Riflessione montana

di Giovanni Widmann

Si arriva in vetta con l’illusione di dominare il mondo. Solo col tempo si comprende che l’estensione dello sguardo su quegli spazi incommensurabili misura non la nostra grandezza ma la nostra fragilità e finitezza: lassù ci sentiamo deboli e inessenziali, insignificanti. Proprio all’apice del nostro successo, giunti in alto, invero comprendiamo di non essere arrivati in fondo, che la meta è sempre e ancora ulteriore; con ciò il nostro fine non giunge mai alla fine.

Per quanto mi riguarda, quando raggiungo la cima realizzo che non sono dominatore della natura, piuttosto spettatore, e tuttavia non avverto di essere da essa dominato e ostilmente contrastato, neanche quando si manifesta incombente, severa e inospitale.

Semplicemente so che essa mi è superiore e che perciò non ha senso pensare di vincerla e superarla, magari facendo affidamento alla tecnologia. Gambe, testa, forza di volontà, tecnica ed esperienza sono necessari per arrivare in cima, ma non sufficienti. Tanti sono i rischi e i pericoli e limitata la nostra capacità di affrontarli per dire che il successo dell’impresa è esclusivamente nelle nostre mani. Che c’entri il caso, il destino o il volere di qualche entità soprannaturale è arduo stabilirlo.

Ognuno è libero di credere quel che vuole. Per me andare in montagna è un esercizio di umiltà prima ancora che un’occasione di libertà. Lealmente si raggiunge la vetta a mani nude; veramente se si torna a mani vuote.

Abbracciando l’orizzonte siamo in armonia con la montagna e col paesaggio circostante: non vediamo soltanto ma sentiamo. Perché un abbraccio presuppone intima vicinanza, un’unità che salvaguarda le reciproche differenze; non una semplice unione e nemmeno una fusione – diventare una cosa sola – ma la capacità di stringersi insieme senza legarsi o costringersi, riconoscendosi liberi, infine.

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2 Comments

  1. says: Paolo Fissore

    Il bel testo è andato a rispolverare un pensiero che ho da tempo.
    La salita di una grande montagna per una via difficile è assimilabile a un’orgia di sesso sfrenato ( entrambe le esperienze non mi appartengono) in cui non esiste un limite, un fine finale, e che nulla ha da spartire con il sentimento, con l’amore.
    La lunga escursione, il terzo-quartogradismo non velatamente guardato dall’alto, permette di esprimere lealmente e senza trucchi il proprio livello, godere del bello che ti circonda, ed è assimilabile all’abbraccio che, come scritto, non è fusione o unione di corpi, ma compenetrazione di anime, di sentimento vero, di “sentire” l’altro, l’intima vicinanza. Espressione più vera dell’amore. E, forse, dell’esperienza di montagna.

  2. says: bruno telleschi

    La consolazione della montagna sembra una risposta indiretta alla solitudine della montagna che preoccupa Sonia Biasutto alle prese con i cambiamenti del clima. Ma non funzione sempre.

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