Kurt Diemberger

Kurt Diemberger
(l’ultimo grande tenore degli Ottomila)
testo e foto di Robert Eckhardt
(pubblicato su Bergen Magazine)

L’austriaco Kurt Diemberger (nato a Villach il 16 marzo 1932) è una leggenda vivente nella storia dell’alpinismo. Appartiene a quella generazione che negli anni Cinquanta si dedicò alla conquista degli Ottomila non scalati. Su due di essi è arrivato primo. Solo un altro alpinista è riuscito a fare lo stesso, ovvero il suo connazionale Hermann Buhl.

Noes e io siamo stati ospiti di Kurt Diemberger, nella sua casa di vacanza in Carinzia. Quando in seguito lo abbiamo chiamato per questa intervista, ci ha invitato a rimanere. Sembrava così ovvio. Tuttavia, siamo stati sopraffatti: due giorni con l’uomo i cui libri sono tra i migliori della letteratura di montagna. Con l’alpinista che ha scalato per primo il Broad Peak 8047 m e il Dhaulagiri 8167 m. Diemberger ha vinto un Emmy Award per il suo lavoro con la macchina da presa e nel 2013 ha ricevuto il Piolet d’Or, cioè l'”Oscar” per l’intera sua carriera alpinistica.

La leggenda degli Ottomila
Dalla città italiana di Bologna, raggiungiamo in auto una casa in stile rinascimentale su una collina sopra il villaggio di Monte San Pietro. In questo luogo tranquillo, Kurt Diemberger e sua moglie Teresa, italiana, vivono da più di trent’anni.

È una bella giornata di primavera e Kurt ci porta in giardino. Guardandolo mentre si aggira tra le composizioni floreali e vicino a uno stagno con pesci, non c’è nulla che faccia pensare che quest’uomo amabile e un po’ tarchiato, con la sua semplice tuta, sia una delle grandi leggende degli Ottomila.

Finché non si vedono le sue mani: Kurt ha avuto diverse dita amputate dopo la drammatica scalata del K2 8611 m nel 1986.

Molto più del disagio fisico è il dolore mentale che prova ancora per la perdita della sua compagna di cordata britannica Julie Tullis durante quella scalata. Durante la nostra prima visita, ne ha parlato candidamente.
Secondo me, Julie era la donna della sua vita“, ha detto poi Noes.

Kurt racconta di aver incontrato per la prima volta Teresa e sua suocera che vivevano nell’affollato delta padano. Non c’erano montagne in vista, ma Kurt non si preoccupava di questo quanto dei canali: “Non si poteva andare da nessuna parte a piedi, perché dopo dieci minuti ti trovavi di fronte ad acque insuperabili. Era come una prigione. Il Po è la fine dell’alpinismo, perché ogni giorno, ogni minuto e ogni secondo trasporta piccoli pezzi di montagna verso il mare”. Vivevo proprio in mezzo all’erosione“.

Questo è Kurt. Probabilmente il filosofo in lui è nato prima di iniziare a scalare, perché all’inizio non erano le montagne ad attrarlo, ma i fossili, le pietre e i cristalli che vi trovava. È un tema frequente nei suoi libri: i cristalli come metafora delle montagne e della neve in continuo cambiamento, che simboleggiano la vita.

Kurt Diemberger con Teresa e le sue due sorelle.
Kurt Diemberger con la piccozza che ha usato sulle Grandes Jorasses nel 1958.

I 14 Ottomila
* Salito da Diemberger
Himalaya
Monte Everest 8848 m – 1978*
Kangchenjunga 8586 m
Lhotse 8516 m
Makalu 8463 m – 1978*
Cho Oyu 8201 m
Dhaulagiri 8167 m – 1960*
Manaslu 8163 m
Nanga Parbat 8125 m
Annapurna 8091 m
Shisha Pangma 8046 m
Karakorum
K2 8611 m – 1986*
Gasherbrum I 8068 m
Broad Peak 8047 m – 1957* e 1984 *
Gasherbrum II 8035 m – 1979*.

Il Settimo Senso
“Con il tempo sereno si possono vedere le Dolomiti”, ci dice con passione mentre entriamo. Lì, Kurt prende in mano il suo libro Il Settimo Senso e filosofeggia ancora: “Il libro di Reinhold Messner Il Settimo Grado, che assurdità all’epoca. Presto ci sarebbero stati l’ottavo e il nono. Io ho trovato qualcosa dove il ‘settimo’ ha una dimensione reale, perché non ci sarà mai un ottavo senso. A volte bisogna avere a che fare sia con il sesto che con il settimo senso: il sesto dice “non fare” e il settimo dice “fai”. Con il senno di poi, si può dire di aver sbagliato e che si poteva agire diversamente, ma poi si comprende anche che al momento in cui si doveva prendere la decisione dovevi prenderla e basta e non c’erano altre informazioni, semplicemente non sapevi“.

Ripensando al 27 giugno 1957, Kurt pensa che, nonostante le pessime previsioni del tempo, erano sotto l’influenza del settimo senso, mentre il sesto continuava ad avvertirli. Wir müssen umdrehen (dobbiamo tornare indietro), aveva deciso Buhl, che aveva molta più esperienza di Kurt.

Kurt, tuttavia, non riusciva a spiegarsi perché, sul Chogolisa, Buhl abbia lasciato la traccia di Kurt per avventurarsi sull’enorme massa di neve sporgente di una cornice che si è staccata sotto il suo peso e lo ha portato per sempre nell’abisso.
Forse Hermann stava pensando: perché Kurt è andato a destra? E lui è andato un po’ a sinistra. Poco prima mi ero girato indietro e l’avevo ancora visto lì“.

Hermann Buhl (che è stato il primo essere umano a salire sul Nanga Parbat 8125 m) è stato il grande maestro di Kurt. Era con Kurt durante la spedizione del 1957 al Broad Peak e si è sempre preso cura di lui come un padre. La morte di Buhl lascia un grande segno su Kurt.

Il Broad Peak
Poco prima della tragedia del Chogolisa, Kurt e Buhl si erano trovati con Marcus Schmuck e Fritz Wintersteller su uno degli ultimi Ottomila non conquistati, il Broad Peak 8047 m, nel Pakistan settentrionale. Dopo il Nanga Parbat, per Buhl era la seconda seconda prima ascensione di un Ottomila. Tornati al campo base, Buhl e Kurt erano in disaccordo con gli altri sul fatto di essere stati sulla vetta anteriore o su quella principale. Proposero di scalare per la seconda volta il Broad Peak. Gli altri pensarono che fosse un’assurdità, tuttavia si accodarono. Valeva la pena, perché la vetta principale è circa 20 metri più alta e distava ancora un’ora dal punto in cui erano arrivati la prima volta.

Il racconto di Diemberger al Broad Peak è fatto della più bella prosa mai scritta sul raggiungimento di un Ottomila vergine (1). Il Broad Peak segnò il passo verso una nuova vita. Kurt divenne guida alpina, fotografo, regista, scrittore e iniziò a tenere conferenze.

Kurt – a sinistra, con il naso rotto – e Wolfi di ritorno dalla parete nord dell’Eiger (1958). Foto: Albert Winkler/Archivio Kurt Diemberger.
Hermann Buhl sulla vetta del Broad Peak (1957). Foto: Kurt Diemberger.

Le donne
Man mano che le nostre conversazioni procedevano, abbiamo sempre più discusso delle donne che hanno avuto un ruolo nella vita di Kurt. Non solo le montagne, ma anche loro hanno dato colore alla sua vita. Credo che ora quelle donne siano più importanti del Broad Peak.

Attraverso le sue due mogli italiane, Tona e ora Teresa, Kurt ha trasceso la sua identità austriaca. Si sente italiano e ha vissuto in Italia per più di metà della sua vita. La figlia di Kurt, Hildegard, è tibetologa; è la sua finestra sui popoli di montagna.

Con Julie Tullis ha formato il “team cinematografico più alto del mondo”. Le riprese lo hanno portato in ogni angolo della terra. E’ stato Kurt a convincere Teresa a trasferirsi su questa collina. Tutta la famiglia ha lavorato alla costruzione della casa. Il vantaggio di una grande famiglia italiana è che ci sono un po’ tutti i mestieri disponibili per realizzare un progetto del genere.

Tuttavia, ci sono anche degli svantaggi: anche le due sorelle di Teresa vivono in quella casa. “Se le tre donne sono troppo rumorose o litigano, io mi metto seduto con tanta pazienza”, dice Kurt. “D’altra parte, come potrei pensare di stare qui da solo, senza Teresa“.

Kurt vive praticamente senza le montagne, ma cammina ogni giorno con i suoi bastoni da passeggio fino al Bar Snoopy, giù in paese per leggere il giornale. “Venite con noi per un cappuccino e un gelato?”. Al ritorno dal Bar Snoopy coglie una rosa per la sua Teresa e più in alto una passiflora.

Teresa non ha mai arrampicato, ma la sua prima moglie Tona sì. Ogni fan di Diemberger conosce la storia dell’Aiguille Noire de Peutérey, in cui, a causa di un temporale infernale, lui e Tona dovettero bivaccare per tre giorni. Lei fu colpita da un fulmine ma si salvò. Per quanto riguarda Teresa, meglio che non chiami Tona troppo spesso, in contatto come sono per via della fondazione EcoHimal, di cui entrambe fanno parte…

La cordata Diemberger-Stefan
Kurt descrive il periodo precedente alla spedizione del Broad Peak come la sua “infanzia” sulle Alpi. All’epoca era ancora un vero e proprio dilettante e per guadagnarsi da vivere era diventato insegnante di matematica ed economia. Kurt conserva ancora il legame con Wolfi – Wolfgang Stefan – che negli anni Cinquanta era il suo compagno di cordata sulle grandi pareti delle Alpi. Wolfi e Kurt si chiamano ancora una volta al mese. Wolfi è più giovane di tre anni e arrampica ancora sul quinto grado.

Diemberger e Stefan sono stati i primi a scalare tutti e tre le grandi pareti simbolo delle Alpi: le pareti nord del Cervino, dell’Eiger e delle Grandes Jorasses. Kurt ha sempre fatto da capocordata su terreno ghiacciato, Wolfi invece andava davanti sulla roccia difficile, perciò erano su un piano paritario.

Sono stati tra i primi ad arrampicare con i caschi di arrampicata. I primi modelli non avevano un bordo leggermente sporgente per proteggere il viso. Questa mancanza causò a Kurt la rottura del naso quando un sasso gli cadde addosso mentre era sulla parete nord dell’Eiger.

Dopo l’Eiger, Kurt prestò il casco a un amico. Questi si beccò una grossa pietra: il casco si ruppe, ma la testa rimase intera. Kurt tappò il buco con del nastro adesivo e usò ancora lo stesso casco per molto tempo.

Quando Wolfi e Kurt fecero l’Eiger pensavano che si trattasse della 13ª ascensione, ma più tardi vennero ritrovati i corpi di Mayer e Nothdurft, morti in discesa. Così la loro salita divenne la quattordicesima. In seguito, si venne a sapere di un’altra ripetizione: quella cordata di due alpinisti aveva ormai alle spalle tutte le difficoltà ed è caduta sul nevaio finale. Di conseguenza, Kurt e Wolfi hanno ottenuto la quindicesima salita a loro nome. Ma Kurt lo considera davvero poco importante.

Kurt ha dei ricordi più belli del pilastro Walker sulla parete nord delle Grandes Jorasses. Con orgoglio ci mostra la piccozza che ha usato lì. È meno entusiasta delle “scarpe Rébuffat” che aveva comprato a Chamonix. Quelle scarpe leggere erano molto buone solo su roccia. A quei tempi non era consuetudine, durante l’arrampicata, portare gli scarponi da montagna nello zaino (o lui non ci aveva pensato). Kurt aveva portato con sé solo quelle scarpe: quando iniziò a nevicare in alto sul pilastro, rischiò dei congelamenti.

K2
Per Kurt e Julie Tullis, il K2 è stato “il loro sogno più desiderato”. Erano in vetta nel 1986 e proprio da lì è iniziata l’odissea verso la catastrofe. Tornati al campo più alto, a circa ottomila metri, loro e altre cinque persone rimasero bloccati per giorni in una tempesta ad alta quota estremamente violenta. Dopo diversi giorni Julie morì, presumibilmente per il freddo, la stanchezza o un edema. Kurt dovette lasciarla lassù. Alla fine, solo lui e un altro austriaco raggiunsero la salvezza al campo base (2).

Questa perdita ha lasciato profonde cicatrici emotive a Kurt. Quando gli abbiamo chiesto se è possibile superare un colpo così violento, la sua risposta è stata: “Ho realizzato che anche la persona che è morta aveva vissuto felicità e ricordi bellissimi. I miei ricordi di Julie sono quelli di una persona viva e non di una morta. Questi ricordi mi tengono in vita“.

E con una battuta: “Mi piace filosofare su Il settimo Senso, perché mi fa riflettere su cosa posso ancora fare nella mia vita”.

Kurt (a sinistra) e lo svizzero Albin Schelbert in vetta al Dhaulagiri indossano ghettoni speciali sopra le loro scarpe da renna.

Note
(1) Kurt Diemberger, Cime e Segreti, Zanichelli, 1982.
(2) Kurt Diemberger, K2, il nodo infinito – Sogno e Destino, Corbaccio, 2000.

Diemberger mostra le scarpe di renna.

Scarpe di renna sul Dhaulagiri
Il 13 maggio 1960, Kurt era in piedi sulla vetta del Dhaulagiri 8167 m, con  Peter Diener, Ernst Forrer, Albin Schelbert, Nawang Dorje e Dorji. Una delle chiavi del successo di quella prima ascensione furono le scarpe fatte con pelle di renna. Secondo Kurt, dovevano essere pezzi di pelle di renna. Lì i peli sono davvero fitti, vicinissimi l’uno all’altro, perché la renna non può perdere nemmeno un pelo in inverno. Le scarpe sono andate molto bene: solo un membro della spedizione ha avuto un leggero congelamento all’alluce.

L’autore del post, Robert Eckhardt
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3 Comments

  1. says: Alberto Benassi

    Grande Kurt, ho letto i suoi libri, l’ho conosciuto ad una sua bella e divertente serata a Viareggio diversi anni fa.

    Persona sensibile e simpatica dotata di una grande auto-ironia.

  2. says: LUCIANO PELLEGRINI

    Ho conosciuto Kurt a giugno del 2004 durante una spedizione del CAI per ricordare i 50 anni della conquista della vetta del K 2. Ci siamo incontrati con la mia squadra ad Askole. Era seduto su una roccia perché aveva il … cacotto. Con noi c’era un medico che subito gli diede una pasticca. Tutto passò e fu compagno di viaggi sino al campo base. UNA FORTUNA! Ci descrisse tutte le montagne, quelle che aveva conquistato, una enciclopedia umana. abbiamo marciato con le due squadre italiane, delle quali una raggiunse la vetta. Curioso, che la notte dormiva all’aperto. Aveva il suo portatore privato, ma, siccome puzzava di capra, a suo dire, preferiva dormire sotto le stelle.

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