere per il Maudit e il Tacul e se tutto filerà come da programma un comodo letto ci attenderà al Rifugio Torino. Ci alziamo che è ancora buio ma le stelle sono sparite e l’aria è umida. Mi sa che l’avventura volge al termine e decidiamo di dormire ancora un po’. Verso le cinque l’atmosfera è migliorata anche se i segnali non sono proprio incoraggianti. Usciamo, poi si vedrà. Male che vada ritorniamo al rifugio. Per entrambi è la prima volta che saliamo al Monte Bianco per questo itinerario e anche se ci siamo informati sul percorso la salita risulterà abbastanza complicata. Superiamo il Dôme du Goûter e raggiungiamo la capanna Vallot dove ci prepariamo un tè caldo al riparo dal vento. Cieli grigi avanzano da ovest ma stranamente ci sentiamo solidi per continuare a salire. Ci vorranno tre ore per i 4810 m della vetta e lassù realizzo che oggi questa non è un punto di arrivo ma un transito, il momento di un viaggio che ho sognato a lungo. Marco, che ufficialmente è il fotografo della spedizione stampa un paio di immagini e poi infiliamo gli sci e scendiamo verso il Colle della Brenva su di una neve che ricorda l’ardesia. Poi i ramponi prendono il posto degli sci e con fatica raggiungiamo la spalla del Tacul dove i primi fiocchi di neve ci attendono. Da qui al Torino sarà un continuo susseguirsi di neve, vento e stanchezza ma per fortuna la nebbia non si presenterà. E’ quasi notte quando apriamo la porta del rifugio e per la prima volta ci specchiamo. Chi sono quei due: siamo piuttosto malmessi.

Il ‘Grand Hotel Vecchio Torino’ tanto sognato si rivela una gran bidonata. Freddo e umido con un figuro che lo custodisce scazzatissimo dal doversi occupare di qualcuno. Per non parlare del cibo, una delusione. Nei nostri piani esisteva la possibilità di prendere un giorno di sosta quassù ma considerato l’ambiente deprimente possiamo solo sperare che il tempo migliori.

Anche se siamo cucinati vogliamo scappare. Peccato perché domani siamo attesi da una delle giornate più complicate su per le creste di Rochefort e poi giù dal Colle delle Grandes Jorasses e per finire, sempre che le energie ci siano, con una risalita al refuge du Couvercle. Bel programma e buona notte.

Ci alziamo pesti e umidi, le nostre trune erano regge in confronto a questo dormitorio fetido. Fuori il tempo è bellissimo, una spanna di neve fresca facile da tracciare e una leggera brezza. Partiamo in direzione del Dente, qui il terreno e facile e ci si scalda. Più su siamo sul misto e faticheremo il giusto per guadagnarci la Gengiva del Dente. Non è una cima ma il ‘Mood’ è quello giusto. Un godere, siamo abbastanza scassati ma felici. La cresta di Rochefort è in buone condizioni, la neve fresca è sparita e non c’è traccia di ghiaccio e i sacchi sono un po’ più leggeri. Dal rifugio abbiamo potuto contattare Dante che domani risalirà verso Leschaux con delle cibarie. Durante l’estate avevo percorso questo itinerario e oggi non perdo tempo nel reperire gli ancoraggi delle doppie che ci depositano al colle. Siamo stati bravi fin qui e abbastanza veloci. Ci spostiamo sul versante francese e quando il pendio si fa super ripido tiriamo fuori dal sacco due tavole di legno che abbiamo ‘preso in prestito’ al Rifugio. Un ottimo ancoraggio per le due doppie che ci depositano sul Glacier de Leschaux. Nessuno in giro, non una traccia non un segno di civiltà o inciviltà, sarà così il Paradiso? Una discesa libidinosa lunga ma sempre troppo corta. Sul grande pianoro di Leschaux proprio sotto la verticale del rifugio intercettiamo Dante con delle baguettes che spuntano dal sacco. Ne segue un pic-nic principesco ai piedi delle Grandes Jorasses. Che si fa adesso? Venti minuti su per la scarpata e siamo al refuge de Leschaux, poi due ore sotto il sole per raggiungere il Couvercle. Se ci fermiamo qui domani sarà lunghissima ma io sono stanco e preferirei fermarmi. E qui Dante ci sorprende: “voi salite leggeri, per oggi del carico me ne occupo io, andiamo”.

Il box rivestito di lamiera protetto da una grande losa di granito, da cui prende il nome Couvercle ci attende e Dante ci riserva una seconda sorpresa: domani ci sono anche io nella partita. Buonanotte. Ancora bel tempo ma freddo; puntiamo al Col des Cristaux per poi scendere sul Glacier d’Argentière.

Con un Dante in più i sacchi sono ritornati accettabili e la fatica di ieri si è nascosta. Dopo tutti questi giorni la nostra forma sembra quasi migliorare e dopo qualche sosta ci ritroviamo al colle. Qui il solito rito. Alleggeriamo i sacchi e spediamo in basso il carico. Ho l’impressione che qualche cosa non vada per il verso giusto. Laggiù sul ghiacciaio mi sembra di vedere una bella frittata. La discesa che ci aspetta è la più impegnativa della traversata quindi nervi saldi. Le condizioni del pendio sono ottime. L’inizio è teso, qualche curva strappata con i denti; poi Marco e io ce lo sciamo alla grande. Dietro di noi Dante non ingrana, derapata e scaletta, scaletta e derapata. Metà del pendio se lo farà così e solo nella parte bassa, meno impegnativa, accenna qualche curva ma non è il solito Dante. A tutti può capitare una giornata negativa. Nel frattempo noi ramazziamo il ghiacciaio: uno dei due sacconi è letteralmente esploso e il risultato è disastroso. Siamo fortunati nel ritrovare le nostre masserizie, l’amico arriva e proseguiamo verso il refuge d’Argentiere. Anche qui ritroviamo il freddo e l’umido ma il calore ce lo fornisce il Custode. Siamo gli unici ospiti e ci fa sentire bene. Ceniamo con lui e scoliamo qualche birra. E’ venuto il momento di affrontare Dante e i gli incubi della sua discesa. Non intendiamo ferirlo ma provare a capire i motivi di queste improvvise interruzioni di corrente che alla lunga possono essere pericolose. L’alcool scioglie le lingue e la discussione di quella sera resterà tra i migliori ricordi di quei giorni. “Allora Dante cosa ti è successo oggi’? Sono mesi che ce la meni con gli Stages Vallençant che hai frequentato questo inverno. Pensavamo di ritrovarti in una super forma ma ci sembra che l’aver sciato con Patrick Vallençant non ti abbia giovato più di tanto”. “Ma dai, volete sapere del mio Stage, d’accordo. Io Patrick lo vedevo in cima alla funivia dei Grands Montets, accendeva una Gitane e ci diceva di seguirlo. Lo ritrovavamo giù al Marmottons mentre si beveva la seconda birra e così per tutti i giorni dello stage”. Quella sera si concluse con l’ennesima birra e un forte abbraccio al nostro buon Dante.

Giorno 9. Esploriamo terreni sconosciuti. Fino ad oggi, con l’eccezione dei primi due giorni, abbiamo seguito l’itinerario percorso dal ‘Solitario francese’ che ha terminato il suo viaggio lungo la classica Haute Route. La nostra ambizione, fin dalla partenza è quella di chiudere questa avventura in Italia compiendo una sorta di anello: Dalla Val Veny alla Val Ferret. Secondo i nostri calcoli ci attendono ancora due giorni, sempre che il bel tempo ci accompagni e non ci incasiniamo troppo. I nostri piedi iniziano a soffrire, ma con qualche pasticca e qualche cerotto tamponiamo il peggio. Ci carichiamo di qualche picchetto di legno e con Dante che si offre di farci da portatore fin alla base del canale prima di rientrare a produrre ci avviamo verso la Brèche de l’Amône. Oggi questo canale è divenuto classico ma per noi era un enigma. Risaliamo la parte alta del Glacier d’Argentiere, dolce e senza fine. Quando ci ritroviamo contro le bastionate del versante est del Dolent si apre il bellissimo budello che conduce alla Brèche de l’Amône. Salutiamo l’amico, a cui abbiamo sottratto la piccozza e partiamo verso l’alto. Un paio d’ore di salita ed eccoci sulla brèche: siamo in Svizzera. La discesa che ci attende non è per niente invitante… Super ripido, troppo per le nostre capacità e per i pesi che trasportiamo. Il pendio è esposto a est, ben marcio in questa tarda mattinata, e dopo? Da qui riusciamo a valutare all’incirca trecento metri ma noi ne dovremo scendere circa settecento e se non si passa? Un bel casino. L’unica certezza, riguardando la carta è che non ci sono barriere rocciose e sul ghiaccio in un modo o nell’altro si passa. Abbiamo due corde sottili da quaranta metri. Si va. Una prima doppia su roccia, una seconda su picchetto e ancora giù ramponi ai piedi. Il pendio si fa meno ripido, via con gli sci fino a una seconda barriera di ghiaccio. Ancora un picchetto. La doppia successiva ci deposita su di una cengia ghiacciata; qui sacrifichiamo una preziosa vite da ghiaccio per raggiungere infine la parte mediana del Glacier de l’A Neuve. Tiriamo il fiato con qualche bella curva in direzione dello sperone roccioso alla nostra destra. Siamo un po’ destabilizzati. Abbiamo una facile via d’uscita verso il basso e una confortevole notte in una gîte a La Fouly ma siamo quasi arrivati alla fine del nostro periplo.

Scendere adesso sarebbe… Dai non pensiamoci, ripelliamo e attraversiamo questo fottuto ghiacciaio. Il bivacco de la Maye ci attende a braccia aperte, anzi a ben vedere lo si scorge da qui. Peccato che l’itinerario di accesso al bivacco si svolga sull’altro versante e noi intravediamo solo salti di roccia alternati a lingue di neve. Raggiungiamo brillantemente la base del costone ma per raggiungere il bivacco impiegheremo una eternità con tentativi a destra e manca. Saranno delle tracce di camoscio a indirizzarci sulla buona strada. La Maye, il più bel bivacco del mondo. Dire che siamo stanchi è un eufemismo, siamo cucinati a puntino e domani ci attende l’ Arête Gallet, quasi tutta sci in spalla che ci condurrà sulla vetta del Mont Dolent, ultima difficoltà del nostro peregrinare. Il bel tempo ci accompagna e le nostre facce assomigliano a un pizza bruciacchiata, senza entrare in dettagli più scabrosi. Non passeremo una gran bella notte, siamo nervosi e irascibili, non vorremmo proprio essere in questo meraviglioso luogo questa sera. Le nostre energie psicofisiche sono ridotte all’osso e non è detto che domani si salga. La facile e invitante scappatoia verso il Col Ferret è fuori dalla porta. Come muli, il mattino seguente risaliamo il costone dietro il rifugio alternando sci e ramponi finché non raggiungiamo la base della calotta terminale.

Mont Dolent

Le pendenze si raddrizzano e ci vorrà un bel po’ di fatica e nuotate nella neve profonda per arrivare alla Croce della vetta. Siamo vuoti, anzi non siamo lì ma a casa sdraiati in giardino con una bella birra. Abbiamo dato fondo agli ultimi residui di energie e ci allunghiamo sulla neve per un lungo momento senza scambiarci una parola. Ci rimane una bella prima parte di discesa in cui prestare attenzione prima di sistemarci sugli sci; senza nessuno all’orizzonte affrontiamo la nostra ultima discesa. A rendere memorabile questo ultimo giorno provvederà il sottoscritto con una spettacolare scivolata giù per i canali del Petit Ferret che solo una congiunzione astrale favorevole non ha trasformato in un bel patatrac. Ci trascineremo lungo la valle per un’eternità. La fortuna ci farà incontrare un solo veicolo forse impietosito dal nostro stato. Saltiamo felici sul cassone dell’Ape e via.

Come in un romanzo di Agata Christie nulla è come appare e questa splendida avventura non si è svolta esattamente come appare. Chi ha barato? Il narratore. In verità non realizzammo integralmente questo progetto. Il brutto tempo ci fermò dopo il Monte Bianco. L’anno successivo completai la seconda parte fino ad Argentiere ma 40 anni più tardi ho voluto trasportarvi in una grande e lunga saga, così ho prolungato il nostro viaggio oltre il refuge d’Argentière, da dove un mattino, vuoti e senz’anima, scendemmo a valle.

La traversata della Brèche de l’Amône è rimasto un progetto mai più affrontato dal sottoscritto mentre il Dolent sarà attraversato qualche anno più tardi.
Come in tutti i film che si rispettano qui cala il sipario: The End.

Protagonisti, in ordine di apparizione:
Gli ‘EXCALIBUR 185’. Mi accompagnarono ancora per qualche anno e furono fedeli servitori durante i corsi Guida. Fedeli nelle tracce sempre.
Mario. Nell’82 divenne guida e continuò a navigare per i monti con una spiccata capacità ad incasinarsi ma anche a divertirsi un sacco.
Marco. Seguì la stessa sorte di Mario qualche anno più tardi. Oggi vive felice e contento con la sua famiglia sull’isola di Bali gestendo i bungalows che ha costruito.
Dante, per gli amici Cecchinel. Anche Lui continuò ad andare per monti ma purtroppo se ne partì troppo presto in una stupida valanga nella Vallone di Mezdì, in quelle montagne dell’Est.

Non ti dimenticheremo. Ciao Dante

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