Walter e Walter

di Diego Banchelli

Walter decise di tornare da Walter.
In un giorno e ad un’ora precisa il suo umore cambiò e la decisione fu tanto immediata da inibire d’un colpo lo spazio a qualunque altro pensiero.

A Milano luceva un tiepido sole settembrino e nemmeno un fiocco di nuvola in cielo. ma nella stanza di casa solo carte, intorno alla macchina da scrivere, e due o tre giacche e pantaloni da giramondo. oggetti per fumare, per bere, per leggere e anche per dormire, quando il sonno, egli dice, diventava cattivo.

Per andare da Walter occorrevano un sacco, le corde, i chiodi no, i chiodi no, oramai, per salire a cercare Walter, di chiodi ce n’erano fin troppi; che anche le corde fossero, a quel punto, fisse? Ed immagino una lunga via ferrata, sonante degli schiocchi metallici di centinaia di moschettoni. Assalita, in fila indiana, da genti bianche, nere, gialle e meticce. Giovani seminudi, attraenti signore, anziani traballanti, insieme in ascesa verso una luna pallida, alta sul pilastro del Dru.

Confusioni quotidiane per una geografia mentale che non aveva mai aderito appieno alla geografia del mondo visitato negli ultimi vent’anni. I popoli silenziosi del Sahara, che ti trovi accanto senza accorgertene, perché fino la loro ombra contendono al sole. Mai ben distinti tuttavia dai guerriglieri d’ aeroporti e di bidonville nati in Palestina o dalle geishe assembrate per Il fotoreporter.

Chissà cosa avrebbe pensato Walter di una ferrata sull’occidentale del Dru ? Sull’imbuto ghiacciato del Dru, tetro, gelido, opprimente, scavato dalle erosioni millenarie, ma soprattutto dalla furia selvaggia delle valanghe… ecco, proprio le parole di Walter, pronunciate molti anni prima.

Abbandonando la curiosità per quella fluida visione, Walter si alzò dalla panchina di piazza San Francesco, vincendo la dolenzia delle ginocchia, e si avvicinò alla fontana dove la statua del Santo, sempre viva di rondini irrequiete, fa zampillare un costante flusso discreto. Appena le labbra si unirono all’acqua, con movimenti della persona di lontana memoria infantile, il pensiero corse ai rivoli di scioglimento delle nevi, di cadute piovane, o nati da grandine anche col sole, che gli avevano permesso di placare la sete sofferta sul Dru. sorrise ai pensieri di poc’anzi e fu sicuro che non esisteva via ferrata per tornare da Walter.

Giungendo a Chamonix, un senso di fastidio, subito accompagnato come da un batticuore, si impadronì di Walter.

Il viavai della città, lungi dall’essere relegato entro la cinta dei grandi viali di Milano, diveniva, ai piedi della cornice del Bianco, una sorta di frenesia inarrestabile che coinvolgeva ogni cosa. dal passo della folla tra alberghi, banche, negozi e pasticcerie ai rintocchi delle molte campane.

Financo gli alpinisti, presenti in grande numero, vestivano abiti e colori vivaci, come per una festa country in America, e posavano, direttamente sui marciapiedi, i loro materiali superleggeri e spolverati, fettucce e skyhook compresi, di appiccicosa farina di magnesio.

Chissà cosa ne pensa Walter… La sera stessa a Montenvers !

Non poteva lasciar attrarre il suo istinto di fotografo e di cronista dalla sagra carnevalesca di Chamonix, dove tutto sembrava in vendita. Forse gli alpinisti stessi, soddisfatti delle scalate compiute durante quella lunga estate, sciorinavano le attrezzature fra le gambe dei passanti per farne commercio. Come altri, con altri oggetti, fanno la sera a Piazza Navona, o i campesinos nei mercati sempre tinti di rosso dei villaggi del Perù.

La sera a Montenvers fu di grande pace e distensione.

Seduto a fumare su di un ciocco di abete, fuori della casa dell’amico, Walter fu preso dal desiderio di essere, egli stesso, visitato da Walter. Magari nella radura più giù, ai margini della pineta dove si sarebbero seduti sul muschio che avvolge ogni cosa, a discorrere e raccontarsi la vita vissuta separati, di quella donna che non mi lascia mai e di quella che tu non ricordi più.

Tuttavia ben saldi, entrambi, nella nuova età di riflessioni e di quiete.

Era l’inizio di un turbamento e Walter lo assecondava, contando le stelle vivide accese sopra le Flammes.

Nel ritirarsi al primo brivido di freddo, lo sguardo colse, ben fuori dal cielo e dagli stessi ghiacci riflettenti, una nuova stella. Una stella più grande, apparsa proprio nel mezzo delle rocce, ora nere, del Dru. Gli sembro vicina alle placche del Ramarro.

La sua luce vibrava, saliva e scendeva di intensità, senza tuttavia mai spegnersi. La lampada di un alpinista solitario, rimasto in bivacco sulla parete? In tal caso poteva trattarsi di segnalazioni, forse di aiuto.

Due sogni, chiari e nitidi nella mente al risveglio, contrassegnarono quella notte di Walter a Montenvers.

Ad Atene, nel fondo di una notte invernale, in un vicolo cieco, lucido di pioggia, un cane, tra schnauzer e pastore abruzzese, nero nel buio quasi totale, gli abbaiava contro. Immobile sulle quattro zampe, come fosse legato da catena al fondo del vicolo, abbaiava ostile ed incessante, ma proprio a lui?

Si trovò poi nella sua camera a Milano, sdraiato nel caldo letto, preparato per un lungo riposo, quando, dietro alla parete alle sue spalle, udì , per la prima volta, i rumori dell’altra casa e dei suoi inquilini. Forse non vi aveva mai prestato attenzione. Erano due voci, una femminile ed una maschile, piuttosto roche, non giovani, che si scambiavano frasi strascicate del lessico familiare. Intanto la donna andava riponendo da qualche parte, con pesanti echi metallici, una serie interminabile di suppellettili. Gli parve di trascorrere molte ore, da solo, con il braccio sulla fronte, supino sotto le coltri, ad ascoltare il fluire di quella vita di vecchi, a lui in tutto estranei, ma vivi, nello spazio, appena pochi centimetri dietro la sua testa.

Si levò alla prima alba, con un senso di solitudine doloroso da sopportare. Scostando la tendina a righe marroni dalla finestra, vide solo nuvole basse e nere, percorse a tratti da lampi.

Pensò all’alpinista che aveva acceso la lampada quella notte, dalle parti del Ramarro del Dru.

Tutta la giornata trascorse immersa in una fitta nebbia vagante, trafitta da grandinate furiose e saette nitide come disegni. La montagna rimase completamente nascosta, talché Montenvers avrebbe potuto trovarsi indifferentemente in qualunque altro spazio o continente del mondo. Solo la compagnia discreta di Marco, che accudiva metodicamente al caminetto, e preparava, di ora in ora, tè caldi per Walter e rossi bicchieri di vino per sé, fece da filtro al lentissimo passare del tempo.

Marco, che si ricordava di tutti, di Cosimo e di Andrea, di Pierre e di Giuseppe, volle tuttavia parlare all’amico solo di gente diversa, a lui sconosciuta.

Walter, dovresti venire quando c’è anche Piero, con Fabrizia, che sono nati da queste parti ma vivono a Roma. Lavorano tutti e due per l’IBM. Lui è un logico mentre Fabrizia… Logico ?

Gli sfuggiva il senso di molte parole. Ricordava bene le grandi vie, logiche, tracciate su quella montagna nascosta dietro le nubi la logicità e l’illogicità di tante sue decisioni. Ed anche la logica sorprendente della vita degli animali selvaggi. Ma, per quanto si sforzasse, non arrivava a comprendere l’accostamento, così semplice per Marco, fra un logico e l’IBM.

Piero Secondo invece, anche egli da Roma, continuava l’amico, voleva trascinare sul Bianco, per pareti estreme, il suo singolare compagno di cordata, Vito, che, a sessantacinque anni compiuti, reduce di Russia, di pleuriti e di 100 altri malanni, per riuscire a seguire Piero ovunque, si era persino fatto crescere, in appendice al minuscolo corpo martoriato, unghie durissime, lunghe centimetri. Che usava come artigli su per le placche strapiombanti o appeso alle corde fisse, o oscillanti nel vuoto. Diceva Piero, che il crepitare e lo schioccare di quelle unghiate, con il variare dell’intensità, segnava magistralmente, come una singolare scala accademica, la gradazione delle difficoltà incontrate. dal silenzio, sulle esili ma familiari cenge, alla mitraglia sotto ai cupi strapiombi. Ripeteva di avere notato più volte, a quei suoni secchi, sconcerto e difese nelle famiglie dei rapaci che nidificano fra le rocce del Gran Sasso, del Garda o del selvaggio Circeo. Lungo il muro del precipizio del Circeo infatti falchi, cormorani, aironi…

Walter fuggì con il pensiero ai ricordi di scuola, a Ulisse e l’incantesimo della maga Circe, e questo lo riportò al legame, altrettanto avventuroso e magico, che correva tra lui stesso ed il Monte Bianco. Provò di nuovo una nostalgia struggente per la compagnia di Walter.

Quel richiamo luminoso, colto la notte precedente, da quale sconosciuto provenisse, non gli apparve ora altro che un appello lanciato dai monti al fondo di quella sua nostalgia.

La notte successiva passò senza lasciare traccia di sogni e, nel mattino luminoso, Walter saliva senza fretta verso il rifugio Charpoua in compagnia di Marco, il più forte e resistente di tutti, sovrastato, come sempre, da uno zaino immenso. Nonostante la loro amicizia pur costellata di lunghi periodi di lontananza, risalisse addirittura all’infanzia, a Walter, quel giorno, capitò, un paio di volte, di chiamare l’amico con il nome di Paolo. Dormirono entrambi nel piccolo rifugio, senza quasi scambiarsi parola. Non per questo i gesti rivelarono particolare tensione, bensì la tranquillità serena, come di una domenica in campagna.

Solo, con gli occhi, un’accurata perlustrazione verso l’alto. Al calare delle ombre, nel cui infittirsi Walter cercava un nuovo segnale luminoso che non gli giunse.

Forse la prospettiva, radicalmente mutata, impediva il contatto che l’altro poteva cercare o avere cercato. Più probabilmente ora quella lampada giaceva, insieme ad altri oggetti, a lato di un affollato marciapiede di Chamonix. Spenta, ma illuminata dal teatro di luci artificiali della sera cittadina.

La Brèche delle Flammes de Pierre a mezzogiorno fu per Walter una tappa di grande emozione, come del resto aveva previsto. Avrebbe lasciato, da quel momento in poi, la vista del familiare rifugio ed insieme ogni contatto con Marco. La lunga calata, nell’ombra, verso la parete sud ovest del Dru, segnava il definitivo ingresso nel mondo di Walter. Senza sapere dove e come sarebbe avvenuto l’incontro. Eppure egli era ben lontano dal desiderare, come gli era accaduto durante l’attesa a Montenvers, la visita di Walter nella quiete della Valle.

Ripensò agli istanti vissuti su quel versante in gioventù, alla corda incastrata e al dito ferito e sanguinante e ancora alla grande sete, così difficile da placare.

Ben presto, anche infastidito dai rifiuti lasciati dalle cordate dell’estate fra le roccette della Brèche, diede inizio alla discesa.

Si sorprese a faticare meno del previsto nel ritrovare confidenza con le complicate manovre sulle corde e a riprendere, con naturalezza, un antico dialogo con l’amico sacco. Il tempo si manteneva sereno.

Lo squillo acuto, a lungo echeggiante, di un rapace invisibile accompagnò le ultime calate, prima dell’attacco vero e proprio del pilastro. Al di sotto di una prima traccia di camino ghiacciato preparò il bivacco.

Notte limpida e silenziosa, trapuntata di vivide stelle magicamente splendenti ai suoi piedi. Alcune luci del villaggio di Montenvers. Come un cielo rovesciato che sembrava proiettarlo in una dimensione cosmica straordinaria, quasi avesse raggiunto, alla base del Dru, una piramide sorgente sul lembo esterno della calotta dell’universo.

Il sonno venne con la memoria di antichi versi…

Sfilarono sagome scure di Tuareg radendo le lame lisciate delle torri dell’Hoggar, rivenuto, nel sogno, ad interpretare un’altra, fra le molte solitudini diversamente cercate negli anni.

Nell’alba gelida il corpo di Walter lottava appiccicato alla spaccatura che percorre il Ramarro. Ma la scalata, pur intrapresa con slancio gli rese subito la sconfitta.

L’illusoria sensazione di forma atletica, ritrovata il giorno prima, era già svanita.

Lottare per raggiungere l’incastro di un arto e per sollevarsi liberandolo, per recuperare il pesante sacco che si incastra a sua volta e ridiscendere per liberarlo e venirne poi di nuovo strappato in basso, in un panico di caduta continuo. Tutto questo duro lavoro lo sfiniva, superate solo poche decine di metri. Non vi era dubbio. Salire il Dru per incontrare Walter era certo un appuntamento dell’anima, ambito da lungo tempo, tuttavia irraggiungibile dalle attuali forze del corpo.

Questa evidenza gli si rivelò con disarmante chiarezza, mentre ansimava, immobilizzato sotto a una strozzatura del camino, vitrea di ghiaccio concrezionato in pendenti stalattiti.

Inutilmente contorto nell’opposizione dei ramponi, che appena graffiavano la roccia vetrata, Walter tentò a più riprese di martellare un chiodo nella fessura, rompendo il ghiaccio in scaglie minute mulinanti nel grande vuoto della parete.

Eppure esitava ancora ad ammettere di essere già bloccato, appena all’inizio delle grandi difficoltà. Ma il dolore insopportabile ai polpacci ed il tremito insorgente alle caviglie non lasciavano alternative.

Abbandonò appeso alla vita il martello ed in equilibrio sempre più precario issò faticosamente a sé lo zaino, dal quale riuscì ad estrarre la piccozza, che insinuò con forza, davanti a sé, nell’imbuto ghiacciato. Parve entrarvi solidamente, così che Walter vi aggancio un moschettone, passandovi veloce la corda, per poi bloccarla, molto vicino al nodo dell’imbragatura. A quell’ancoraggio si abbandonò allora, con tutto il peso del corpo, e rimase inerte, penzolando nel vuoto sotto lo strapiombo.

Trascorsero alcuni minuti, durante i quali, al tremore per la fatica, subentrò quello prodotto dal gelo insopportabile nelle membra, a causa della posizione costretta ed inerte.

Cercò di riguadagnare i bordi lucidi della fessura, ma i ramponi arrivavano solo a scalfire il ghiaccio. Eppure, nel colpirlo di punta, accanitamente finirono con l’intaccarne il manto, che a un certo punto si rigò in lastre, scricchiolando. Ancora un tentativo e la crosta si ruppe, scomparendo nel precipizio. Adesso tutto il rivestimento gelato del passaggio era in pericolo, anche la parte che faceva da appoggio al becco della piccozza, sulla quale gravava tutto il peso di Walter.

Era dunque quella la fine preparata negli anni per la sua vita?

Doveva ormai sciogliere la corda dal nodo sicuro, bloccante sul moschettone, per tentare di salire in ogni modo, prima di andarsene giù insieme alla piccozza che ora lo assicurava.

Con tremito e fatica sempre più grandi, liberò il nodo e pensò di issarsi almeno un poco con la sola forza delle braccia, dal momento che i piedi annaspavano inutilmente nel vuoto.

Con l’aiuto dei denti, riuscì a sfilarsi i guanti, che precipitarono, roteando in mezzo alle gambe. Poi, con la punta delle dita, tastando l’uscita sopra lo strapiombo, trovò un piccolo rilievo, probabilmente di ghiaccio vivo, e, a destra, come un esile scanalatura, adatta appena a ricevere i polpastrelli di una mano.

Walter, con il respiro in pieno affanno, spostò il corpo in fuori, ondeggiando, e raccolte le ultime forze, si appese a quei minuscoli appigli, mentre la piccozza si assestava sinistramente nel ghiaccio sotto di lui. Si sollevò ancora con tenacia, sfruttando anche il semplice attrito degli abiti sulle pareti dello strapiombo, sino a poter vedere con certezza, davanti a sé, la fessurina per i polpastrelli terminare, dopo pochi centimetri, in una nuova placca ovale, del tutto liscia e sfuggente.

Solo con un ferreo bloccaggio sulla mano contratta intorno al pomello di ghiaccio, ed una successiva aerea estensione, molto più in alto, avrebbe forse potuto raggiungere un buco nel granito, dall’aspetto di possibile salvezza. Ma questa successione di movimenti non gli era più consentita dagli anni trascorsi, dal torpore delle membra e dalla determinazione venuta meno. Quasi ridendo di sé si lasciò scivolare piano nell’imbuto sottostante, rimanendo sospeso per pochi attimi ancora, agli appigli sfuggenti.

Fu in quel momento che Walter, dall’alto della grande scaglia sotto le Placche Rosse, srotolò una guizzante corda da 80 m, chiusa da una solida asola, che volò a contatto di Walter, stremato e già rassegnato all’abbandono degli appigli da parte delle dita.

Mentre la destra scivolava dalla fessura, la sinistra, appena in tempo, afferrava al volo il capo della corda sopra l’asola. Un’ultima acrobazia nel vuoto e la mano libera agganciava un solido anello di fettuccia tra la vita e l’occhiello dell’asola stessa. Poi venne il rilassamento completo degli arti ed il capogiro.

Walter recuperava la corda con infaticabile energia, sì che Walter poteva salire, quasi elegante, sfruttando il teso ancoraggio che restituiva alle sue energie esattamente quella porzione rubatagli dall’età.

Walter! Vieni! Vengo! Walter, attento al pendolo! Walter recupera!

Di Walter udiva solo la voce perentoria che gli impartiva i comandi essenziali alla cordata. Ma, con quella corda da ottanta metri davanti, non riusciva a vederne la figura, perché a lui veniva sempre ordinata la sosta, ogni lunghezza non superiore ai quaranta metri. Dove una volta giunto, secondo le disposizioni ricevute dall’alto, si assicurava al chiodo o al cordino lasciato o a quello spuntone sicuro: e già Walter, lassù, ripartiva, senza che mai egli potesse provvedere in tempo ad una qualunque assicurazione per il suo capo cordata. .

La salita procedeva a velocità strabiliante. La geografia della parete scorreva di lunghezza in lunghezza, sotto ai suoi occhi, come un filmato dell’impresa compiuta allora. Sotto un sole sfolgorante, nel grembo di una nicchia, Walter chiese ed ottenne di potersi finalmente liberare dei ramponi, per seguire ancor più leggero le evoluzioni fantastiche di Walter. Walter girava grandi sporgenze, lasciando spezzoni di corda o fettucce su chiodi solidi, per garantire il passaggio successivo al compagno. Pareva disporre di una riserva inesauribile di materiale, ché a Walter aveva ordinato di non recuperare mai nulla. Walter correva sulle Placche Rosse e Walter lo seguiva veloce, quasi trascinato di peso in quella folle corsa.

Walter si sposta sul tetto, lo aggira a destra, poi supera le scaglie taglienti che fuggono verso sinistra. Walter dietro, con gli occhi socchiusi per il riverbero, scrutare dove si trovi la sagoma di Walter. Walter senza tregua recita solo gli ordini dell’arrampicata, come gridasse una preghiera. Sali! Ecco! Salgo!

Walter attende, a cavalcioni dello sperone, guarda la corda che si svolge davanti ai suoi occhi, rapida come una biscia delle paludi. Walter prova ora a trattenerla, con delicatezza prima, poi con più forza, ma si brucia le palme per l’attrito.

È calata la notte e Walter continua, forzando strapiombi, traversate, placche e fessure. Dove queste si richiudono a trappola, passa all’esterno, sul nulla, sollevando poi di peso il compagno verso di sé, non avendo potuto lasciare, sulla roccia monolitica, aiuto o segno alcuno della via seguita.

Ora Walter può vedere, a tratti riflessi di luce elettrica alti nella parete, distanti giusto una corda sopra di lui. Ripensa alla stella nel Ramarro che gli apparve a Montenvers. Walter! Aspetta!

Ma la corda corre verso l’alto, come sovvertendo ogni legge di gravità, accarezza già il diedro obliquo verso sinistra. Vieni!

La roccia oppone gli ultimi strapiombi. Walter! Vieni!

Quasi di improvviso la pendenza e le difficoltà si addolciscono ed è ed la vetta del Dru. Walter! Sali!

Walter sale, ora pervaso d’ansia, gli sembra di non toccare più nemmeno gli appigli, tale è la forza che lo trascina verso l’alto.

Quando un soffio più forte di vento lo investe, Walter esce sulla vetta. Walter lo attende e di fronte a lui posa finalmente la corda sulle rocce in un intrico di anelli. Walter! – Walter!

Marco aveva acceso il fuoco nel camino della sua casa di Montenvers e, come ogni sera, usciva sulla soglia a respirare l’aria secca, spinta a valle dai monti. Da quanti anni non si allontanava più dalla folta cerchia degli abeti. Accavallò le gambe sulla panca che era servita alle contemplazioni notturne di tanti amici. Un tempo piombavano, bussando forte, a qualunque ora o in qualunque stagione, alla sua porta.

Nella sagoma nera del Dru una cordata affrontava un gelido bivacco, proprio sulla cuspide della vetta. Splendevano sino a lui le due torce accese.

Walter usciva dal ristorante con gli amici e tutti, presi dalla sete improvvisa che coglie dopo la cena e le molte parole, si avvicinarono alla statua del Santo che zampilla nella piazzetta alberata. Per ultimo Walter si chinò a bere, con movimenti della persona di lontana memoria infantile. Il pensiero corse poi ai rivoli di scioglimento delle nevi, di cadute piovane o nati da grandine col sole, che gli avevano permesso di placare la sete sofferta sul Dru.

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