Monte Sarmiento, il diario
di Salvatore Panzeri
Componenti della spedizione
Gigi Alippi: anni 50, guida alpina, capo spedizione
Pinuccio Castelnuovo: anni 34, guida alpina, organizzatore e vice
Bruno Pennati: anni 20, alpinista
Lorenzo Mazzoleni: anni 20, alpinista
Franco Baravalle: anni 67, dottore farmacista
Clemente Maffei: anni 62, guida alpina, primo salitore della Cima Est del Monte Sarmiento
Gianmaria Confalonieri: anni 28, dottore chirurgo, alpinista
Luciano Bovina: anni 45, cineoperatore
Andrea Fantozzi: anni 33, cineoperatore
Antonio Aguilar: anni 30, Capitano dell’esercito cileno, esperto di montagna e di radio
19 novembre 1986
Partenza da Linate alle ore 22 con un lieve ritardo. Tanti saluti, tanti abbracci, tanti baci e poi via sull’aereo. Roma; ancora un poco di attesa per essere inghiottiti da quel grosso mostro che è il nostro Jumbo. La forte emozione iniziale va pian piano svanendo sommersa dalla stanchezza e dal sonno. Oramai una grossa tranquillità mi avvolge, non più pensieri, preoccupazioni per i preparativi ma solo la felicità di vedere realizzato un così grosso sogno.
20 novembre 1986
Un continuo girarsi e rigirarsi sullo scomodo sedile dell’aereo; metti e togli le cuffie dello stereo; 50.000 volte avanti e indietro per il corridoio sballottato dalle turbolenze e dai vuoti d’aria. Finalmente l’alba con dei colori fantastici, non si dorme più oramai o perlomeno non si tenta più di dormire. Una colazione super abbondante ed ecco la discesa verso Rio de Janeiro. Clic clac, le cinture, annunci internazionali, casino e finalmente quattro passi in Brasile tra compagnie rumorose sommerse da valige e splendide ragazze brasilere (sono proprio come quelle della pubblicità del caffè). Via di nuovo sulle nuvole, ci siamo oramai abituati ai vari sballottaggi e possiamo occupare il tempo facendo foto, parlando della meta oramai vicina e sentendo per la milionesima volta i dischi dello stereo-sedile. Buenos Aires, nome famoso, città forse fantastica che dobbiamo accontentarci di guardare dall’aeroporto. Relegati nelle sale di attesa salutiamo Mario, Daniele, Marco, Paolo che cambiano rotta per recarsi verso la loro meta. Un saluto caloroso anche a Mirta, una ragazza sballata argentina di origini milanesi che ci ha tenuto compagnia con i suoi racconti di viaggio a me e a Lorenzo. Finalmente l’ultimo decollo per oggi, un volo movimentato sopra le Ande meridionali ed eccoci atterrare a Santiago del Cile alle 14.50). Recuperiamo velocemente i sacconi e tra una risata e una foto a questo mondo strano e così diverso saliamo su due taxi. Clacson, fumo di scarico, colori stupendi, traffico disordinato ci accolgono tra le lunghe e grandi strade cilene. Eccoci all’hotel, forse è solo un sogno ma questa notte abbiamo un letto come a casa. Già a casa… chissà cosa faranno gli amici, le ragazze, le mogli, i genitori… là è già sera oramai. Bellissima città Santiago; gente strana che ti guarda come un animale raro, gente povera con dei lineamenti stupendi, gente diversa da noi che ti colpisce subito l’attenzione. Due passi tra le affollate vie cittadine e poi via di nuovo sullo sgangherato taxi che ci porta allo Stadio Italiano (luogo di ritrovo degli sportivi italiani e sede del CAI). Buono il vino blanco, molto aromatico ma che botta a stomaco vuoto, eppure doveva solo essere un assaggio del famoso Blanco cileno. Lorenzo ed io oramai siamo in viaggio e cosa possiamo fare se non viaggiare, È TROPPO BELLO. Sto scrivendo questo il mattino dopo con la mente annebbiata dal fumo e dall’alcool ma qualche ricordo della cena di ieri sera mi è rimasto; carne in abbondanza, vino a sazietà e musica, musica, musica. Una musica che ti entra, ti avvolge, ti prende, ti fa volare.
21 novembre 1986
Sveglia prestissimo e come sonnambuli ci si dirige verso l’aeroporto. Sbrigate le ultime cose ci s imbarca e finalmente alle otto si parte. Bellissima accoglienza delle hostess, tutte belle e bone. I soliti mega pranzi a base di cibi strani, quattro chiacchere e finalmente la discesa verso Punta Arenas, la nostra meta tanto sognata e tanto attesa. E? tutto grande quaggiù e nello stesso tempo è tutto piccolo, si sente l’influenza dell’America. Su di una grossa macchina, guidata dal figlio del console italiano, raggiungiamo la nostra prossima dimora; una bella casetta vicino al mare solo per noi. Ci vengono mostrati i vari edifici importanti della città come il comune, lo stadio, l’università, la zona franca, i bordelli… Salutiamo gli amici che hanno trovato gli indirizzi e le strade giuste per la loro destinazione ed ora siamo veramente soli…soli nella nostra accogliente dimora, soli davanti al mare, l’oceano, lo stretto di Magellano. Soli con i nostri progetti, soli con i nostri sogni, soli con i nostri occhi che scrutano il mare alla ricerca della nostra montagna. Invitati dal console italiano ci rechiamo al ristorante del Circolo Italiano per cenare in compagnia.
22 novembre 1986
Con la lingua ancora incollata dai francobolli delle 1.700 cartoline bollate passo una giornata non molto allegra, rovinata, forse da un po’ di fastidi alla pancia che mi sono venuti in questi giorni. Nemmeno una visita turistica in mezzo alla gente della zona franca mi tira su di morale così che, sconsolato, torno a casa sotto la pioggia. Sembra che la giornata sia finita e che solo una bella dormita ci aspetta, invece arrivano tre ragazzi cileni appassionati di andinismo che, strappandoci dalla noia, ci portano a mangiare la famosa “centoia”(granchio molto grande) e le gustose cozze oceaniche. Naturalmente il tutto è annaffiato dal buon Blanco cileno. Risate, discorsi e la conoscenza di due australiani che stanno facendo il giro dell’America del Sud ci fanno concludere felicemente la giornata.
23 novembre 1986
Giornata piovosa e fredda che ci porta sulle coste dello stretto di Magellano per fotografare, filmare e rincorrere i famosi pinguini. Chissà cosa penseranno vedendo degli strani esseri come noi che, armati di giacche rosse, cineprese e cavalletti invadiamo la loro spiaggia tra le alghe depositate dalle maree? Sono sicuramente molto incuriositi da tutto ciò ma anche molto impauriti. Scappano con salti stupendi tra le onde solcando il mare verso l’orizzonte per poi tornare timidamente verso la loro spiaggia. Rincorrendo ed ammirando questi fantastici animali passa anche questa giornata ma in noi resta la grande voglia di imbarcarci per raggiungere il Sarmiento. La giornata si conclude con Ettore e quattro graziose fanciulle in una discoteca (Gli Stregoni) dove balliamo al ritmo esotico delle musiche cilene.
24 novembre 1986
Sono le 12 quando con Bruno esco dalla porta dopo aver timbrato 1.700 cartoline della spedizione. Stravolti ci sediamo ai tavoli del caffè Garogha per mangiare qualcosa. Ancora un poco di lavoro ci aspetta, nell’officina di Ettore mettiamo a punto una rudimentale stufa ricavandola da un fusto di metallo di 200 litri. Ci procuriamo anche una griglia e un manico per l’accetta; mi sembra più l’allestimento di una fattoria che di una spedizione alpinistica. Finalmente finisce anche questa giornata, della nave si sa ancora poco e ciò ci innervosisce molto. Un piatto di spaghetti alla carbonara in un ristorante napoletano, da Don Peppino. Non ci facciamo mancare il Blanco e dei piatti di pesce poi scorrazzare con la jeep lungo le vie della città.
25 novembre 1986
Preparativi, attese, la noia che ci assale, nervosismo e da cornice i progetti, le parole inutili, i discorsi campati in aria. La serata la passiamo in casa in tranquillità dopo aver avuto la notizia che al Sarmiento ci porterà una grossa nave militare. Le ultime lettere, un po’ di emozione e buona notte.
26-27 novembre 1986
Lunga attesa, oramai è tutto pronto, si deve solo caricare il materiale sulla nave. L’attesa è resa ancor più angosciante dalla pioggia insistente. Alle 16,30 giunge l’ora di imbarcare tutto il materiale e alle 19 saliamo anche noi sulla grigia affusolata nave cilena per salpare. Il mare è calmissimo ed il viaggio è molto tranquillo, quasi subito in branda e dopo una bella dormita, disturbata solo da qualche rumorino, l’altoparlante annuncia che devono incominciare le operazioni di sbarco. “l’isola è quella” dice il Capitano. Pino, Gigi e Antonio (il capitano cileno) si imbarcano su di un grosso gommone nero; li seguiamo metro per metro con un po’ di invidia e tanta emozione. Confusione, carico, rumore di argani, motori e siamo anche noi su un secondo gommone da sbarco diretti verso l’isola. Mi sembra di essere un Marines al suo primo sbarco. Non è ancora mezzogiorno che il campo base è pronto; il tempo e la buona sorte sembrano essere dalla nostra parte; sistemiamo tutte le cose e prima di sera perlustriamo la spiaggia e la foresta che ci porterà alle pendici del Sarmiento. Gira e rigira tra spine, piante e fango troviamo anche i segni del vecchio campo base degli alpinisti di Bardonecchia ed alcune bandierine a segnavia del percorso per superare l’intricata foresta di faggi magellanici.
28 novembre 1986
Sveglia guidata dal Gigi alle 6.30, colazione veloce, divisione dei materiali da portare in alto e… viaaa… la foresta ci procura qualche problema inizialmente poi ingraniamo bene e, spinti dalla voglia di scoprire, di vedere, Lorenzo ed io, senza fare caso allo zaino pesante, scattiamo verso la cresta. Nel giro di poche ore, solo tre, raggiungiamo la piazzola lasciata dalle precedenti spedizioni; scatolette abbandonate, chiodi per tende. Aspettiamo l’arrivo dei grandi capi (Gigi, Pinuccio, Antonio), parlottiamo un poco, esploriamo poco più in alto la cresta rocciosa e ci troviamo una bella piazzola al riparo dal vento dove piazzare la nostra tenda. Stupendo, maestoso, bianchissimo, quasi pauroso ci appare sopra le nuvole il Signor Sarmiento, controlla il nostro lavoro ai suoi piedi. Contatti radio, sistemazione delle tende, poi Lorenzo ed io partiamo verso l’alto per scoprire nuovi orizzonti. Salutiamo i capi che rientrano al base. Perlustriamo la zona del “cubo rifugio” e poi stanchi e bagnati riscendiamo verso il mare dai nostri compagni, soprattutto da Bruno che deve guarire da un taglietto al ginocchio.
29 novembre 1986
La strada per il campo 1 sembra sempre più corta, supercaricato mi sembra di volare verso la tendina rossa, tra paludi e pozze d’acqua. Il tempo oggi non è dei migliori e la nebbia sembra essersi impadronita della montagna. Il resto della ciurma sta girando il film nella foresta; Lorenzo ed io siamo riusciti a strappare il permesso di fuggire per perlustrare la zona del Colle Vittore e del cubo rifugio. La nebbia non molla e a fatica troviamo il corridoio che probabilmente porta al colle. Annaspando nella nebbia, con tanta prudenza per la presenza di cornici e pendii valangosi, proseguiamo ancora un po’ per poi ritornare sui nostri passi lasciando una bandierina segnaletica. Radunata la ciurma facciamo ritorno al mare nelle grosse comode tende militari.
30 novembre 1986
La voglia di salire è immensa, supercaricati Lorenzo ed io partiamo alla volta del campo 1. Il maltempo ci blocca proprio appena arrivati alla tenda…casa dolce casa. Sistemati un po’ alla stretta passiamo una notte un po’ umida ma non poi così brutta.
“Non saper più distinguere la sera dal mattino e trovarmi lassù, sopra il mare, sopra le nuvole, nascosto in un angolino, lassù dove il vento ti sbatte la tenda, ti colpisce le membra… eppure, eppure sono felice di quello che sto vivendo. Non saper più se i tuoi sogni sono con te o sopra di te, sopra le nuvole e cercare di rincorrerli immergendosi sempre più nel fantastico tepore del sacco piuma. Dopo tutto ci deve essere il mondo, il tuo mondo in fondo a quel sacco, i tuoi giorni vissuti, le tue avventure raccontate, i tuoi amori lontani e talvolta passati. Non sapere più cosa fare, dormire o forse partire, ma preferirei ritornare… ma dai… dobbiamo andare”. Ed invece eccomi ancora qua a scrivere e a sognare, a dormire per raccontare, a parlare per fare passare questo dannato maltempo. Non so forse più niente di questi attimi che pian piano diventano ore per trasformarsi in giorni, non so distinguere, non so dove sognare, non so cosa fare… Ma… si blocca il vento, la pioggia cessa, il silenzio ferma la tenda, sento bussare, sono i miei sogni e con loro c’è la vita, l’amore, la felicità. Basta poco per scoprire se stessi ed i propri pensieri anche in un angolino nella tempesta, un foglio, una biro per imprimerli ed una pazza voglia di vivere per imprimerli.
01 dicembre 1986
Il maltempo ci tiene chiusi nel tremendo ma piacevole caldo umido della tendina sino alle 11. Un’improvvisa schiarita ci apre gli occhi, questa piccola inattività dovuta al maltempo non ci ha per niente innervosito, in quattro e quattrotto siamo pronti per la nostra esplorazione al Colle Vittore. Comunicati radio, zaino pieno, imbragatura, corda, racchette e via verso il corridoio che avevamo scoperto la volta precedente. Un paio di viaggi e sistemiamo la tenda al riparo dal forte vento riempendola di viveri e materiali. Al ritorno verso il Campo 1 segnaliamo il tracciato con delle bandierine (scopriremo poi la loro fragilità contro il forte vento di queste zone). Per oggi possiamo ritenerci soddisfatti. Entra l’ultimo piede nella tendina del Campo 1 e fuori scoppia l’inferno. Un attimo di confusione all’interno della tenda e poi… i sogni, i racconti, le cose belle.
“Ci hanno detto che andavamo nel regno del vento ma nessuno ci ha raccontato che qui non esiste il tempo, che qui non esiste nessuno tranne il Lorenzo e la forza del sentimento. Il vento sembra strapparti anche i sogni, devi lottare per tenerti stretta la realtà. Ti giri un attimo ed eccolo qua ma non distrarti che da un momento all’altro ti frega di là! Una lotta tra la natura regnante ed il sentimento sfidante, battaglie che durano ore e ore procurandoti la fastidiosa insonnia, piccole tregue dove ricerchi nel sonno i pochi sogni rimasti dentro questa piccola oasi che è la tendina. L’orologio non può più segnare il tempo e si limita ad intercalare la voce degli amici, quel piccolo suono di voci diverse che arriva allegramente alle orecchie, un po’ distorto ma sempre ben accolto. Guardi l’amico che dorme accanto a te e scopri le sue espressioni, le sue angosce, i suoi sogni. E? una nullità rispetto a sua maestà il vento ma è una c osa vitale all’interno della tenda. Si sveglia un attimo, dice due frasi insensate che ti sembrano poesie e poi ricade girandosi dall’altra parte. E’ tutto così strano qui, la realtà arriva fino in fondo, quello che ti tieni dentro non fa altro che zavorrarti il sentimento. Non ricordo chi ci ha detto che andavamo nel regno del vento, so solo che sono contento di lottare contro di esso… così si che la vita ha un nesso”.
02 dicembre 1986
Il maltempo continua a bloccare tutti i nostri progetti. Quando riusciremo ad alzarci sopra queste nuvole? Basterebbero due mezze giornate di bel tempo. Dal basso non arriva nessun tipo di appoggio, ci incazziamo un po’ ma non serve, è meglio non innervosirsi, c’è già il tempo che non è dalla nostra. Attendiamo un poco che il Sarmiento abbia pietà di noi ma niente… bastardo scendiamo in 1 ora al campo base, è bello trovare l’accoglienza degli amici, un bel piatto di pasta… ma è ancor più bello poter restare in piedi al riparo, non mi sembra vero ma lassù non esistono dei posti così comodi, nemmeno il più grosso masso ti offre riparo. Le solite faccende da campo base ci occupano il resto della giornata.
03-04 dicembre 1986
Siamo impazienti, vogliamo salire di nuovo, un po’ di discussioni sul da farsi, qualche polemica e nelle prime ore del pomeriggio raggiungiamo di nuovo il Campo 1 con tutta la compagnia. Super caricati ci leghiamo ed attraverso il ghiacciaio ed il colle raggiungiamo la tendina del Campo 2. Il tempo, che sembrava migliorare, ritorna ad essere brutto, non ce la prendiamo più oramai e decidiamo di pernottare quassù. Salutiamo Bruno, Gianmaria e Antonio che scendono al mare. Nella tremenda bufera piantiamo una tendina 3 posti e poi dentro veloci. Il Sarmiento non si concede proprio, ogni volta che avanziamo e piantiamo nelle sue pareti una piccola spada si rivolta come una belva inferocita. La notte passa alla bella e meglio e la mattina la segue. Il tempo non cambia. Sono stanco di starmene sdraiato nella tenda, esco nella bufera e provo a chiamare per radio il campo base. Ad uno ad uno escono tutti e scaviamo una truna nella grossa duna davanti alle tende e bagnati fradici scendiamo verso il Campo1. Lorenzo ed io proviamo per la prima volta la forza del vento della Terra del Fuoco, è tremendo, non si vede nulla con gli occhi tempestati e frustati dalle raffiche, la corda viene spinta su tutta la sua lunghezza e tira sull’imbragatura, la cresta è ghiacciatissima. Una controllata alla tenda piegata dal vento e poi giù verso il campo base. Il Campo base è subito raggiunto… ma…ma è cambiato qualcosa, chi ha spostato tutto? I pirati? No no è stato il mare grosso, terribile dicono gli amici che hanno dovuto lavorare tutta la notte per salvare le tende e i viveri dalla furia del mare. Sebbene sono tutti stanchi l’accoglienza non manca e questo ci riempie di gioia e ci fa dimenticare il freddo e l’umidità che sono arrivati alle ossa. Le previsioni dicono mare grosso anche stanotte, speriamo in bene.
05 dicembre 1986
E? forse da considerarsi una spedizione alpinistica questa? Sono forse alpinisti in missione extraeuropea 11 persone isolate su di un’isola? Che passano le loro giornate a lottare contro la pioggia insistente, contro il mare grosso e invadente, contro la noia e lo stress dominante? Non capisco cosa ci tenga ancora qui, non so quale potere elimini il nervosismo e ci tenga ancora uniti senza discordie, sarà forse il Sarmiento? Viviamo o vegetiamo su questa spiaggia di sassi, su questa playa dove speravamo di trovare il nostro posto di paradiso, dove doveva abbondare il pesce ed il bel tempo? Quante domande ci stiamo ponendo in questa giornata dannatamente brutta, ma abbiamo proprio tanto da fare che solo i pochi momenti di relax sembrano eterni, ed è in questi momenti che letteralmente, tra angosce e bei sogni, non ci passa più. E’ in uno di questi momenti che, nonostante il vento gelido, Lorenzo ed io troviamo la voglia di lavarci completamente nelle gelide acque del torrente che scende dai ghiacciai. Una sana doccia rassodante si direbbe ma dopo ci troviamo con le mani blu semi congelate. Si prevede mare grosso anche stanotte e subito scattano i preparativi, sacconi pronti, costruzione di un frangionde davanti alla tenda cucina e poco manca che si decidono i turni di guardia. Beh, buonanotte ed i pensieri volano in Italia con i nostri amici che saranno in giro a fare baldoria per le osterie di Lecco.
06 dicembre 1986
Giornata di festa nel Campo base, Pinuccio festeggia l’anniversario di 10 anni di matrimonio. Purtroppo la festa inizia prestissimo con un mare preoccupante e le nostre facce ancor di più. Tutto finisce alla meglio e si cerca di dormire un po’ nelle oramai bagnate tende. Lo stress mi invade, non riesco più nemmeno a scrivere, ascolto solo distratto le parole degli amici che giocano a carte. Non so proprio più cosa fare ma ci credo ancora in questa spedizione, credo ancora negli amici vicini ed a questa avventura, credo ancora in me stesso. Si parla e si discute in queste ore di impaziente attesa, si gioca a scala quaranta, si mangiucchia qua e là di nascosto dal capo che a sua volta si da fare a sgranocchiare qualcosa, naturalmente lo scherzo è alla base di tutto ciò. La tenda cucina si trasforma, in queste lunghe giornate, in sala da gioco, in osteria, in bar, in centro di ritrovo per le svariate discussioni ed in mille altri tipi di locali. Ultimamente è nato un rito serale, Lorenzo ed io e con la partecipazione del Pisco esordiamo in favolose cantate di qualsiasi tipo e genere.
07 dicembre 1986
“Buona domenica passata in tenda ad aspettare tanto la pioggia non cessa più”.
Ed invece oggi la pioggia ha cessato di rompere ed una leggera brezza ci concede di asciugare tante cose oramai destinate ad essere eternamente umide e bagnate. Una piccola sul bel tempo in arrivo, qualche raggio di sole ma… ma ecco dal lontano Pacifico serpeggiare tra i canali ed i fiordi delle grosse nubi nere. Ricominciamo così le solite faccende giornaliere al campo con qualche variazione; la foto in primo piano di tutti i componenti e la preparazione di favolosi gnocchi che sono risultati favolosi ed ottimi pensando al luogo dove sono stati prepararti.
08 dicembre 1986
Cosa si può desiderare di più dalla vita che alzarsi alle 10 del mattino sentendo la pioggia incessante sul telo della tenda? Ci vuole una montagna di ottimismo e di volontà solo per scrivere queste cose. Per non buttare le nostre morbose voglie nella più nera e profonda angoscia con Lorenzo decidiamo di uscire, coperti da una svolazzante mantellina, per salire al campo 1 dove smontiamo la tendina, oramai non più utilizzata. La discesa al campo base è altrettanto veloce ed il piatto di riso che ci aspetta viene divorato ancor più velocemente. Le giornate sono sempre più monotone distratte solo da sprazzi di gioia comune.
09 dicembre 1986
Il persistente battito delle gocce d’acqua sul telo delle nostre tende è sparito; come i lampi dei fulmini; grandi chiarori invadono il tenebroso e umido clima delle tende, un leggero vento sballotta qua e là i cordini di ancoraggio ed il rumore del mare, con le sue onde che si infrangono sui sassi a pochi metri da noi, da l’impressione di essere in mezzo all’Oceano su di una barca. E’ bello ascoltare questi suoni, guardare questi riflessi, notare queste sensazioni dopo una notte come le altre, dopo ore e ore passate a schivare le chiazze d’acqua che si sono formate sul pavimento; a sfuggire dai sogni e dai pensieri troppo belli per essere messi da parte; a seguire il ticchettio dell’acqua e del grosso orologio a molla che fanno da accompagnamento; è bello starsene tranquilli nel sacco a pelo!!! Il campo base si è trasformato in uno stendibiancheria dove vestiti di ogni tipo svolazzano ad intermittenza sferzati dal forte e dolce vento magellanico. Sempre di essere in una fattoria dove ogni persona prende la sua strada iniziando un lavoro per poco dopo trovarsi a fare altro. Basta poco per rendere felici undici persone, solo un poco di vento. Con l’arrivo della sera compaiono i progetti di salita, i piani di attacco, c’è chi prepara lo zaino, chi modifica le ghette.
10 dicembre 1986
Sono 21 giorni che siamo in giro, sembrano pochi ma gli amici e le amiche mi mancano come se fosse un anno. Squilla come una tromba la sveglia, sono le cinque, l’ora X, il momento di partire, ma… non vedi che piove cretino, resta a dormire!!! Si cerca di tirare un ora più tarda, tra un sogno, un’angoscia ed un po’ di paranoia passano così altre 4 ore fino ad arrivare all’ora della colazione. Solitamente nascono discorsi interessanti davanti alla colazione, stamattina il punto è cercare di capire il fallimento della spedizione del 1972 del CAI di Bardonecchia in rapporto alle mosse fatte da loro con un campo base super fornito ed un cubo rifugio al Colle Vittore. E’ un problema difficile reso ancor più insolubile dal cambiamento e dalla diversità di mentalità e di mezzi tecnici che si è verificato in 14 anni. Alla fine del discorso il Capo conferma i n ostri pensieri: “con due giorni di bel tempo arriviamo in cima e scendiamo”. Questo ci rende molto felici ma dura poco; la voglia di salire fuoriesce a tutta birra sentendo queste parole e l’impossibilità di muoverci ci abbatte, non resta che appuntare queste cose su questo diario.
11 dicembre 1986
Ci sembrava impossibile trovare degli animali in questo mondo così strano al di fuori delle anatre e delle oche che ogni tanto ci fanno visita. Eppure la foresta fatta di piante immerse in paludi e da rovi è la tana di un gruppo di tre volpi che puntualmente ci fanno visita. Molto grosse, come dei cani, saccheggiano ogni notte la nostra dispensa di cibi in scatola creando solo tanta confusione essendo lo scatolame troppo duro per i loro denti. Come dei cacciatori, muniti solo di macchine fotografiche, ci mimetizziamo tra i teli delle tende per ammirare questi animali. Tra l’altro oggi sembra ci sia bel tempo ma non lo urliamo troppo, cinque di noi partono per il colle Vittore; Lorenzo ed io preferiamo attendere domani mattina tanto oramai in un paio di ore raggiungiamo il campo alto. Continuiamo così le nostre mansioni al campo base osservando Antonio che, dopo aver preparato l’impasto, sta facendo cuocere delle michette.
“Assorto a guardare i riflessi del mare sapendo che laggiù c’è qualcuno ad aspettare… Scoprire nelle onde i battiti del cuore per sentire dal vento la parola amore… Distrarsi per un attimo a guardare un gabbiano per non sentirsi poi così lontano ed attendere il sole ed i suoi caldi raggi per non essere solo in questi paraggi. Il mare appare come vestito di uno strano grigiore e le onde, delle strisce di diverso colore e lassù, lassù c’è solo il sole, il sole che scende, si alza per poi andare, andare lontano lasciando il chiarore che rende trasparente anche il più bel colore. Sentirsi poi avvolto da uno strano tremore, alzarsi e correre alla ricerca del sole ma scoprire che per oggi la giornata è finita e assopirsi pian piano con la fronte tra le dita. Destarsi poco dopo con in testa un rumore più forte del mare più bello del sole, un rumore mosso da labbra che si sentono sole, un rumore che solo nel tuo cuore può significare amore. Riassopirsi di nuovo con la testa tra le dita sognando il mare, il sole, l’amore, le onde e capire che è proprio troppo bella la vita” (impressioni stando seduto sulla spiaggia in un pomeriggio di quasi bel tempo).
12 dicembre 1986
Chissà chi ci dà la forza e la volontà di preparare lo zaino ogni volta che una piccola schiarita ci apre gli occhi verso l’alto? Chissà cosa vediamo nel cambiamento del tempo che ci rialza da quello stato di torpore in cui cadiamo quasi giornalmente? Chissà cosa sarà a farci tornare indietro dopo poche ore, ogni volta delusi ma prontissimi a ricominciare? Una mattinata eccezionale, un cielo mai visto, la luce del sole che si rispecchia sui ghiacciai circostanti, una calma quasi paradisiaca, il mare solcato da una foca giocherellona che, incuriosita, ci osserva tra un tuffo e l’altro. Sono solo le cinque ma è tutto così fantastico oggi, nulla ci può fermare. Con lo zaino pieno di felicità corriamo lungo il sentiero della foresta, saltiamo tra un fiumiciattolo e l’altro inseguiti da improvvise nubi nere. Ma nulla ci può fermare e, avvolti nelle uccellesche mantelline colorate continuiamo imperterriti su per la cresta, sferzati da un altrettanto improvviso vento. Dobbiamo trovarci in mezzo per essere sicuri, dobbiamo sbattere il naso nella tempesta per capire che la nostra corsa felice si concluderà presto. Una visita agli amici su al campo, i vari collegamenti radio, la pulizia della oramai sommersa truna, lo smantellamento di una tenda rovinata dal vento, qualche parola a quelli che si fermano e poi giù verso valle tra folate di vento impossibile e tempesta di ghiaccio asfissiante ed accecante.
13 dicembre 1986
Abitudinarietà delle cose, questa è la rovina; persino il tempo ci si mette e a intervalli regolari si presenta sotto il suo aspetto da noi più conosciuto, la pioggia ed il vento. Talvolta persino tirare sera diventa un problema ed i modi per passare la giornata sono talmente ricercati che oramai è tutto esplorato. Comunque siamo solo a metà avventura e non ci disperiamo poi così tanto anche se sotto sotto non vediamo l’ora di farci sta montagna per lasciare questa dannatissima playa. E finalmente cala la sera, il tempo continua il suo lavoro e, giocando a carte, attendiamo la visita del nostro amico zorro (volpe). Puntuale ed attendo, come al solito, arriva a ripulire le nostre immondizie, è fantastico, deve avere una paura tremenda ma una fame enorme. Le foto vengono scattate senza economia e la volpe, forse un po’ meno impaurita, si avvicina tranquilla alle tende sgranocchiando i resi del cibo. Buona notte amica volpe, ci vediamo domani.
14 dicembre 1986
Ho deciso di prendere lezioni di cucina da Lorenzo, visto che di tempo ne abbiamo, e così puntualmente mi avvicino al reparto fornelli apprendendo con gioia tutti i vari trucchi della cucina. (Lorenzo è cuoco diplomato). Giornata normalissima dopo tutto con un piccolo intervallo dedicato alla cottura di favolosi panini; poi è arrivata la volpe, è calata la sera e tutti a nanna tra un’imprecazione ed una scoreggia. Mi sembra di essere in una comunità primitiva; doveva essere bella la vita a quei tempi anche se resa dura da tanti fattori. L’importante, e me lo ripeto tutte le volte che mi sento giù, è non prendersela e sperare nel futuro creandoselo, magari, a proprio piacere. Chi più sogna meglio sta, altro che tenere la testa per terra e non tra le nuvole (me lo diceva sempre la cara prof di italiano).
15 dicembre 1986
Compleanno di Lorenzo. Anche le speranze del bel tempo svaniscono nel nulla. Il battito melodico delle gocce sulla tenda ci preannuncia una giornata abituale, potrebbe essere Natale o Pasqua o chissà quale altra giornata che non ci farebbe caso nessuno. Cerco di riassopirmi nel tepore del sacco a pelo ma è diventata monotonia anche questo. Oggi il programma della giornata prevede la finzione della festa di Natale per il film che stanno girando i due operatori. La polenta è pronta, i piatti in tavola, la tazza del vino gira di mano in mano, il panettone è tagliato, lo spumante stappato e la cinepresa gira, gira, gira… ma non c’è nulla di emozionante in tutto ciò, non siamo degli attori ed i nostri sogni sono tutti sulla cima del Sarmiento che vogliamo raggiungere. Un piccolo sguardo alle espressioni degli amici e diventa monotonia anche questa bella cosa e mi passa la voglia di scrivere.
16 dicembre 1986
Ci aspetta forse un’altra giornata di merda? Stupende schiarite libidinose si alternano a forti piovaschi, è un attimo preparare gli zaini tra una corsa e l’altra per portare fuori la roba bagnata ad asciugare. E? tutto così strano stamattina, siamo tutti in subbuglio, segniamo proprio gli andamenti del tempo, siamo pazzi come lui. Le foto di gruppo, le ultime cose di dovere con i cameramen che domani partono per l’Italia portandosi sino a Punta Arenas anche il Capitano Antonio; e poi via verso il Campo 1. Lo zaino è leggerissimo, oramai è tutto a destinazione, sentiamo girare parole del tipo: “sono i giorni buoni”. In circa due ore e mezza, in mezzo ad un mare di neve ed a un tempo pessimo, raggiungiamo le tende, le sistemiamo dalla neve che ogni volta le copre, riaccompagniamo Antonio, che scende, sino alla cresta e poi di corsa ritorniamo al campo. Sembriamo dei cavalli da corsa drogati dal Enervit. Nelle tende ci troviamo benissimo, sembrano delle piccole villette comode avvolte da un mondo tutto strano, quasi innaturale. E’ bello trovarsi in posti del genere ed apprezzare cose così semplici che spesso lasciamo passare senza accorgersene.
17 dicembre 1986
Attesa, pazienza, ogni minuto due occhi sbirciano fuori dalla tendina per vedere le condizioni meteo. Finalmente verso le nove e mezza diventa tutto più chiaro, non vediamo il sole ma la luce ci acceca e le montagne intorno a noi acquistano diversi profili di straordinaria bellezza. Il colle Nord è davanti a noi, che sia veramente il giorno? A passi da gigante affrontiamo l’altissima neve puntando dritti verso il colle, sembra tutto cosi facile, il progetto è di posizionare la tenda il più in alto possibile, ritornare, caricarsi del materiale necessario alla salita, ripartire e passare la notte nella tenda del forse Campo2. Ed invece, ed invece ecco la nebbia, puntuale, fittissima, infernale. Perdiamo tutto quello che vedevamo, quello che pensavamo, quello che progettavamo. Proseguire ancora un po’ non è difficile ma è inutile, ed ecco un’altra ritirata, un’altra spina ha trafitto il Sarmiento ed un’altra volta vortici di maltempo sono usciti dalla sua bocca rabbiosa il ritorno al campo 1 non è problematico, ci eravamo premuniti di piantare delle bandierine sul percorso tra i seracchi ed i crepacci nascosti. Un’ altra notte coi aspetta, ci sentiamo a nostro agio nonostante tutto.
18 dicembre 1986
Niente da fare, il maltempo persiste, la temperatura è aumentata e piove anche al campo 1, una veloce colazione, un’occhiata all’altimetro e si scende. Non scendiamo arrabbiati o delusi però sappiamo che la pazienza è oramai l’unica arma contro questa montagna. Con un contatto radio avvisiamo del nostro arrivo al Campo Base e poi giù di corsa. Il nostro arrivo è accolto con piacere dagli amici rimasti. Si erano preoccupati molto perché non avevamo avuto contatti radio ma ora è tutto sistemato. Che mostro questa montagna, ci ha illuso, ci ha respinto ed ora si schiera in prima fila facendosi ammirare dalla spiaggia. Il sole ci esalta, il caldo ci gasa e siamo già pronti per ripartire. Preferiamo però attendere.
Una lingua di ghiaccio che precipita in mare, illuminata dal sole, mossa dal vento, sconvolta dal sale, ed io, solo, qua su un grosso sasso ad ammirare per sognare. Lontano, lontano il ronzio dei motori di una grossa nave, che brilla, cambia colore e poi scompare dietro quell’angolo di terra tagliato dal mare. Dai cieli lontani grosse nubi si ammassano, si spingono per poi sormontare le più alte vette e ivi sostare ad ammirare la bellezza di queste terre, di questi ghiacci e notare che laggiù, in fondo in fondo, proprio vicino al mare ci sono otto piccoli nani che lavorano, si muovono e alzano talvolta al cielo le loro piccole mani gridando parole confuse e imprecando anche contro la più piccola nube. La nuvoletta è timida, non parla ma talvolta si fa capire su tutto quello che ha da dire; una folata di vento fa allontanare il sole e si sente la nube da lassù gridare: “Oh, Dio Mare, che fa un essere tale, abituato al più svariato benessere, sulle tue sponde e dimmi, dimmi perché talvolta guarda verso il cielo, venendo in mia ricerca, aggrottando la fronte?” la voce del mare è profonda come le sue acque, le sue labbra sputano parole che si propagano come onde per infrangersi sulle sue sponde, la risposta è raccolta dai sassi, innalzata dal vento, ascoltata dai faggi, sospinta dalle tempeste fino a migliaia di metri sopra le nostre teste per raggiungere così la nuvoletta ferma ancora ad ammirare il caro vecchio mare. La risposta reale non si sa se la saputa dare, la nube ha smesso di gridare, una folata di vento riaccompagna il sole che timidamente era stato ad aspettare e laggiù, laggiù in fondo, vicino al mare ci sono ancora quegli otto ragazzi che, appollaiati sopra i sassi, si guardano tra loro dicendo tra una risata e l’altra “siamo proprio matti”.
Deve averci proprio stregato questa montagna, sono solo sei ore che siamo rientrati al Campo Base e sentiamo già il bisogno di partire. Zaino in spalla, vestiti appena appena asciutti e via sotto un sole stupendo. Anche i faggi e la foresta hanno cambiato aspetto, è tutto più allegro, è tutto tranquillo. In sole due ore raggiungiamo il Campo uno, solo qualche nube che gira intorno alla montagna rompe la monotonia e l’eleganza di questo cielo azzurro. Fermarci a dormire stanotte sarebbe come bloccare tutte le nostre idee, i nostri progetti. Chiediamo consigli al capo e la risposta è una pugnalata al cuore. Avvolto da una grande stranezza, con Lorenzo corriamo verso il ghiacciaio, per arrivare ad ammirare gli ultimi chiarori infrangersi sui nevai, per veder i nostri sogni scappare con il sole, laggiù dopo l’orizzonte, forse non li vedremo più. Non abbiamo nemmeno discusso della scelta e non conosco il perché.
19 dicembre 1986
Due occhi guardano fuori dalla fenditura della tendina, sono le due di notte. Una voce rompe il silenzio del ghiacciaio, una colazione veloce, il rito della vestizione e siamo tutti fuori in piedi con gli occhi fissi al cielo pere veder i movimenti delle nubi. Non è bello come ieri il tempo ma ci proviamo lo stesso. Noi tre giovani ci sentiamo come dei birilli buttati qua e la dalle bocce, ci hanno fermato i sogni e non abbiamo detto niente ed ora ci disfano le affiatate cordate, non reagiamo, aspettiamo e basta, in silenzio ma… ma in noi c’è ancora qualcosa che crede nei sogni ed è questo che ci muove, che ci da la sveglia. Tore con Gigi, Lorenzo con Giamma, Bruno con Pinuccio… il passo è così rallentato, oserei dire che la velocità è dimezzata; cerco di tirare la corda ma mi arrivano solo imprecazioni, ma insisto e proseguo. Scompare la luna dietro le nubi, arriva la nebbia, i crepacci più grossi ci ostruiscono il passaggio, la visibilità è praticamente nulla ma la forza che c’è in noi è rimasta e passo dopo passo raggiungiamo il Colle Nord, segue subito la rampa d’accesso al grand plateau, non siamo mai stati in questi luoghi. La neve è dura, solo a tratti cede sotto il nostro peso ma… ma dove siamo? Dov’è la montagna? La parete sarà qua sopra? Troppi interrogativi ci fanno girare a zonzo su questo ghiacciaio, aspettiamo e giriamo, aspettiamo e giriamo ma la nebbia non ha pietà. Nemmeno il ritorno è semplice, anche il vento ci si mette spostandoci le bandierine ma finalmente, più in basso, la strada si riapre e scendiamo con molta rabbia in corpo.
20 dicembre 1986
Continua a nevicare, anche uscire dalla tenda è un problema, siamo tutti delusi, non ci sono speranze per oggi. Usciamo “truccati” per girare un po’ di film mentre si spala la neve dalla truna e mentre si piccozzano e ramponano i seracchi sovrastanti le tende. Una sistemata al Campo uno poi giù di corsa verso il campo base. Le solite mansioni fino a dopo cena e finalmente il collegamento radio con Sandra (CB OCIO PAPA ECO LIMA). Sentiamo le voci di Antonio e del caro Ettore, è tutto così bello, quelle voci ci rallegrano e poi c’è la notizia dell’arrivo di alcune lettere.
21 dicembre 1986
Una tremenda calma sembra avvolgere il mare ed il vento in questi giorni, c’è solo la pioggia che si fa sentire sui teli delle tende, è tutto così strano ed è più strano ancora sentire la vicinanza del Natale, pensando all’atmosfera che ci sarà a casa, nel primo giorno di estate di questo emisfero. C’è chi ancora spera nel regalo di Natale più bello della vita, la cima del Monte Sarmiento ma le probabilità di un miglioramento del tempo sono scarse. La giornata passa leggendo libri e giocando a carte. Poi lo zio Bara (Baravalle) esce con una trovata: esplorare la spiaggia a Nord oltre il torrente Schiapparelli. In un attimo siamo sulle sue sponde e, con dei tronchi, prepariamo un ponte molto precario e pericoloso che ci permette di attraversare il torrente con le sue acque tortuose e spumeggianti. Raggiungiamo così questa spiaggia inesplorata e, sentendoci esploratori la battezziamo Spiaggia Bara.
22 dicembre 1986
Sentiamo l’avvicinarsi del Natale, una vicinanza che non colpisce solo i nostri cuori, una vicinanza che ci spinge a provare, a tentare di sfondare quel grosso muro di nebbia che puntualmente il Sarmiento interpone tra noi ed i suoi piedi. Il tempo promette bene e allora via, con lo zainetto leggero, a passi da gigante verso il campo uno, chissà che stanotte sia quella giusta. “Ti mettiamo come regalo, sotto l’albero di Natale, la vetta del Sarmiento” urliamo a Clem (Clemente Maffei).
23 dicembre 1986
“Aver paura di sbagliare per non poter poi raccontare ma continuare a sperare ed imparare così ad aspettare. Lunghe ore con gli occhi sospesi verso il cielo, verso il telo della tenda a rimuginare i pensieri di questa strana esistenza. E poi, e poi un occhio al barometro e di corsa sul colle come per soddisfare le nostre voglie, ma niente, niente di niente ci attende lassù, dobbiamo solo aver pazienza, solo sperare in una piccola clemenza. Di nuovo in tenda, solo o con l’amico a battere di nuovo il vetro del barometro con il dito, stregati, assetati di tutto ciò che ci circonda ad attendere un’altra onda che ci strappi, ci svolazzio, che ci pigli dai nostri sbadigli. Navigare per ore in un mare di lucente nebbia ricercando il pendio e sperando in Dio ma niente si muove, nessuno ci vuole, a malapena i suoi piedi possiamo calpestare che subito il fantasma delira, si fa prendere dall’ira riversandoci addosso tempeste di stelle ghiacciate da nessuno mai ammirate. Ritorno deluso ma nessuno ha vinto, sono ancora troppo ottuso, ce la faremo, lo scoveremo e lo vinceremo quel dannato fantasma, quella grossa montagna che non c’è”.
Persiste il maltempo a Campo 1 ma il barometro continua a salire, chissà se è la volta buona, siamo decisi oramai, aspettare non è più un problema.
24 dicembre 1986
Ore 20 – Sarmiento, un grosso e fantastico regalo di Natale
Emozioni, gioia, pianti, grida, contatti radio, soddisfazione si alternano per tutta giornata e la notte mentre si svolgono tutte le operazioni di salita e di discesa dalla parete. Raggiungiamo la vetta in cinque: Pinuccio, Tore, Bruno, Lorenzo e Gianmaria. Dopo un intera giornata di lotta, di vagabondare nella nebbia, di sprofondare nell’altissima neve, dopo quasi un mese di sacrifici m, ora è tutto finito, ce l’abbiamo fatta.
L’avventura ha inizio alle sei del mattino, attrezzati per la salita con a carico una tendina e qualche cosa per un eventuale bivacco, ci alziamo veloci verso il Colle Nord, sembra una giornata normale ma c’è qualcosa di strano nell’aria. In circa due ore guadagniamo gli ultimi pendii della grande rampa ed entriamo nel bacino del Gran Plateau. Fitte nebbie si alternano a schiarite dandoci il modo di studiarci a grandi linee il tracciato di salita. Incominciamo le ricerche dell’attrezzatura lasciata sul Plateau la scorsa volta ma non troviamo nulla, solo neve alta lavorata dal vento, solo figure strane impresse come sculture sul manto nevoso. Passa un ora e non si può più aspettare, con la radio chiamiamo Pinuccio e Gianmaria, che stanno salendo, per portare i chiodoni ed il corpo morto rimasti al campo uno. Ci dirigiamo verso la parete ma nel frattempo la nebbia ci ha avvolto, mi sembrava di aver bene impresso nella mente il punto di attacco, là dove la crepaccia terminale è più chiusa. Dopo un ora nella nebbia tutto diventa uguale e tutto è diverso, tutto è colorato e tutto è in bianco e nero. Tra un contatto radio e l’altro girovaghiamo lungo la grossa crepa terminale senza deciderci a salire, sarebbe troppo rischioso salire alla cieca lungo quel labirinto di seracchi, di funghi di ghiaccio, sopra quel manto di neve inconsistente. Per ben 4 ore pestiamo neve sprofondando fino alla vita, per ben 4 ore cerchiamo di non perdere troppa energia, per ben 4 ore cerchiamo di non perdere la pazienza, per ben 4 ore ci chiudiamo in noi stessi per essere d’aiuto ai compagni. Un contatto radio ci porta gli auguri da parte del Sindaco di Lecco e soprattutto la fantastica notizia che i ragazzi della Poincenot sono arrivati in cima. Uno sguardo tra noi, nessun urlo, solo un urlo interiore, una vampata di energia ed ecco che, come per magia, la nebbia si dirada, il sole splende e laggiù in fondo al Plateau vediamo Pinuccio e Giamma che stanno salendo. Come cavalli imbizzarriti davanti al fuoco ci lanciamo aprendo una vera e propria trincea nella neve, superiamo la crepaccia terminale ed in circa un ora superiamo il ripido pendio che conduce al colle Bara (pendenza 55°) passando tra un seracco e l’altro. Lasciamo il colle sulla sinistra e continuiamo sulla parete, ora di ghiaccio, uscendo sulla cresta che conduce alla cima Ovest, la nostra meta. Lorenzo e Bruno mi seguono a ruota, solo la corda ci tiene uniti, nessuna parola ci scambiamo, siamo solo carichi di energia. Proseguo sulla facile cresta ed ecco il grosso fungo, l’ostacolo fin ora mai superato, la nostra ultima battaglia. Intanto che aspettiamo Pinuccio e Giamma con i chiodoni cerchiamo di individuare un tracciato di salita. Sono solo 20 metri ma molto strapiombanti e la neve, la neve è un millimetro di ghiaccio all’esterno ed una polvere all’interno. Salire con gli attrezzi questo muro è come cercare di salire su un sacco di farina. Sulla destra, quasi in piena parete Nord, c’è una fessura che probabilmente si può salire in opposizione. Decidiamo di provare e senza tante parole mi trovo solo attaccato a questo ammasso di neve inconsistente con due piccozze, tre chiodoni e la corda che mi collega ai miei compagni. Ho forse superato me stesso nel superare quest’ultimo ostacolo ma in realtà, a voce degli amici, sono stato un mago ed il lavoro da me fatto è stato più che ottimo ma come si sa si pensa sempre che al mio posto altri avrebbero fatto lo stesso. Un ora e mezzo ho passato in quel buco-fessura cantando, gridando e pensando a qualche migliaio di cose e persone e poi finalmente la cima, li a pochi passi dall’uscita del grande fungo. Non ho parole, sento in me la felicità di tutti, sento le grida degli amici, sento la radio gridare, piangere ed emozionarsi, sento il drago, il mostro, la montagna splendente sotto i miei piedi e tutto è calmo, non c’è vento, la nebbia è svanita, abbiamo vinto. La corda fissa è subito pronta ed a uno a uno mi raggiungono tutti, è troppo bello. Pochi passi e la cima è nostra, il mondo è nostro, l’orizzonte è nostro ma noi siamo della montagna.
Abbiamo ancora una lunga discesa da affrontare e tra poco farà buio, veloci sbrighiamo le formalità della vetta, scattando foto, girando film, mostrando i gagliardetti e poi giù con la prima doppia sul fungo strapiombante. D’ora in poi dobbiamo dimenticare l’euforia della vetta e prestare attenzione, la parete no è per niente semplice e dobbiamo cercare di mantenerci sulle tracce di salita. Essere in 5 a dover scendere in doppia è già lento, se poi le doppie si devono preparare con mezzi di fortuna per scarsità di chiodi, ci vuole ancora più tempo e attenzione. Utilizziamo racchette da sci, il corpo morto, due chiodoni da neve fino in fondo al crepaccia terminale ma… ma siamo sicuri di essere in fondo? Procedo in discesa pian piano assicurato dall’alto, il pendio si fa di nuovo ripido, il buio e la nebbia ingannano le distanze ma ecco che una striscia molto scura si presenta davanti a me, è la crepaccia che cercavo. Prepariamo un ancoraggio utilizzando la piccozza del Giamma e con i due spezzoni di corda che abbiamo tagliato dall’ultima doppia irrecuperabile e finalmente siamo nella neve del gran Plateau sotto un cielo stellato brillante come il ghiaccio che ci circonda. Ritroviamo le nostre tracce che ci conducono al campo uno. La stanchezza esplode in noi e ci prepariamo litri e litri d’acqua per placare la sete. La cresta, i prati, i boschi non finiscono mai e nemmeno il breve tratto di spiaggia prima del campo base. Possiamo ora vedere di persona l’emozione del Clem, del Gigi e del Franco, possiamo ora bere litri di tutto ciò che ci si para davanti, possiamo abbandonarci ai piaceri della dispensa, possiamo dire che è veramente finita.
25 dicembre 1986
Sono le quattro del pomeriggio quando, finalmente riposato, mi alzo con le ossa tutte rotte e mi trascino nella tenda cucina per mangiare. Passa così anche questo felicissimo Natale tra grosse bevute, grosse mangiate e grosse spalmate di crema sulla faccia bruciata dal gelo. Pensiamo sia finita l’avventura ma ogni giorno che segue ci offre nuove emozioni e nuovi divertimenti. Ci arriva anche la notizia bellissima da Marco Ballerini della loro salita alla Torre del Paine.
29 dicembre 1986
Imbarco sulla nave militare Rancagua alle ore 19 dopo un duro lavoro di carico delle attrezzature. Addio Playa Bardonecchia, ciao volpi, un ultimo sguardo e di corsa sotto coperta. Ancora uno sguardo fuori e già è tutto cambiato, il mare è sempre lo stesso, i canali sono tutti uguali ma oramai siamo noi che ci stiamo pian piano ritrasformando nei soliti esseri che eravamo.
Ciao Sarmiento!