A parte «l’affaire» mediatico, non è convincente la lettura univoca e anche la traduzione allestitiva di spunti interessanti: fra diverse sgrammaticature, il facile mito dell’avvenire cancella ogni complessità, ogni inquietudine.
Futurismo: fenomeno monolitico e ottimistico maremagnum
di Manuel Barrese
(pubblicato su ilmanifesto.it il 2 febbraio 2025, aggiornato)
Riflettere sul Futurismo attraverso lo strumento della mostra non è mai stata un’operazione semplice né tantomeno neutra. Due in sostanza le questioni che, a partire dal Secondo dopoguerra, hanno generato controversie. Da una parte ci si è interrogati, e ancora oggi si dibatte tra rivendicazioni di primati e revanscismi nazionalisti, sul corretto posizionamento del Futurismo in seno alle avanguardie d’Oltralpe; dall’altra si è rivelato sempre complesso analizzare la prossimità di tanti futuristi – a dire il vero non tutti, basti pensare ai cosiddetti «futuristi di sinistra» Vinicio Paladini e Ivo Pannaggi – al regime fascista. Il tema, insomma, si dimostra ancora oggi spinoso, divisivo e non del tutto metabolizzato perché, alla base, va a toccare alcuni delicati gangli – identitari, storici, culturali – del nostro passato.
All’insegna delle polemiche si è svolta anche l’attuale mostra Il tempo del Futurismo (fino al 28 febbraio 2025, catalogo Treccani), aperta alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma a cura di Gabriele Simongini. La manifestazione ha avuto una genesi travagliata perché, già prima dell’inaugurazione, si è sovrapposta all’affaire mediatico che ha poi portato al cambiamento dei vertici del Ministero della Cultura. L’esposizione, in ogni caso, è stata costruita con un grande dispiego di mezzi monopolizzando, di fatto, gli spazi della Galleria Nazionale a discapito della collezione permanente.
Una narrazione al contempo cronologica e tematica ripercorreva le gesta dei tanti artisti che, con esiti qualitativi eterogenei, dal 1909 fino ai primi anni Quaranta del Novecento hanno legato il proprio nome alla proteiforme creatività futurista. La sezione introduttiva si soffermava sulla «preistoria» del movimento analizzando l’influenza esercitata a fine Ottocento dagli eroi del Divisionismo italiano – Segantini, Previati, Pellizza da Volpedo – su quelli che sarebbero poi diventati i personaggi più in vista del Futurismo. Nelle prime sale, Balla, Boccioni, Carrà, Russolo e Severini erano giustamente affiancati ad autori oggi meno noti che, da posizioni laterali, fiancheggiarono l’ascesa dell’avanguardia marinettiana (ad esempio Aroldo Bonzagni e Romolo Romani, nel 1910 firmatari della prima stesura del Manifesto della pittura futurista).
Nella sezione successiva, la giustapposizione di opere stilisticamente e concettualmente distanti rischiava di disorientare il pubblico, specie quello non specialista. Il Futurismo, è vero, ha avuto al suo interno molteplici declinazioni ma, forse, la scelta di avvicinare poetiche non immediatamente convergenti si sarebbe dovuta contestualizzare in maniera più circostanziata. Era ad esempio fuorviante porre sullo stesso piano, e soprattutto senza una spiegazione capace di evidenziarne le dissonanze, Béguinage – collage polimaterico di Prampolini considerato del 1914, ma oramai da più parti datato agli anni Quaranta – e un ben più tradizionale Paesaggio, sempre del 1914, di Leonardo Dudreville.
Considerando l’alta concentrazione di opere raccolte nelle prime sale, un supporto più incisivo di pannelli illustrativi avrebbe senz’altro contribuito a rendere la presentazione del Futurismo meno monolitica e autosufficiente, specie in relazione alla serrata ma proficua dialettica instaurata con i cenacoli d’avanguardia esteri; allo stesso momento, dei cartelli di sala più specifici avrebbero aiutato a far prendere maggiore consapevolezza della peculiarità di alcuni prestiti eccellenti. È il caso – al di là dell’efficace accostamento del Sole di Pellizza (1904) alla Lampada ad arco di Balla (1911), proveniente dal MoMA di New York – della prima versione del Nu descendant un escalier di Marcel Duchamp (1911, Philadelphia Museum of Art) che, immessa nel flusso dell’esposizione come una sorta di «convitato di pietra», non riusciva a comunicare la sua unicità di opera ispirata alle incendiarie tesi futuriste ma al contempo anche radicata nella visualità cubista francese.
In questo senso la mostra tendeva a eludere, o a dare per scontata, la fitta rete di relazioni che la compagine marinettiana e Marinetti stesso – soprannominato «caffeina d’Europa» – riuscirono a tessere a livello internazionale. E, probabilmente, è da qui che si origina quello squilibrio interpretativo che, come si percepisce nella sezione finale della mostra, tendeva a individuare una diretta filiazione futurista a tutte le tendenze d’avanguardia del secondo Novecento.
Il Futurismo – è innegabile nonostante le molte valutazioni a ribasso che si sono susseguite sulla scia della fatale condanna lanciata da Benedetto Croce – ha avuto un raggio di influenza enorme perché, tra le altre cose, ha inaugurato strategie operative «aperte». Se è dunque corretto rinvenire una radice futurista nell’astrattismo permeato di riferimenti balliani di Dorazio e Turcato, nella congiunzione tra creatività e avvenirismo di Fontana, nella continuità del polimaterismo che attraverso Prampolini arriva a Burri e persino nello sconfinamento ambientale avvalorato da Pascali, risulta forse troppo generico chiamare in causa Fluxus, l’happening del Living Theatre e la scultura d’area novorealista senza tenere conto dei cruciali, e trasversali, apporti del Dada e del Surrealismo.
Nel maremagnum di opere esposte si annidavano poi delle sgrammaticature: ad esempio, cosa legittima la presenza in mostra di un’icona preannunciante il clima del Ritorno all’ordine come il boccionianio Ritratto di Ferruccio Busoni? La tela – eseguita dall’artista nel 1916, poco prima della sua prematura scomparsa – costituisce un ripensamento su basi neoclassico-cézanniane dei principi del Futurismo delle origini. Se poi si passava oltre nella sezione della Ricostruzione futurista dell’universo, come si motiva l’inserimento degli arredi per bambini – databili al 1924 e indiscutibilmente di gusto déco – impreziositi di inserti pittorici dell’illustratore Antonio Rubino? È forse l’afflato giocoso di questi manufatti – curiosamente non documentati nel catalogo – ciò che permette di correlarli ai ben più arditi esperimenti di Balla e Depero relativi all’estetizzazione dello scenario domestico?
Piuttosto sommersa rimaneva anche l’osmosi tra Futurismo, saperi scientifici e nuove tecnologie che costituirebbe il fulcro dell’intero progetto espositivo. Nelle dichiarazioni del curatore, infatti, la mostra avrebbe inteso sottolineare la sensibilità dei futuristi nel preconizzare un orizzonte come quello di oggi sempre più condizionato dai dispositivi elettronici e via via sempre più estroflesso nella volatile immaterialità della realtà virtuale. Si trattava di una prospettiva ambiziosa e affascinante che tuttavia, stando alle effettive scelte curatoriali, è restata sospesa.
Modesti si sono rivelati poi i mezzi utilizzati per spettacolarizzare l’allestimento e, in esteso, evocare la tanto declamata spinta alla multimedialità. Una partecipazione effimera – cioè passiva – del pubblico si è registrata con l’installazione creata ad hoc che, collocata in dialogo ideale con una fusione recente – a quanto pare ritirata poco dopo l’inaugurazione – della scultura di Boccioni Forme uniche nella continuità dello spazio, avrebbe dovuto andare a offrire una «esperienza multisensoriale arricchita da un’illuminazione dinamica». A ben vedere, però, la piattaforma lampeggiante percorribile da cui riecheggiava indistinta la voce di Marinetti diventava lo sfondo privilegiato per appagare la compulsiva ricerca di selfie e proiettarsi nel mondo dei social. Lo stesso valeva per l’imponente apparato di parerga macchinistici – automobili, motociclette, idrovolanti – che in maniera un po’ scolastica inneggiavano al mito futurista della velocità.
Spesso, questi esperimenti dal taglio spiccatamente pop possono rivelarsi utili in quanto aumentano tramite l’intrattenimento la conoscenza di determinati fenomeni; tuttavia, nel caso specifico, la dimensione ludica si assolutizzava e invece di stimolare una maggiore comprensione della complessità del Futurismo innescava solo distrazione.
Forse, solo un affondo più radicale sulle ricerche artistiche ipercontemporanee avrebbe potuto restituire l’attualità dell’approccio futurista al progresso. Approccio, bisogna ricordare, che non fu caratterizzato esclusivamente da quell’ottimismo di fondo che, al di là delle formule d’effetto contenute nei vari manifesti, la presente mostra tendeva a enfatizzare. Al contrario, la fascinazione dei futuristi per la civiltà meccanica non solo celava una sottile inquietudine verso le sfide aperte dall’industrializzazione ma andava a caricarsi anche di suggestioni esoteriche – legate cioè alla teosofia e al mondo dell’occulto – molto poco positiviste.
Come spesso accade, le mostre incentrate su episodi del passato dicono molto dell’oggi. Leggere il Futurismo privilegiando il filtro della scienza e la retorica delle innovazioni può essere eloquente della crisi abissale che, ormai da parecchio tempo, affligge la cultura umanistica. E chissà se a breve, come è stato fatto oggi con Guglielmo Marconi, anche a Elon Musk verrà attribuito l’epiteto di «futurista».
In realtà l’osmosi tra il futurismo e le scienze contamina tutta la società e contribuisce alla crisi della cultura umanistica. Del resto anche l’alpinismo fu a suo modo futurista. La sfida alla natura in montagna nasceva sullo stesso terreno ideologico della sfida alla natura nella produzione industriale. L’uomo futurista è l’eroe del materialismo tecnoscientifico.