Per presentare il libro La via di Nejc Zaplotnik (VersanteSud, 2020) abbiamo scelto di proporre integralmente la prefazione scritta da Dušan Jelinčič. Il testo non si limita ad introdurci alla lettura del libro, ma offre uno spaccato sull’alpinismo sloveno.
La meta dentro di sé
di Dušan Jelinčič
Prefazione al libro La via di Nejc Zaplotnik, VersanteSud, 184 pp., 15.5×23 cm, 19.90 Euro
(pubblicata su Lozaino n. 13, inverno 2021. La rivista è scaricabile qui)
Rincorrere il treno già partito
Prima di parlare de La via di Nejc Zaplotnik (nato a Kranj il 15 aprile 1952, morto al Manaslu il 24 aprile 1983), libro cult dell’alpinismo sloveno, bisogna inquadrarlo nell’ambito di un fenomeno che a molti potrebbe risultare incomprensibile ma che ha le sue solide radici nella storia e nelle tradizioni del paese subalpino. Paese che ha sulla propria bandiera il simbolo stilizzato della sua montagna più alta, il Triglav, che gli sloveni ogni anno salgono a migliaia come in un pellegrinaggio. Perché l’alpinismo sloveno rappresenta un fenomeno a livello mondiale che dura ormai da tempo e non mostra segni di cedimento. Le sue ragioni sono varie e risalgono al carattere, alla storia, situazione politica e conformazione geografica del territorio. La Slovenia è (con i suoi boschi, foreste, fiumi e laghi) dopo la Finlandia il paese più verde d’Europa. Ma soprattutto ci sono bellissime montagne, ideali per la gente comune, che hanno fatto sì che l’alpinismo e l’escursionismo diventino lo sport nazionale e soprattutto fenomeno sociale.
Il piccolo territorio sloveno, prima di diventare stato sovrano nel 1991, è sempre stato terra di conquista anche alpinistica innescando l’orgoglio nazionale soprattutto tra le due guerre mondiali, quando sul Triglav e sulle montagne vicine imperversavano gli scalatori tedeschi e austriaci. Successivamente, dopo la Seconda guerra mondiale, il sistema socialista invogliava le persone a emergere, perché i fuoriclasse sportivi, quindi anche gli alpinisti, erano privilegiati economicamente e soprattutto potevano viaggiare frequentemente. Infine, quello che ha contribuito moltissimo allo sviluppo dell’alpinismo sloveno è stato il carattere degli stessi abitanti – accontentarsi di poco, lottare tanto per realizzarsi, stringere i denti e non lamentarsi mai.
Avendo fatto di necessità virtù e prendendo atto che i mezzi erano pochi, gli scalatori ci hanno messo il cuore e l’entusiasmo, e soprattutto tanto sudore e allenamento. Con questo approccio psicologico vincente, una preparazione fisica professionale, la motivazione alle stelle, una mentalità ben ancorata alla realtà e la sobrietà nei programmi, i sogni e i desideri sono emersi prepotentemente, anche se in ritardo, e si sono trasformati in splendida realtà.
Perché gli alpinisti jugoslavi, la grande maggioranza dei quali erano sloveni, sono arrivati al grande alpinismo quando le pareti mitiche e le grandi vette erano già state scalate. E’ stato allora che il capo carismatico dell’alpinismo sloveno Aleš Kunaver ha pronunciato la famosa frase: “Se vuoi acciuffare il treno in corsa devi correre più veloce di lui” che era come un grido di guerra. I risultati negli ultimi tre decenni del secolo scorso non si sono fatti attendere, tanto che Reinhold Messner disse che allo sviluppo dell’alpinismo moderno, che è stata un’invenzione britannica e centroeuropea, hanno contribuito molto gli Stati Uniti, il Giappone e soprattutto i paesi oltre l’allora Cortina di ferro, ma che il passo determinante nel suo prosperare lo hanno fatto gli sloveni, mentre Steve House ribadiva che non esisteva terra al mondo dove il paese influenzasse l’alpinismo così profondamente come la Slovenia.
Infatti, la lista dei successi degli alpinisti sloveni in tutto il mondo è impressionante. Spuntati dal nulla, nel 1975 tracciarono una via nuova sulla parete sud dell’Ottomila Makalu, seguito soltanto due anni dopo dalla prima su un altro Ottomila, il Gasherbrum 1 nel Karakorum, per raggiungere l’apoteosi con la scalata nel 1979 della cresta ovest dell’Everest per una via nuova, chiamata Via Slovena, che resta ancora oggi la via più difficile per la vetta più alta del mondo. E poi non si contano più le prime e le prime ripetizioni nell’Himalaya, nel Karakorum, in Patagonia, nella Yosemite Valley in California, nelle Alpi di casa e nelle Alpi Occidentali, tanto che la grande cronista dell’alpinismo mondiale Bernadette McDonald, quella di Ti telefono a Katmandu, ha scritto che a Chamonix gli arrampicatori francesi, quando incrociavano i colleghi sloveni, di loro sentenziavano lapidari: ‘Se sono sloveni sono sicuramente fortissimi‘. D’altra parte, gli sloveni sono ormai abbonati ai Piolet d’or. Piccozze d’oro, che sono dei premi Nobel per gli alpinisti, avendone vinti già sette volte, compreso il primo nel 1992, l’ultimo invece nel 2019. La ragione del loro successo l’ho toccata con mano nella spedizione sul Broad Peak nel 1986, cui ho partecipato assieme ai mostri sacri Tomo Česen, Silvo Karo, Pavle Kozjek, Andrej Štremfelj e Viki Grošelj. Era impressionante lo spirito spartano che vi regnava e che bandiva ogni minima forma di comodità.
lo dormivo con altri tre in una tenda da campeggio, nella tenda grande utilizzavamo i sacchi di riso come sedie, a colazione, pranzo e cena mangiavamo solo fiocchi d’avena, riso e chapati, e poi chiaramente scalavamo senza ossigeno, corde fisse e portatori, tutto in spalla e pedalare. I risultati? Dodici su quattordici membri della spedizione, incluso chi vi scrive, hanno scalato la vetta del Broad Peak, quattro di loro hanno raggiunto in 32 ore in stile alpino la vetta del vicino Gasherbrum 2, mentre Tomo Česen ha tracciato una prima sul secondo sperone degli Abruzzi sull’attiguo K2.
E poi quei ragazzi sapevano fare tutto, a parte parlare tre o quattro lingue: cucinare, riparare il materiale, cucire e addirittura fare le iniezioni. Inoltre, in due mesi non ho mai assistito a un pur minimo litigio, invece ho notato tanto cameratismo, correttezza, lealtà d’altri tempi e solidarietà. Chiaramente c’erano anche momenti difficili e ragioni di possibili tensioni, ma tutti hanno sempre saputo fare un passo indietro. E comunque sono sempre stati attenti e realistici nel gestire quei pochi mezzi finanziari che avevano a disposizione.
Adesso viene spontaneo chiedersi: erano dunque dei privilegiati o dei poveri in canna? Probabilmente tutt’e due, o forse la verità sta nel mezzo. Lo stato di sportivo di prim’ordine dava loro dei vantaggi economici con cui coprivano soltanto in parte le spese. Non erano quindi poveri nel senso letterario del termine, semplicemente la loro attività esigeva tanto denaro ben oltre le loro possibilità. Mi ricordo quando, incontrandolo per caso ad Askole sulla via al Broad Peak, il grande alpinista polacco Vojtek Kurtyka mi disse di non aver potuto scalare la Trango Tower, perché i suoi compagni di cordata giapponesi erano dei mediocri alpinisti e non ce La facevano proprio a continuare l’ascensione. I giapponesi gli hanno pagato la spedizione, lui invece ha contribuito con… se stesso. Dunque, si trattava della differenza delle possibilità finanziarie tra i paesi occidentali e quelli dell’est, e non di povertà in senso lato. Comunque, i più grandi alpinisti sloveni sono quasi sconosciuti all’estero, in patria invece sono passati dall’anonimato a essere quasi idolatrati, non perdendo comunque l’umiltà, ben sapendo che la vita vera è comunque altrove.
I vari Franček Knez, Tomo Česen, Nejc Zaplotnik, Andrej Štremfelj, Silvo Karo, Janez Jeglič, Tomaž Humar, Slave Svetičič, Marko Prezelj e tanti altri hanno fatto la storia dell’alpinismo sloveno. Inoltre Zaplotnik, con le sue tre prime su tre Ottomila, e Česen e Humar, con le scalate su pareti fino ad allora ritenute impossibili, hanno innalzato il livello psicologico e l’accezione stessa dell’alpinismo moderno. L’impossibile è diventato possibile. Sicuramente si tratta di un alpinismo diverso per approccio e mentalità, in cui ha un ruolo importante il rapporto con la sofferenza e con la morte. Gli alpinisti dell’Est, sloveni, polacchi, russi, cechi, slovacchi accettano la sofferenza e la morte in maniera sobria, ben sapendo che fanno parte del gioco, che l’incontro con loro è possibile e comunque prezioso e quindi si preparano a dovere con l’allenamento, che comporta velocità, e gran senso psicologico che presuppone intelligenza e buon senso. Però è anche vero cha la morte ha attinto troppo dalla irripetibile generazione polacca degli anni Ottanta e anche gli sloveni hanno dato un elevato contributo di vittime.
Per quanto riguarda la sofferenza invece, questa viene accettata, come insegna Friedrich Nietzsche, come grande maestra di vita, quella che dischiude la porta della verità, perché spinge a farsi domande sul più profondo senso della vita e su tutto ciò che in condizioni normali si tende a dare per scontato. Ma non è tutto oro quel che luccica. Ci sono state delle spiacevoli polemiche, come quella, allargatasi presto a macchia d’olio anche oltreconfine, della prima salita di Tomo Česen sulla parete sud del Lhotse e quella sull’uso sproporzionato dei social nella comunque eccezionale salita solitaria di Tomaž Humar sulla parete sud del Dhaulagiri e ancora del suo soccorso con l’elicottero sul Nanga Parbat. Nonostante questi scivoloni che potremmo definire fisiologici, l’alpinismo sloveno resta ai vertici mondiali, confermando le sue sane e solide basi.
Il mito troppo umano e la sua via
Ci sarà una ragione se Bernadette McDonald ha scritto ben due libri sull’alpinismo sloveno, uno su I guerrieri venuti dall’Est, l’altro sul Prigioniero del ghiaccio Tomaž Humar, nei quali ha seminato tantissime citazioni da La via di Zaplotnik, libro che si è fatta tradurre a voce per skype da un’amica slovena.
E ci sarà una ragione se le ristampe de La via dalla sua prima uscita nel 1981 non si contano più, che anche recentemente è stata ripubblicata come romanzo appendice del maggiore quotidiano sloveno Delo e che le massime e i pensieri più belli sono usciti in un libro-cofanetto regalo. E non è neanche un caso che Zaplotnik abbia un monumento a Kranj, un angolo di museo, vie alpinistiche dedicate a lui, mostre, documentari e quant’altro e che addirittura tanti genitori hanno chiamato il loro figlio Nejc in suo onore. Ma qual è il segreto di questo libro alpinistico che è assurto a libro-simbolo della comunità slovena? Le ragioni sono varie e spesso molto differenti tra loro, ma tantissimi, e non solo alpinisti, lo hanno adottato perché rappresenta la parabola della vita dove tutti si possono rispecchiare.
E’ un libro che tramite l’alpinismo rappresenta la metafora della nostra esistenza, dove le montagne fanno da quinte maestose e le sue storie vere compongono un mosaico di un romanzo di formazione in racconti. Forse questo Bildungsroman si può riassumere nell’ormai celeberrimo motto, tratto dalla sua poesia alla fine del primo racconto: “Chi cerca la meta, resterà vuoto quando l’avrà raggiunta: chi invece trova la via, avrà la meta sempre dentro di sé”.
E’ vero che questo adagio l’hanno già scritto in vari modi grandi filosofi e scrittori, ma nessuno come lui ha saputo applicarlo così coerentemente alla propria quotidianità. O, come ha detto Viki Grošelj, l’amico e compagno di varie spedizioni che l’ha dissepolto dalla valanga sul Manaslu e infine posato nella tomba: “Nejc viveva la sua vita pregna di umanità in maniera così schietta, vera e sincera proprio come l’ha descritta in questo libro“.
Un pregio non da poco, che ha trasformato le sue pagine in una specie di bibbia che ha influenzato tutta una generazione di alpinisti, che lo leggevano e rileggevano prima di ogni salita come un libro guida.
Ma questo non basta ancora per spiegare il successo de La via. Determinanti sono le idee che l’autore esprime in questi racconti che ha scritto negli ultimi anni della sua vita, troncata a 31 anni nel lontano Nepal. Concetti di un’attualità e freschezza che odorano di gioventù, speranza, delusione, gioia, disperazione, voglia d’amore, sogni d’immenso, gioia di vivere e catarsi nell’assoluto. Ogni racconto, come Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry, nell’imponente palcoscenico delle montagne, contiene delle idee e riflessioni che potrebbero stare anche a sé stanti, ma che qui sono collegate in una collana di nove perle che ancora dopo decenni brilla senza segni di appannamento.
Come tutti i Bildungsroman comincia con la prima giovinezza in una famiglia contadina numerosa e la prima voglia di libertà e orizzonti lontani. Da bambino, Zaplotnik era molto malato e proprio allora, come ha scritto lui stesso, si è condannato alla libertà, costi quel che costi. La parabola continua con un bambino che diventa ragazzo che di giorno va a scuola, pascola il gregge e sogna le montagne circostanti, e di notte legge all’insaputa dei genitori.
La via è già tracciata e ormai parte con inarrestabile vigore. Le prime arrampicate e i primi amori arrivano contemporaneamente e con loro i primi dubbi e la voglia di evadere. Già allora rende giustizia alla montagna, sentenziando alla vista dei primi compagni caduti sulle pareti di casa che, nonostante l’apparenza, non esistono montagne crudeli. E già allora abbraccia il motto di Edith Piaf di non rimpiangere nulla: “je ne regrette rien!”.
Anche l’orgoglio nazionale, o forse soprattutto sociale, viene prepotentemente a galla, quando con i suoi calzoni lisi e le scarpe consumate e con la propria scalata elegante e veloce umilia degli alpinisti austriaci attrezzati a puntino, che lo offendevano come sporco balcanico. Con la sua brama di conoscenza e la voglia di varcare i limiti la parabola si sposta prima in Africa, dove traccia una via nuova sul Mawenzi in Tanzania, poi nella Yosemite Valley in California, dove a vent’anni scala la via Salathé su El Capitan.
L’orizzonte si allarga ancora nei racconti che seguono sulle salite in Himalaya, sul Makalu, dove a 23 anni traccia una nuova via sulla quinta montagna del mondo, e sul Gasherbrum 1 con la prima salita sulla cresta sud-ovest, dove già esterna un’ideologia e una filosofia propria che prorompono con la sicurezza di uno che tutto quello che ha lo ha guadagnato sul campo. Se nel racconto sulla spedizione in California si sofferma soprattutto sulla società e quindi sull’esteriorità, in Himalaya le sue riflessioni fanno un salto di qualità. Il cartello Only for dogs and alpinists!!! con tre punti esclamativi nella Yosemite Valley, posto davanti al campo degli alpinisti vestiti in maniera bizzarra, senza un soldo, che bevono birra e fumano erba era emblematico ed era lo specchio di cosa pensava la società perbenista americana dei suoi cenciosi abitanti.
La contraddizione postcapitalistica degli alpinisti paragonati a cani, mentre gli innocui orsi erano intoccabili e potevano tranquillamente vagare tra le tende e razziare il cibo, è palese.
Come per i combattimenti di cani, anche i turisti grassi e sudati di Nejc si sedevano sui terrazzi soleggiati e fissavano con i binocoli le pareti per scovare gli alpinisti e a ogni caduta, puntualmente finita con un pendolo sulla corda, seguiva un volgare strepitare da stadio.
Invece nei racconti himalayani che seguono Zaplotnik si dedica soprattutto all’amicizia, alla lealtà e al loro contrario: l’invidia. E’ addirittura commovente la scena del dialogo nell’ultimo campo sul Makalu prima dell’attacco alla vetta. Al momento cruciale, quando pensavano di non poter salire senza l’ossigeno (e non c’erano bombole per tutti), ognuno con le lacrime agli occhi voleva rinunciare alla cima, sogno di una vita, a favore dell’altro. Quando fu loro comunicato che l’ossigeno non era necessario cominciarono a gridare di gioia e rotolarsi come bambini. Probabilmente non è un caso che il libro sia dedicato “al mio migliore amico a questo mondo, a mia moglie Mojca”.
L’amicizia come un solido patto che dura tutta la vita. Ma Nejc parla anche dell’invidia. Questa parola è ripetuta spesso perché da persona leale e sensibile l’ha sovente percepita. Perché essere diversi dalla massa, non seguire i consigli di quelli che si reputano onniscienti, e dopo avere ragione, è una pecca imperdonabile, soprattutto se il tuo atteggiamento indipendente porta al successo. Perché il successo è sopportato molto peggio della cattiveria e della vigliaccheria e bramare più di quello che ti hanno destinato è una inaccettabile trasgressione.
E poi parla tanto della famiglia, dei suoi tre figli piccoli dei quali si chiede cosa stanno facendo, ma anche gli sherpa e i portatori sono spesso nei suoi pensieri. Li vuole conoscere, aiutare, strappare loro un sorriso. E soffre con loro e con i loro bambini, che prende nel suo sacco a pelo quando hanno freddo. Però nella gioia e nel dolore, nella fatica e nell’ozio c’è spesso un velo di malinconia come se si accorgesse che il tempo corre troppo in fretta e presagisse la propria fine. Non a caso nel racconto che precede quello più lungo e sontuoso sulla grande spedizione all’Everest parla degli uccelli che ancora cantano nel bosco. Come se volesse appropriarsi dello stupore dei suoi bambini con i quali va a passeggiare tra il verde. Allora tra i giochi e la gioia condivisa con i pargoli viene assalito dai dubbi e dai rimorsi, quando lo accarezza un impercettibile alito di vento, come volesse avvertirlo di non dimenticare che la vita vera è solo a casa e che gli orizzonti lontani sono soltanto una breve parentesi che rendono la quotidianità più sopportabile.
Il racconto sull’Everest è sì la storia di una grande vittoria, ma anche il momento della crescita e della disillusione definitiva. Sa che dopo lo straordinario successo della prima sulla vetta della Madre dell’Universo più in alto non si può salire, ma anche percepisce il richiamo della vita vera, quella delle responsabilità e della lotta quotidiana nella nebbia a valle, che tutti i potenziali Peter Pan dovranno prima o poi affrontare. Già sulla cima dell’Everest, frastornato dalla fatica e dalla mancanza d’ossigeno il suo inconscio gli detta le parole riascoltate al campo base con gran stupore, “sono in cima e non so cosa fare”. Non c’è quindi niente di eroico nell’assediare e dopo tante battaglie vincere la guerra conquistando la vetta. Il suo inconscio ha solo confermato quello che gli è sempre sgorgato dal cuore con grande sincerità: non sa cosa fare perché la meta fuori di te non esiste e la cima è soltanto una tappa nel cammino sulla via che dura in eterno.
L’ultimo racconto è la storia di un ritorno a valle, di un lento avvicinarsi a casa, e non di una conquista: o forse il saper ritornare è già di per sé una conquista. Il titolo che cita il valico del Thorong La al chiaro di luna sotto le vette dell’Annapurna (Zaplotnik, subito dopo la spedizione sull’Everest, ha fatto per sei mesi l’istruttore di alpinismo nella scuola per sherpa a Manang, fondata e gestita dagli sloveni fino ai tempi recenti) è simbolico. Si arrampica, si vince e si perde, si spera e ci si dispera, ma alla fine quello che determina i nostri giorni sono la pioggia e il sole, il riso e il pianto, la nebbia e il chiaro di luna. L’idea di aprire quella scuola è venuta proprio sull’Everest, quando lo sherpa Ang Pu, dopo aver scalato per la seconda volta la cima, al ritorno con la seconda cordata slovena, è scivolato sul ghiacciaio e non è riuscito a fermarsi con la piccozza e i ramponi. E in quella scuola e nei villaggi vicini Nejc incontra l’umanità vera e decide di amare quella terra. Ed è proprio qui che l’autore svela la sua grande sensibilità, quando in ospedale ammira la tenerezza di un padre per il proprio bambino ferito o quando la vista di una bambina vestita di stracci sporchi nelle stradine di Katmandu lo scuote fino al midollo. E infine si deve confrontare con la solitudine, la confusione, la paura del domani e qui si palesa il giovane neanche trentenne con tutti i problemi e le contraddizioni di quell’età, quando afferma che la strada scende ripida, anche se la curva dei successi continua ad impennarsi, oppure quando dice di ammirare le persone la cui vita è una pianura calma, perché la sua è come un fiume in piena.
La verità è che non vorrebbe o semplicemente non potrebbe mai essere come loro, anche se qualche volta nei momenti più bui sogna una pianura senza vento e una vita senza tempeste, che nelle montagne abbondano.
La via illuminata da passione e pensieri
La scrittura di Nejc Zaplotnik è l’apoteosi della contraddizione, dell’umano, del fragile sia in montagna che a valle. Parla pochissimo di tecnica, dei gradi, del sistema di progressione in parete, tanto che dopo la salita non sa spiegare i dettagli tecnici della via, con grande disappunto degli amici che glielo chiedono. Semplicemente non gli interessa perché privilegia la bellezza, la libertà che la salita comporta e soprattutto l’uomo che scala la parete. La roccia è materia senz’anima e prende vita solo con l’arrivo dell’essere umano. Il successo senza umanità è vacuo o, come riflette sotto la parete di El Capitan: “Non ho mai dato importanza al successo e basta, se dietro non si celava un grande uomo … Il successo nella vita non ha importanza perché l’ambizione ti chiude la strada verso l’uomo, e il successo ti isola e ti aliena gli amici…“.
Nejc Zaplotnik, pur essendo un grande alpinista, all’epoca paragonato a Reinhold Messner stesso, è soprattutto un artista e un uomo con tutti i suoi dubbi, sbalzi d’umore e contraddizioni. Ma è pure un essere indipendente con una personalità prorompente e una gran sete di sapere, ma anche un poeta vero, come dimostrano i passi lirici struggenti disseminati in tutto il testo e nelle poesie alla fine di tanti racconti. Uno che detesta i conformismi e cerca la bellezza anche e soprattutto nella miseria e negli anfratti bui, perché è lì che lei spesso si annida, come canta Fabrizio De André, “che dal letame nascono i fior”.
Nejc è uno che è cresciuto troppo in fretta e ha vissuto come se fosse sempre su un treno in corsa perché amava troppo la vita e voleva coglierla in tutte le sue sfumature e la sua vastità. Un uomo buono e sensibile, ribelle e senza compromessi, insofferente e dolce, sicuro e indeciso, insicuro e deciso. La sua è una scrittura moderna con tanti flashback e riferimenti letterari, coraggiosa, affrontando di petto argomenti delicati come la morte, l’amore o l’amicizia, e infine epica, com’è giusto che sia una scrittura di alpinismo, quando per esempio descrive la lotta per la vita sull’Everest o sul Makalu. I racconti, anche se scritti in vari periodi, hanno una coerenza e un filo temporale e concettuale logico e scorrevole.
Ma la forza trainante de La via sono le riflessioni, i pensieri e gli adagi sempre attuali e profondamente ancorati nella quotidianità, anche se esternati in un contesto fuori dal comune, che formano con l’affascinante e spietato ambito esterno una combinazione di grande efficacia.
Leggendo il libro, qualcuno ha obiettato che a volte si tratta di riflessioni e concetti semplici di un giovane entusiasta della vita e travolto dalla voglia di fare che spesso rasentano l’ovvietà e i luoghi comuni. Mi sembra un giudizio decisamente troppo severo. Allora anche la vita è ovvia e la quotidianità è… quotidiana. L’autore ha semplicemente interpretato il pensiero di quelli che cercano qualcosa di più nella vita, la conoscenza, la bellezza, e soprattutto la… via, ma che non hanno saputo esprimere. Come quando leggi i libricini Bignami e simili sulle cento massime di Oscar Wilde, Goethe o Nietzsche. Tante potrebbero suonare semplicistiche e banali proprio perché estrapolate dal contesto.
Il filo rosso tra Mallory, Kandinsky e Bonatti
Tanti hanno voluto spiegare perché si va in montagna per le vie estreme rischiando la pelle e molti hanno liquidato la questione con una battuta o frase ad effetto. Così il grande alpinista francese Lionel Terray parla della conquista dell’inutile, George Mallory prima di sparire per sempre sotto la cima dell’Everest nel 1924 invece liquida la questione che cercherà di salire in vetta semplicemente perché è là.
Invece Nejc, partendo dal presupposto che nessuno ci va per morire, ma per vivere a piene mani, lo spiega senza tanti giri di parole: perché la forza del vissuto nei luoghi più vicini al cielo è infinitamente più intensa che a valle e che la lotta contro le avversità della natura ha una sua etica, perché ci sprona alla ricerca della bellezza, ci rinforza lo spirito e ci avvicina alla realizzazione di un amore sublime. Se il grande artista russo Vasilij Kandinsky da pittore diceva che ogni essere umano ha un suo colore (l’arancione rappresenta la convinzione nelle proprie capacità, l’azzurro la forza della profondità e il moto concentrico e il rosso risuona nell’anima con la solidità e l’energia, che non si disperde), Zaplotnik rappresenta tutti e tre i colori: era forte e profondo, ma sapeva vivere nel dubbio e nell’incertezza senza piegarsi.
Durante la traduzione mi sono spesso chiesto a chi tra gli alpinisti più rinomati potrebbe assomigliare Zaplotnik. Forse un po’ a Messner, per la profondità delle idee e la convinzione nei propri mezzi, e un po’ a Walter Bonatti, per la forza del pensiero, coerenza e soprattutto per l’umanità con i suoi dubbi, le rinunce e la lealtà assoluta. Come Bonatti forse avrebbe abbandonato l’alpinismo estremo – nel mondo c’è ancora tanto da scoprire e da conoscere – o forse no: perché la montagna più bella è quella che non hai ancora scalato. Forse non sarebbe rimasto solo nell’alpinismo, ma avrebbe allargato la sua visione al continuo affannarsi a realizzare sogni. Però me lo immagino come Bonatti in giro per il mondo a scrivere reportage mozzafiato dai più sperduti luoghi della terra… Infatti, dopo l’Everest Zaplotnik ha decisamente rarefatto il numero delle salite e delle spedizioni. Due anni dopo la scalata sul tetto del mondo ha affrontato la terribile parete sud del Lhotse, l’anno seguente lo ha dedicato tutto alla famiglia, allo studio e al libro che è uscito proprio allora, poi nella primavera del 1983 è stato invitato a una spedizione croata sul Manaslu. L’ultima, che gli è stata fatale…
Infine, l’adagio universale di Nejc sulla meta che è un’illusione e sulla via da percorrere è ancora attuale o la società, che distorce i valori e cancella il superfluo, e il tempo che tutto appiana e tutto stritola hanno amalgamato nella mediocrità le idee e i sentimenti più nobili? Penso che lo spirito che emana dagli scritti di Nejc Zaplotnik e alleggia sulla sua via brilli ancora di luce propria nel firmamento degli umani desideri, perché ognuno ha la propria Himalaya, il sogno che aiuta a vivere e la via da percorrere da meta a meta che non finisce mai.