A 17 anni ha visto la sua vita stravolta per un incidente che gli ha causato la perdita di una gamba. Oggi, che ne ha 50, può dire di avere totalmente superato l’accaduto. E ha fatto della sua esperienza una missione formativa, insegnando a ragazzi e adulti la magia dell’ascoltarsi
Il sapore delle cose: la storia di Andrea Devicenzi
di Benedetta Bruni
Ci sono storie che scorrono naturalmente, e seguirle non solo è un piacere ma anche un’esperienza formativa. Come nel caso di Andrea Devicenzi, sono i racconti di chi ha riflettuto tanto e studiato persino di più, di chi ha lavorato su di sé per abituarsi a una nuova vita. E che quindi, una volta ritrovata la fiducia, si è speso per aiutare gli altri a ritrovare il loro percorso, che non è un’epifania di un secondo, bensì una strada lunga e tortuosa ma anche piena di meraviglia. Il racconto specifico di Andrea inizia con un incidente in moto che a 17 anni gli causa l’amputazione della gamba, evento a cui è sopravvissuto – durante e dopo – grazie allo sport, per poi proseguire tra coaching e avventure in bici estreme. Quest’anno, in sella a una Lombardo personalizzata.
L’intervista ad Andrea Devicenzi
Forse è una delle domande che di certo ti fanno più spesso, ma è anche la più immediata per chi vuole conoscere la tua storia: come riassumeresti la reazione che hai avuto per affrontare quello che ti è successo? Pensavi che la tua vita sarebbe cambiata drasticamente, immagino.
Sì, il mio unico pensiero quando sono uscito dall’ospedale dopo l’incidente per cui ho perso una gamba è stato che ero spacciato. È stato lo sport a salvarmi: da un lato perché sono arrivato a quell’episodio con una forma fisica pazzesca e un cuore che ha saputo reggere il colpo, dall’altro perché è stato uno dei pilastri che negli anni mi ha permesso di riprendermi a livello mentale. Certo, non è stata una ripresa improvvisa, quanto più un percorso. Ed è proprio ciò che cerco di insegnare nei miei corsi di coaching e formazione. L’Andrea di oggi non è lo stesso di un mese dopo l’incidente, ma neanche quello di un anno dopo. Non c’è stato alcun evento che mi ha fatto cambiare repentinamente. C’è stata, invece, una serie di vicende molto importanti e sacrifici che, sommandosi, mi permettono di dire che oggi ho superato l’incidente al 100%.
Tu stesso ammetti che, nonostante le lunghe camminate, la tua prima passione è la bici. Anzi, il “ciclismo estremo”. Ci racconti di queste passioni?
Ho fatto i primi cammini quando, durante la mia breve carriera nel ciclismo paralimpico e nella nazionale di triathlon, ho sentito il bisogno di rallentare e ascoltarmi. Ho iniziato così, sebbene camminare sia per me fisicamente più difficile – in bici si può progredire anche se la gamba smette di pedalare, infatti poi sono tornato al ciclismo, dopo imprese quali la via di Francesco, la via Francigena e la via Postumia. Ma io sono fatto così: mi piace affrontare le sfide dando sempre il massimo, imparando tutto quello che posso e, se alla fine non ce la faccio, riprovandoci quando sarà il momento giusto.
Nel 2022 hai percorso il perimetro dei 2.000 km dell’Islanda, impresa seguita quest’anno da ‘Crossing the North’ lungo la Scandinavia, entrambe appartenenti al ‘Progetto di ’22-’26’. Di cosa si tratta?
Nel febbraio del 2022 io e il mio team abbiamo voluto fare qualcosa di grande: realizzare cinque imprese diverse nell’arco di cinque anni, raccontate in cinque libri, cinque trailer e cinque docufilm. Questo progetto è partito lo stesso anno in Islanda, 2.000 km in bici lungo l’intero periplo dell’isola, poi ho replicato con Crossing the north, giro della Scandinavia che stavolta ho realizzato in solitaria, mentre quest’anno approderemo negli Stati Uniti. Sono tutte esperienze molto difficili dove la preparazione mentale diventa fondamentale, soprattutto di fronte a eventuali incidenti e condizioni di viaggio estreme. Ad esempio, la difficoltà che ho riscontrato lo scorso anno era ancora diversa dalle altre, in quanto pedalavo con 25 kg di peso sulla mia bicicletta. Per fortuna era una Lombardo fatta su misura con una ciclistica talmente meravigliosa che sembrava di non sentire le borse.
Da atleta paralimpico e mental coach, cosa vuoi trasmettere a chi ti cerca per un consiglio?
Tutti questi viaggi li faccio perché sto bene con me stesso, e questa sensazione si propaga poi sulle persone che incontro e seguo. Quando la formazione ti entra nel sangue, scopri che tante cose inconsciamente le fai anche per altri. Per questo mi piace parlare con la gente di strumenti che trovo molto importanti e che nessuno mi ha mai raccontato. È vero che ora ne sono uscito, ma per tanti anni ho vissuto con il freno a mano tirato. Non è stato immediato, come dicevo: non succede quasi mai che si parta all’avventura per gli Stati Uniti il giorno dopo l’incidente. Fare 2.500 km per me significa esserci arrivati con un percorso lungo 14 anni: è importante raggiungere i propri obiettivi un passo alla volta e conoscendo i propri limiti, o si rischia di superarli troppo platealmente e scoraggiarsi subito, quando in realtà l’unica cosa sbagliata era il tempismo. Guardare ai propri obiettivi con ambizione è ottimo, ma bisogna anche essere realistici ed essere in grado di riconoscerli. Per poi porsi un traguardo facilmente superabile e darsi il tempo di vivere l’esperienza in crescendo, per godere al meglio della prossima.