Cordillera Blanca
(cime tropicali e spazi ignoti)
Dall’oceano alle alte quote in poche centinaia di chilometri, tra l’equatore e i tropici. È questo il segreto dei drappeggi montuosi che ricamano la Cordillera Blanca. Cime che da una quebrada all’altra si rincorrono in una concentrazione di montagne seconda solo ai massicci himalayani. Con la loro bellezza un po’ eterea, i terreni di salita su ghiaccio e misto, gli spazi d’avventura sulle grandi pareti, difficili e repulsive, le basse difficoltà, l’escursionismo esplorativo. Nel tempo ancora misurato di un suggestivo Perù.
Storia
di Stefano Ardito (con la collaborazione di Erik Švab)
1903
L’inglese Reginald Enock si avventurò in compagnia di alcuni indios fino al Passo Villòn sopra Huaraz e l’anno successivo tentò la salita del Huascarán, fermandosi a quota 5100 metri sul versante sud-ovest.


1908
L’americana Annie Smith Peck, con le guide svizzere Peter Taugwalder e Gabriel Zumtaugwald, sale il Huascarán Nord: è la nascita dell’alpinismo sulla Cordillera Blanca.
1932
Tra giugno e settembre, una spedizione del Döav diretta da Philip Borchers, e alla quale partecipano Erwin Schneider, Erwin Hein, Hermann Hoerlin, Wilhelm Bernard, Bernard Lukas e Hans Kinzl, compie le prime salite del Huascarán Sud 6768 m, dell’Artesonraju, del Huandoy Nord, del Chopicalqui, del Copa e del Copa Nord. Schneider realizza un’ottima mappa della Cordillera Blanca.
1936
Erwin Schneider torna sulla Cordillera Blanca insieme ad Arnold Awerzger per salire il Quitaraju e il Champarà, poi si sposta nella Cordillera de Huayhuash dove sale varie cime e realizza un’altra carta.

1939
II team austriaco di Walter Brecht, Siegfried Rohrer, Karl Schmid e Hans Schweizer prosegue la conquista dei Seimila della Cordillera salendo il Contrahierbas, il Hualcán, il Toqllaraju, il Palcaraju, il Ranrapalca e il Chinchey.
1948
Gli svizzeri Frédy Marmillod, Bernard Lauterburg, Rüdi Schmid e Fritz Sigrist rompono l’egemonia austro-tedesca salendo il Santa Cruz, il Pucaranra e la vetta orientale del Cashàn.
1951
Il team franco-belga di Jacques Jongen, Georges Kogan, Raymond Leininger (che l’anno dopo arriverà a 8570 metri sull’Everest) e Maurice Lenoir sale la vetta settentrionale dell’Alpamayo e il Nevado Pisco, la cima che ha preso il nome dalla bevanda alcolica con cui i primi salitori hanno brindato alla sua salita.
1962
La guida francese Lionel Terray, con i clienti olandesi Tom de Booy e Cees Egeler, conquista le cime Nord 6113 m e principale 6395 m del Huantsán. Viene salito il Huandoy Est nello stesso giorno per due diversi itinerari ad opera di Will Siri e Allen Steck (parete nord) e Peter Hoessly e Fletcher Hoyt (cresta nord).
1954
L’americano Leigh Ortenburger compie la prima delle sue 10 spedizioni in Cordillera. Insieme a Richard Irvin e W. Graham Mathews raggiunge il Huandoy Ovest.
1955
Vengono saliti i Pucajircas Nord II e III da un’equipe nordamericana. I tedeschi Hermann Huber e Alfred Koch salgono per la prima volta il Caraz II.
1956
La seconda spedizione di Lionel Terray, ora con i connazionali Maurice Davaille, Claude Gaudin, Raymond Jenny, Maurice Martin, Robert Sennelier e Pierre Sauriac, compie le prime del Chacraraju Oeste e del Taulliraju: quest’ultima è l’ascensione più difficile realizzata finora.
1957
La spedizione tedesca di Günter Hauser, Bernhard Huhn, Frieder Knauss e Horst Wiedmann sale la vetta principale dell’Alpamayo e la Piràmide de Garcìlaso.
1958
I torinesi Giuseppe Dionisi, Giuseppe Marchese, Piero Fornelli e Luciano Ghigo salgono il Ranrapalca per il versante nord-est: è la prima vittoria italiana nella Cordillera Blanca.
1959
I tedeschi Rüedi Schatz e Ernst Reiss aprono in un solo giorno una nuova via sul versante nord-ovest del Huandoy Norte: un grande exploit per l’epoca.
1960
Un team bergamasco diretto da Bruno Berlendis compie le prime ascensioni del Nevado Bergamo (o Rinrijirca), del Nevado Giovanni XXIII e di altre cime.

1961
La prima spedizione giapponese nella Cordillera Blanca sale il Pucajirca Nord. Dionisi e i torinesi Giovanni Miglio, Luciano Ghigo, Mildo Fecchio, Giuseppe Marchese, Piero Fornelli, Giorgio Dal Piaz, Giuseppe Garimoldi, Arturo Rampini, Luciano Luria salgono il Pucajirca Central. Un team spagnolo diretto da Josep Manuel Anglada e Jordi Pons percorre la cresta nord-est del Huascarán Sud. La cima vergine dell’Ulta, semisconosciuta ma molto impegnativa, è salita dai tedeschi Kurt Bogner, Günther Kämpfe, Richard Hechtel e Donald Liska.
1962
Terza spedizione di Lionel Terray, stavolta con Louis Dubost, Paul Gendre, Guido Magnone, e Jacques Soubis: cima del Chacraraju Est.
1966
I francesi Robert Paragot, René Jacob, Claude Jaccoux e Dominique Leprince-Ringuet salgono la parete nord del Huascarán Norte.
1969
I tedeschi Bernd Schreckenbach, Hans Saler e Klaus Süssmilch salgono la parete sud-est dell’Artesonraju: un’altra via destinata a diventare classica.



1971
Paul Coradine, Robert Ryan, Robert Schneider e Geoff Wayatt salgono la impressionante e pericolosa parete est del Huascarán Sud.
1973
I francesi Maurice Barrard, Lucien Desrivières, Georges Narbaud e Jean-Jacques Ricouard salgono la parete nord-est del Huascarán Norte. Un team di Gallarate composto da Gigi Alippi, Carmelo Di Pietro, Casimiro Ferrari, Antonio Galmarini, Giovanni Giannantonio, Domingos Giobbi, Luigi Guidali, Alessando Liati e Mario Mazzoleni sale il Huantsán Ovest.
1974
I francesi Gilles de Naurois e Michel Parmentier salgono la parete nord-est del Huandoy Nord e la cresta nord del Huantsán.
1975
La spedizione dei Ragni di Lecco diretta da Casimiro Ferrari, e che comprende Angelo Zoia, Danilo Borgonovo, Pino Negri, Giuseppe Pinuccio Castelnuovo e Alessandro Liati percorre la parete sud-ovest dell’Alpamayo, una delle più eleganti vie di ghiaccio della Cordillera Blanca e di tutte le Ande. Renato Casarotto, Franco Piana e Sergio Martini salgono la cresta nord-est del Huandoy Est.
1976
Tre spedizioni (giapponese, italiana e francese diretta da René Desmaison) tentano la parete sud del Huandoy Sud. Arrivano in vetta per primi i giapponesi K. Kondo, M. Yoshimo e Y. Hayashi, seguiti da Renato Casarotto e Agostino da Polenza che seguono un itinerario più diretto; Desmaison e compagni salgono la parete e poi la cresta sud-ovest, girando anche un film. Seconda salita assoluta (dopo vent’anni) e primo itinerario sul versante sud-ovest del Taulliraju per i giapponesi Saburo Mizobuchi, T. Nagashino e M. Yoda.


1977
È l’anno delle solitarie di Renato Casarotto e Nicolas Jaeger. L’italiano, in 17 giorni, sale la difficile e pericolosa parete nord del Huascarán Nord. Il francese sale il Nevado Santa Cruz e concatena in giornata il Pucaranra, il Palcaraju Sud e la vetta principale del Palcaraju. Importanti anche le prime salite della parete sud del Chacraraju Ovest (John Bouchard e Titoune Meunier) e della cresta est del Ranrapalca (John Bouchard, René Ghilini e Bernard Prudhomme).
1978
Continuano le imprese solitarie di Jaeger, che apre cinque vie nuove (tra queste la prima assoluta dell’Abasraju, una via sulla parete sud-ovest del Taulliraju e la Sud del Chacraraju Est) e poi si accampa per 55 giorni presso la vetta del Huascarán Sud per compiere ricerche di fisiologia.
1979
Lo sloveno Tomo Česen, insieme ai connazionali M. Dolenc, D. Marnile e Z. Trusnovec sale la parete sud-est dell’Alpamayo. Una cordata americana che percorre la parete un mese dopo contesta l’ascensione degli sloveni. Gli austriaci Franz Six e Alois Indrich salgono in stile alpino, in 6 giorni, la parete est del Huascarán Sud.


1980
Una spedizione italiana che comprende Gianni Calcagno, Stefano De Benedetti, Piero Perona, Costantino Piazzo, Ugo Vialardi e Tullio Vidoni apre una via sulla parete sud-ovest del Taulliraju. Lo stesso Calcagno, con M. Carrara, Giuseppe Lafranconi e Cosimo Zappelli, apre una via diretta sulla parete ovest del Toqllaraju.
1981
Una spedizione di Bergamo al Pucajirca Central si conclude in tragedia: una valanga travolge Italo Maj, Livio Piantoni e Giovanni Nani Tagliaferri.
1982
La forte cordata britannica di Mick Fowler e Chris Watts apre una difficile via sulla parete sud ovest del Taulliraju, raggiungendo la vetta il 26 maggio. Gli sloveni Franček Knez e Marjan Freser aprono due nuove vie sulla parete sud del Chacraraju Ovest e sulla parete ovest del Chopicalqui. Sulla stessa montagna i francesi René Desmaison, Alain Vagne, Michel Arizzi conquistano la cresta est. L’italiano Gian Carlo Grassi, con i francesi Bernard Francou e Jean-Michel Cambon, apre una via diretta sullo Ocshapalca.
1983
I gringos Marc Rickey, Chuck Boyd e Neil Pothier salgono la verticale parete est del Cayesh. I catalani José L. Moreno, Carlos Vallés e Juan Tomás aprono una via nuova sulla parete nord del Huascarán Nord.
1985
Gli spagnoli Antonio Gomez Bohorquez e Onofre Garcìa salgono la parete est dell’Esfinge, una vetta rocciosa che offre vari itinerari in stile big wall. Un team di alpiniste ceche e polacche apre una variante alla via Casarotto sul Huascarán Nord: arrivano in cima Blanka Danihelková, Zuzana Hoffmanová, Amalia Kaploniak, Ewa Panejko, Ewa Szcześniak.
1986
Gli sloveni Milan Romih e Danilo Tić, celebri per i loro itinerari ad alto rischio (tra cui la via della roulette russa sulla Sud dell’Aconcagua) aprono due vie sulla Est del Quitaraju e sulla Nord-ovest del Chopicalqui.
1987
Ancora Romih e Tić, con Marjan Freser, aprono una via ancora più pericolosa sulla parete nord del Huandoy Nord.
1991
Lo sloveno Pavle Kozjek apre da solo, in due giorni, una nuova via (VI/3-4, roccia IV/V) sulla parete sud (o di Ancash) del Huascarán Sud. L’australiano Duncan Thomas e il britannico David Sharman aprono una via sulla parete sud del Pucajirca Sud.
1993
Gli sloveni Baštian Ložar, Tomaž Petač e Marian Kovač aprono in 6 giorni una nuova via (Carretera per l’Inferno) sulla parete di Anqosh del Huascarán Sud. I connazionali Pavle Kozjek e Gregor Kresal salgono la parete est del Chacraraju Est (VI/6+, roccia VII/A2), ma non arrivano in vetta a causa del maltempo.



1995
Lo sloveno Pavle Kozjek apre in solitaria una via di misto (Oro del Inca, VI/5, roccia V), sulla parete nord-est del Huandoy Sud. Gli spagnoli Albert Salvador ed E. Kike Ortuño salgono la parete est dell’Esfinge.
1996
Sulla parete ovest del Chacraraju Ovest gli sloveni Dusan Debelak, Viktor Mlinar, Tomaz Zerovnik, Igor Oblak, Alez Nezmah e Joze Cajzek, con il basco Aritza Monastero, aprono la via più difficile (950 metri, ABO con passi di VII+ e A3 e tratti a 95° su ghiaccio) della Cordillera Blanca. Debelak, Mlinar e Zerovnik scendono per una facile rampa rinunciando alla vetta: provocazione o filosofia?
1998
Lo sloveno Pavle Kozjek sale da solo la parete nord-est del Chopicalqui Norte tracciando Mirton Novice Extreme (VI/5, roccia V). Lo spagnolo Darío Rodrìguez-Lòpez sale la vergine parete sud dell’Abasraju. I cechi A. Poultar e V. Stastni compiono la prima ripetizione integrale della via Casarotto. In discesa sono vittime di un incidente, ma vengono soccorsi e trasportati a valle.
2001
Ancora l’habitué sloveno Pavle Kozjek per una veloce solitaria di No siesta hoy dia, VI-/6+/M5-6, sulla parete nord del Huandoy Sur.
2002
Il 3 luglio Stéphane Benoist, Patrice Glairon-Rappaz e Patrick Pessi portano a termine la prima ripetizione della difficilissima via FowleraWatts al Taulliraju, aperta nel 1982.

Prima che svaniscano
(tra la leggerezza irreale dei Nevados e i problemi del fondovalle)
di Linda Cottino
Le agenzie di trekking e alpinismo, le guide andine, l’Operazione Mato Grosso, il soccorso di montagna della Policia nacional, il parco. La realtà in movimento ai piedi della Cordillera Blanca come specchio delle trasformazioni in atto in Perù.



Felix cammina piano davanti a me. Sta albeggiando, e ora che finalmente ci siamo lasciati alle spalle la gigantesca morena, il nostro passo ha trovato un suo ritmo. Siamo a circa 5000 metri, alla sella da cui si sale alla cima del Pisco. Lo scenario è di una bellezza abbagliante. A sinistra i Huandoy, a destra i vertiginosi pendii ghiacciati del Chacraraju. Più in là, verso nord, la Esfinge, e poi ancora l’Alpamayo; dietro, la repulsiva parete nord del Huascaràn Norte, salita ventisei anni fa da Casarotto. E poi il Chopicalqui, la strada che sale a Portachuelo di Llanganuco… Una simile concentrazione di montagne si trova solo in Himalaya, ma il loro aspetto, qui, poco sotto la linea dell’equatore, a qualche centinaio di chilometri dall’Oceano Pacifico, è unico. Più che rilievi montuosi paiono bianchi drappeggi sovrastati da cappelli bizzarri e cavolfiori di ghiaccio, bordati di creste aguzze dall’aspetto impraticabile, quasi strutture effimere che, se porti lo sguardo altrove e poi ritorni, potresti non ritrovare più. Dissolte. Svanite, nella loro immacolata inconsistenza. «Per imparare a sciare veniamo qui», mi dice Felix, con gli occhi che luccicano di contentezza. «Sai, sulla Cordillera impianti non ce n’è, e questo è uno dei nostri luoghi preferiti. Guarda che bel pendio, è perfetto per dei principianti come noi!». Ride. Ha ragione, è bellissimo. E se sapesse delle code, del brulicare affannoso sulle piste delle Alpi, lo gusterebbe ancora di più. Felix Roca, mio compagno in questa salita, è diventato guida, alla scuola di andinismo di Marcarà. Il suo italiano è fluente, e così, ridiscesi al rifugio, racconta di sé, della montagna, della sua vita indirizzata e plasmata dalla formazione ricevuta dal Mato Grosso, l’organizzazione italiana di volontariato portata in Cordillera Blanca nel 1976 dal salesiano valtellinese Ugo De Censi. Parlare di Mato Grosso è come scoperchiare un pentolone ribollente di idee e di opere, di asperità e contraddizioni, di buona novella annunciata alle popolazioni locali, di appoggi politici, ma anche di dissapori. Con il capitalismo d’importazione nordamericana, con alcune gerarchie ecclesiastiche, con parti della società civile impegnate nella faticosa ricerca di un modello di sviluppo per uscire dalla povertà e da un’economia di pura sussistenza. Insomma, una realtà complessa. Difficile da descrivere, impossibile da racchiudere in una definizione. Un gigantesco movimento che negli anni ha coinvolto sempre più numerosi volontari da tutta Italia.
«A 15 anni sono entrato nel laboratorio di falegnameria di padre Ugo, poi sono andato a Lima a studiare pedagogia, e sono ritornato nei laboratori dell’Omg come insegnante», racconta Felix. «In montagna ci andavo da bambino con mio padre, a caccia di caprioli, ma non immaginavo che si potesse trarne di che vivere».


Anche Cesar, il fratello più giovane di Felix, frequenta il corso guida, mentre il maggiore gestisce con la moglie italiana il rifugio Pisco. E se con tanta apparente facilità l’Omg è riuscita a costruire tre rifugi (l’Ishinca, il Perù e il Huascaràn), nel giro di una manciata d’anni e con l’aiuto di un esercito di volontari (si dice che per il Perù, ad esempio, siano stati utilizzati tremila bambini posti lungo il percorso a passarsi l’un l’altro i materiali), le polemiche che questa operazione ha suscitato rischiano di compromettere la costruzione di un quarto rifugio sotto l’Alpamayo. Secondo padre Ugo De Censi dell’Onig i burocrati di Lima ignorano i delicati equilibri economici e sociali della Cordillera, e per la realizzazione del rifugio sotto l’Alpamayo si è detto disposto a manifestare con i suoi ragazzi anche nella capitale peruviana.
«Chi gestisce i rifugi non riceve un vero stipendio, solo quanto è necessario per vivere – continua Felix – tutto il nostro guadagno va nella costruzione di case per chi non ne ha, e da queste parti sono in molti. Le agenzie non vedono di buon occhio la nostra esperienza, perché noi non lavoriamo per il denaro».
Ma facciamo un passo indietro. Camminando per le vie di Huaraz, la capitale dell’andinismo peruviano che è, una sorta di Kathmandu in proporzioni infinitesimali, il fermento è tangibile. Sulla trafficatissima avenida Luzuriaga i clacson gracchiano costantemente in sottofondo, gli internet café (il Perù è la nazione più cablata di tutto il Sudamerica) si alternano alle agenzie di turismo e trekking, ai negozi per la vendita e il noleggio di articoli alpinistici, persino a un centro di arrampicata sportiva.
Bacheche sparse ovunque traboccano di annunci e richieste: “Cerco compagno/a per salire la Canaleta Ferrari all’Alpamayo”, “Sono un’olandese di 32 anni e vorrei scalare il Toqllaraju per la cresta nord-ovest: sono rintracciabile al Pachamama café”, ecc. ecc.
A un primo sguardo il mercato sembra dunque vitale. «La situacion es muy inredada», mi aveva detto Luis Caballero Alvarado, titolare di un’agenzia di trekking di Huaraz, mentre tentavo di recuperare lucidità dopo ventiquattr’ore di intossicazione intestinale. Muy inredada,
molto ingarbugliata. Nel 2001 è nata l’Associazione peruviana degli operatori del turismo di montagna (Apotum) che comprende 9 agenzie e si prefigge di fornire servizi di qualità, e corsi di aggiornamento per gli operatori. «Mentre nel sud del paese le agenzie sono grandi e di lunga esperienza, qui al nord siamo appena agli inizi», afferma Alvarado, anch’egli membro dell’associazione.
«Ma fin ché non si costruirà l’aeroporto, non si potrà creare un circuito turistico con pari dignità di quello storico-archeologico». E con il Parco esiste un rapporto di collaborazione? All’Inrena, l’Istituto delle risorse naturali del ministero dell’agricoltura da cui il Parco dipende, sostengono che il turismo d’avventura crea problemi con la fauna selvatica e che bisogna regolamentarlo. Alvarado si rabbuia:
«L’80% dell’attività escursionistica e alpinistica si svolge entro i suoi confini, tanto che nella bella stagione vi transitano almeno 200 persone la settimana; eppure, nonostante le dichiarazioni, i servizi sono pessimi e non viene esercitato alcun controllo sui flussi turistici. Senza contare i problemi irrisolti con le comunità campesine».
Gli chiedo che cosa pensa dei rifugi dell’Omg, e del gran numero di alpinisti ed escursionisti stranieri che ne usufruiscono. Non c’è dubbio, ho toccato il tasto giusto: «Hanno potuto costruirli solo grazie alla protezione dell’ex presidente Fujimori», esordisce con irruenza. «A loro non sono stati chiesti studi di impatto ambientale come a tutti gli altri». Si capisce che l’attività svolta dall’Omg è fonte di attrito con alcune fasce della popolazione locale.
«Si muovono come ai tempi delle colonie», aggiunge, «fanno lavorare la gente per un vestito e un pasto». Di diverso avviso è Giancarlo Sardini, responsabile della scuola di andinismo “Don Bosco en los Andes” di Marcarà, una delle tante attività del Mato Grosso. «Ci accusano di aver sottratto lavoro ai portatori: è falso. Certo la fisionomia economica sta cambiando, mutano gli equilibri precedenti, ma negli ultimi sette anni il flusso turistico è raddoppiato, e di questo beneficiano un po’ tutti». I sette anni si contano dalla costruzione del primo rifugio, il Perù, sotto il Pisco, nel 1996; poi sono venuti l’Ischinca nel 1998 e il Huascarán nel 2001. «Quel che i privati patiscono», continua Sardini, «è che il ricavato dei rifugi non arricchisce nessuno ma serve alla costruzione di case per i poveri, e questo è contro la logica del profitto».


Alla fine del 2002, dopo un corso triennale, dalla scuola di Marcarà sono uscite le prime guide andine rigorosamente locali. «Sono stati selezionati 21 ragazzi con una semplice prova di ammissione», spiega Sardini. «Durante i tre anni del corso hanno vissuto come pensionanti, ricevendo cioè vitto e alloggio in cambio di aiuto nei lavori dell’Omg. Noi garantiamo la parte teorica (storia dell’andinismo, cartografia e orientamento, medicina di montagna, lingue, ecc.), mentre la Casa delle guide si occupa della parte tecnica e dell’esame finale, certificato UIAA». Nel centro di Huaraz, la Casa delle guide fa bella mostra di sé. Sembra un ritaglio di Svizzera volato ai tropici. Il primo contatto tra Selio Villón, oggi (attenzione, l’articolo è del 2003, NdR) capo delle guide peruviane (oltreché titolare di un negozio di articoli di montagna, di un hotel e di un ristorante), e l’alpinista svizzero Camille Bournissen risale al 1977. «Ero in Francia per uno stage di formazione alberghiera e lì conobbi Bournissen, il quale mi chiese di accompagnarlo in Cordillera Blanca», racconta Villón. «All’epoca qui non esistevano guide, e così sembrò una bella idea raccogliere una trentina di ragazzi di queste regioni e mandarli in Svizzera a fare il corso». Era il 1978. Nel 1980, tra Perù e Confederazione Elvetica venne siglato un accordo di cooperazione internazionale, che ha avuto termine nel 1999 con un bilancio di 88 guide diplomate (il riconoscimento UIAA è arrivato nel 1990), più cucinieri, arrieros e portatori per un totale di 800 persone che sono state formate nel settore del turismo di montagna. «Finito il contratto con la Svizzera», continua Selio Villón «bisognava trovare i soldi per continuare. Ed è a quel punto che si è fatto avanti il Mato Grosso».
Le guide formate in questi anni non lavorano solo in Cordillera Blanca, ma in tutto il Sudamerica e talora anche sulle Alpi e in Himalaya. «Qui c’è lavoro per tre-quattro mesi l’anno, con clienti che arrivano soprattutto da Europa e Stati Uniti. È un’attività che aiuta lo sviluppo dell’intera regione, poiché attorno alle guide nascono altre figure professionali». Anche a lui chiediamo che cosa pensa dei tanto contestati rifugi dell’Omg. «Io credo che abbiano ampliato il tipo di turismo, e questo è un bene; ma è meglio non costruirne altri, perché si rischia di alterare il contatto con il territorio».







Dalle guide al soccorso il passo è breve. Sotto un sole già caldo di metà mattina arriviamo a Yungai, alla Unidad de salvamento alta montagna della Policia nacional. La sbarra è abbassata, una poliziotta ci sorride, si informa sulle nostre identità e ci annuncia al colonnello Luis Garate Otero, il “deus ex machina” del soccorso in Cordillera Blanca. Non era stato informato del nostro arrivo, il colonnello, e si scusa di riceverci in maglietta e pantaloncini corti, «ma stiamo dando una bella ripulita alla base per la visita del primo ministro», precisa. Ci fa accomodare sul divano nel suo ufficio, e subito ci offre biscotti e bibite. «Italiani! Ho seguito un corso in Valle d’Aosta per imparare le tecniche di soccorso». Il colonnello è un entusiasta. In pochi minuti ci snocciola una raffica di dati. Il servizio è nato nel 1998 come distaccamento della Policia nacional; si compone di 32 effettivi (di cui 3 donne, ci tiene a precisare), 5 cani, 3 camionette Land Cruiser, 2 gommoni da rafting e 2 elicotteri. «Questo è il nostro cruccio. L’M17 che usiamo è eccellente, ma non specifico per il soccorso. Il problema è che non abbiamo denaro…», si lamenta Garate. I detrattori del servizio dichiarano che non solo mancano gli elicotteri (oltre i 4800 metri non possono comunque volare), ma che i poliziotti non salgono in quota perché non hanno alcuna formazione alpinistica. Il colonnello non si perde d’animo e ribatte: «Certo, siamo ancora come bambini che gattonano, ma un servizio di soccorso sulle montagne peruviane doveva pur esserci! E noi siamo tutti della zona, gente che sa muoversi su questi terreni. Guardate questa lettera, è dell’ambasciata spagnola che ci ringrazia per aver salvato 4 loro alpinisti». E se un italiano dovesse aver bisogno di soccorso? «Al momento non esistono accordi con le istituzioni alpinistiche del vostro paese», precisa Garate. Quindi, al costo medio di 2500 $ l’ora per il volo, si devono sommare eventuali costi a terra per i medicinali, l’ambulanza, ecc. «Sì, ma i soldi sono l’ultima cosa a cui pensiamo», ribatte pronto il nostro interlocutore, «prima si salva la vita, al pagamento si penserà in seguito».
Georg Kaser
(il glaciologo dei Tropici)
di Luca Mercalli
Georg Kaser insegna all’Istituto di geografia dell’Università di Innsbruck (http://geowww.uibk.ac.at/research/), ed è uno dei massimi esperti di ghiacciai tropicali. Recentemente ha pubblicato con la Cambridge University Press, insieme con Henry Osmaston, Tropical glaciers, un volume tecnico ma comprensibile anche a chi non è specialista del settore. Lo studioso traccia qui un quadro affidabile e aggiornato sui ghiacciai della Cordillera Blanca.


Professor Kaser, può tracciare un breve quadro dei ghiacciai della Cordillera Blanca?
«Sulla Cordillera Blanca ci sono circa 620 km2 di ghiacciai, un quarto dell’area di tutti i ghiacciai tropicali del mondo. La linea di equilibrio oscilla attorno ai 5000 metri, un po’ più in basso sull’umido versante est, un po’ più in alto su quello occidentale arido. Rispetto al passato, i ghiacciai attuali si sono ritirati a più alta quota sui versanti assolati e appaiono come lingue di ghiaccio bianco, senza detriti. Solo pochi ghiacciai raggiungono il fondovalle, come il Kinzl e lo Schneider, i due più grandi della regione, nel massiccio del Huascarán. Le sfavorevoli condizioni degli ultimi decenni hanno tuttavia separato le fronti dai loro bacini di alimentazione, trasformandole in corpi di ghiaccio morto coperto di detriti».
C’è una storia della glaciologia per questi ghiacciai andini o le prime ricerche sono di questi anni?
«I primi cenni sui ghiacciai della Cordillera Blanca risalgono ai conquistadores. Un monaco spagnolo ci ha lasciato uno straordinario documento, nel quale si descrive una valanga di ghiaccio staccatasi dal Nevado Huandoy il 6 gennaio 1725, causando 1500 vittime e la distruzione della città di Ancash. I primi scienziati esploratori, compreso l’italiano Antonio Raimondi, non mostrarono invece particolare interesse per le cime glaciali. Bisogna attendere le spedizioni scientifiche del Club alpino tedesco e austriaco negli anni ’30 perché i ghiacciai della Cordillera vengano considerati seriamente. Hans Kinzl, geografo di Innsbruck, coordinò la compilazione delle prime carte topografiche della zona, ancora oggi tra le migliori disponibili. Lo stesso Club alpino austriaco continua la tradizione e nel 2000 ha pubblicato il foglio Cordillera Blanca Norte. Alcides Ames ha onorato il professor Kinzl insieme al geofisico Erwin Schneider, dedicando a loro i due maggiori ghiacciai della regione. Nel 1950, seguendo i consigli di Kinzl, fu costituita a Huaraz la Comision de Control de las Lagunas de la Cordillera Blanca, al fine di studiare i pericolosi laghi glaciali che si andavano formando tra gli anni ’30 e ’40 in seguito al rapido ritiro dei ghiacciai. Nonostante le incertezze politiche, gli scarsi finanziamenti, e il terremoto che nel 1970 distrusse la sede e molti dati raccolti, l’istituto, oggi Unidad de Glaciares y Recursos Hidricos, ha continuato la sua attività contribuendo alla prevenzione dei rischi glaciali e alla conoscenza scientifica. Sono dei partner insostituibili per il nostro lavoro, che noi portiamo avanti qui nella Cordillera fin dal 1988, e al quale si sono affiancati oggi altri ricercatori francesi e americani. Nel 1990 l’americano Lonnie G. Thompson ha estratto dal Passo di Garganta, a 6000 metri, tra i Huascaràn Norte e Sur la prima carota di ghiaccio tropicale».
Qual è il comportamento dei ghiacciai della Cordillerà Blanca?
«Negli ultimi 150 anni, i ghiacciai della Cordillera Blanca hanno seguito il trend della temperatura globale. Durante la Piccola età glaciale (1400-1850) sono avanzati costruendo enormi morene, poi si sono ritirati nella seconda metà dell’800. Attorno al 1920 sono nuovamente avanzati, subendo una nuova pesante riduzione negli anni ’30 e ’40. Stazionari fino agli anni ’70, hanno poi ripreso la loro ritirata. Dopo l’intenso Niño del 1997-98, le condizioni climatiche sono tornate più favorevoli per i ghiacciai ma non per il nostro lavoro: dall’ottobre 1998 all’aprile 2000 le lingue glaciali sono state quasi sempre coperte di neve. Ma la risposta positiva non si è fatta attendere: il Glaciar Vallunaraju è avanzato di circa 100 metri tra maggio 2000 e maggio 2001, per citare un esempio, e la produzione di valanghe di ghiaccio dal Glaciar Rurichinchey si è incrementata. Per ora non abbiamo altri dati sull’attuale tendenza».


Una battuta sul riscaldamento globale: qual è la sua impressione al riguardo e quale potrebbe essere fra un secolo lo scenario dei ghiacciai della Cordillera?
L’incremento di gas serra in atmosfera e la maggior energia disponibile oltre a causare un aumento di temperatura, influisce sulla dinamica degli oceani, sui sistemi biologici e sull’evaporazione dell’acqua in un complesso meccanismo interconnesso. L’aumento termico provocherà senza dubbio un ulteriore ritiro dei ghiacciai della Cordillera aggravando la carenza d’acqua nel Rio Santa durante la stagione secca. Inoltre, il consumo idrico negli ultimi anni è aumentato per il passaggio da un’economia tradizionale a basso impatto ambientale a una moderna, più vorace in termini di risorse naturali. Il cambiamento dell’economia e il ritiro dei ghiacciai si incontrano in una sfortunata combinazione che acuisce i conflitti sociali. Le nostre ricerche tentano di prevenire i problemi e gestire meglio l’acqua disponibile».
Ha passato qualche brutto momento durante le sue ricerche in Perù?
«Purtroppo sì. Nel corso di una campagna di rilevamenti al Glaciar Vallunaraju nel novembre 2001, un’enorme frana di ghiaccio e roccia cadde dalla cima del Nevado Vallunaraju sul ghiacciaio sottostante. La valanga asportò circa 10 milioni di tonnellate di ghiaccio che precipitarono in un lago. La conseguente ondata d’acqua investì in pieno il nostro campo base. Era l’una e trenta di notte e io stavo leggendo, quando udii un rombo profondo, diverso dalle usuali piccole valanghe, e che andava aumentando. Riuscii a dare l’allarme ai tre colleghi peruviani e a una studentessa di Innsbruck. Corremmo fuori dalle tende ma la ragazza non fece in tempo e fu inghiottita dall’ondata. Circa 100 metri più a valle, rimasta impigliata in una tenda, si fermò contro un masso, appena sul ciglio di una cascata. Dopo circa mezz’ora riuscimmo a salvarla dall’acqua gelida. Quasi privi di indumenti, fradici e senza ripari, passammo il resto della notte sottozero a quota 4600. Il mattino dopo trasportammo a turno in spalla la studentessa ferita: sette ore di marcia fino al fondovalle. Quasi tutto il nostro equipaggiamento alpinistico e scientifico, così come i dati andarono persi».

Yungay 1970
(la grande valanga del Huascarán)
di Valerio Bertoglio e Nicola Corigliano


Il professor Epifanio Guzman Bonilla, residente nel Barrio de Acabamba nella zona nord orientale della città, era al tiro a segno. Alle 2.30 la moglie gli mandò un biglietto che lo invitava a rientrare a casa. Raggiunta la propria abitazione si mise a leggere il giornale, ma improvvisamente si ricordò che doveva ritornare in paese per alcune questioni scolastiche.
S’incamminò verso la Plaza des Armas. Aveva percorso circa tre isolati quando fu raggiunto dal sisma. Il boato fu assordante, il terreno ondeggiava e non si riusciva a stare in piedi. «Le tegole volavano, le case si squarciarono e le strette vie si riempirono di macerie. Ovunque erano grida di terrore, tutti invocavano Dio, le campane della chiesa suonavano. Immediata fu la consapevolezza di un evento sovrannaturale di fronte al quale è spontaneo inginocchiarsi». Erano le 3.23. D’improvviso la paura per lo scampato pericolo lasciò spazio a un’angoscia superiore: «No se caerà el Huascarán? Nos va a tumbar». Un gigantesco seracco sospeso poco sotto la cima del Huascarán Nord si era staccato e stava precipitando a valle.
Epifanio corse verso casa, immerso nella fittissima nube di polvere che rendeva l’aria irrespirabile, scavalcando macerie e tralicci caduti. Fuori dalla casa malconcia trovò la sua famiglia, il nonno aveva in spalla la figlia, lui si caricò il figlio. Si guardarono e cominciarono a correre all’impazzata verso qualunque posto che non fosse quello! Percorsero circa due isolati e arrivarono a un grande eucalipto, infine si voltarono. «Un solco gigantesco, come un colossale aratro aveva squartato la città». Non era alluvionata, semplicemente non c’era più. La colossale ondata di ghiaccio, fango e detriti originata dal crollo del seracco aveva raggiunto prima la zona orientale della città, poi si era estesa al centro dove investì la chiesa e la Plaza des Armas con le sue due file di palme ben allineate. Il paesaggio era apocalittico. Il pullman delle 3.30 non partì mai… Appena effettuato l’imbarco dei passeggeri era tornato nella Plaza des Armas per le ultime formalità. Lì lo raggiunse la valanga e lo trascinò per un isolato schiantandolo contro una casa a due piani. Le lamiere accartocciate sono tuttora in mezzo alla piana alluvionale che ricopre la vecchia cittadina. La signora Maria Luisa Vergara stava scappando con la figlia, ma impacciata dall’età e dal peso supplicò la figlia: «Dejame hija, tu salvate». Dopo pochi passi la figlia cadde e si voltò. Poco distante la valanga si era fermata, ma di sua madre non vi era traccia, così come di tutto il resto. “Yungay hermosura”, come veniva chiamata la città, era sommersa da ghiaccio, rocce, detriti e fango. Tra i sopravvissuti vi furono coloro che si trovavano sulla collina del cimitero e quelli che erano riusciti a raggiungerla, nonché le persone che si erano recate allo spettacolo del circo nella zona nord della cittadina. Anche quattordici alpinisti cecoslovacchi che si erano accampati sul percorso dell’imprevedibile valanga furono spazzati via. Non era mai accaduto che una spedizione fosse interamente travolta. La valanga raggiunse e sbarrò il Rio Santa che scorre sul fondo della vallata giungendo alla base dell’antistante Cordillera Negra. La velocità di avanzamento raggiunse punte di oltre 400 km/h. Un fattore che, insieme al volume, permise alla valanga di scavalcare i grandi ostacoli topografici includendo la collina di Llanganuco e Yungay. La sua velocità era dovuta principalmente alla combinazione dell’inclinazione del salto di oltre 3700 metri, di cui i primi 800 verticali, e i 16 km del suo percorso. Vennero spostati circa 25 milioni di metri cubi di roccia e ghiaccio.
La valanga fu innescata da un movimento sismico che interessò la parte centro occidentale del Perù. Domenica 31 maggio 1970 alle 3.23 del pomeriggio il terremoto con epicentro di fronte a Chimbote, a 70 km dalla costa del Pacifico e ipocentro a una profondità compresa tra i 20 e i 30 km, scrollò il Huascarán con il grado VIII della scala Mercalli per 45 secondi. Yungay è stata ricostruita poco più a nord, e sulla traiettoria della valanga è rimasto il grande cimitero.
Indiana Jones e la Suffragetta
(l’invenzione della Cordillera Blanca)
di Stefano Ardito
Ai primi del Novecento i tesori incaici del Perù e le alte cime innevate della Cordlllera Blanca irruppero nelle mappe mentali degli esploratori d’Occidente. Furono due in particolare i personaggi che arrivarono a fregiarsi del titolo di pionieri di queste terre equatoriali, Hiram Bingham e Annie Peck. Entrambi statunitensi. Ecco come tutto ciò avvenne, e con quali successivi sviluppi.
Il doppiopetto, la cravatta e, sulla scrivania, la bandiera a stelle e strisce possono suscitare qualche dubbio. Ma è stato proprio Hiram Bingham, nella sua prima veste di archeologo, avventuriero e alpinista, a ispirare a Steven Spielberg il personaggio Indiana Jones, l’eroe un po’ scienziato e un po’ agente segreto che ha tolto un bello strato di polvere all’immagine degli archeologi presso il grande pubblico.
Nato nel 1875 a Honolulu, alle Hawaii, Bingham discendeva da un’antica e illustre famiglia protestante della East Coast. Dopo gli studi a Yale, a Harvard e Princeton iniziò le sue avventure in Sudamerica. Tra il 1906 e il 1907, ripercorse l’itinerario dal Venezuela all’Argentina seguito nel 1819 da Simón Bolìvar per esortare i coloni alla rivolta. Tre anni dopo s’immedesimò negli avversari del Libertadór e seguì la via delle carovane spagnole tra Buenos Aires e Lima. Poi arrivò una notizia straordinaria. In un libro sul lago Titicaca, il geologo Adolph Bandelier avanzava l’ipotesi che il Coropuna, un vulcano a poca distanza da Arequipa «superasse i 23.000 piedi di altezza, e fosse quindi la montagna più elevata delle Americhe». A Bingham bastò una conferenza a New York, nell’esclusivo club degli ex-allievi di Yale, per raccogliere i fondi per una nuova spedizione. Il team puntava a traversare il Perù lungo il 73° meridiano, con il duplice obiettivo di salire il Coropuna e di esplorare le terre «al di là delle Ande» dove Manco II, l’ultimo sovrano degli Incas, aveva la sua capitale segreta. Per prima cosa Bingham si dedicò all’archeologia, e il risultato lo rese famoso in tutto il mondo. Il 24 luglio del 1911, nelle foreste della valle dell’Urubamba, Hiram Bingham scoprì Machu Picchu, la capitale perduta degli Incas. La prima ascensione del Coropuna, effettuata tre mesi più tardi, fu al confronto un’avventura minore, che non viene neppure menzionata ne La città perduta degli Incas, il bellissimo libro dedicato dall’esploratore al suo viaggio. Bastò puntare un teodolite sulla vetta per scoprire che il vulcano culminava a “soli” 6425 metri di quota, trecentocinquanta metri (o millecento piedi) al di sotto del già famoso Aconcagua, di cui Mathias Zurbriggen aveva calcato la cima quattordici anni prima. Bingham aveva esperienza di alpinismo, e l’ascensione fu facile e senza storia. Lo scalpore destato dalla scoperta di Machu Picchu, per sua fortuna, fece passare in secondo piano la bufala del Coropuna.
Ante litteram
Sul vulcano, d’altronde, Hiram Bingham non arrivò per primo. A compiere la prima ascensione, qualche settimana prima, era stata una delle poche donne alpiniste del tempo, che aveva a sua volta preso sul serio il falso scoop di Bandelier. Si chiamava Annie Smith Peck, era nata nel 1850 nel Rhode Island e insegnava latino. Viaggiatrice, suffragetta, femminista ante litteram, Annie scoprì la montagna a trentacinque anni, salendo in vetta al Cervino insieme a due guide di Zermatt. Un’impresa tutt’altro che straordinaria se osservata dalla Svizzera, ma che la rese famosa al di là dell’Atlantico. Nel 1897 la Peck salì al Pico de Orizaba 5700 m, la cima più elevata del Messico. Nel 1900 una vacanza sulle Dolomiti la vide sulle Cinque Dita e sul Cristallo. Nel 1902 Annie Peck fu l’unica donna a partecipare alla fondazione dell’American Alpine Club. Nel 1904 salì l’Illampu, in Bolivia. Sul Coropuna arrivò alla non più tenera età di sessantuno anni. Sulla vetta, nonostante il vento violento, alzò uno striscione con scritto “Voto alle donne!”. A rendere famosa Annie Peck, però, è stata la salita dell’Huascarán. Nel 1908, con le guide vallesane Peter Taugwalder e Gabriel Zumtaugwald, l’instancabile virago del Rhode Island inaugurò l’alpinismo sulla Cordillera Blanca, che non era stata fino ad allora visitata dai primi esploratori delle Ande. Più di un secolo prima, nel lontano 1802, il tedesco Alexander von Humboldt aveva tentato il Chimborazo, il vulcano dell’Ecuador che a quel tempo si credeva fosse la montagna più elevata della Terra. Il tentativo si arrestò a 4800 metri di quota, ben lontano dai 6250 della cima, ma è giustamente considerato il primo vagito dell’alpinismo sulle montagne del Sudamerica. La prima ascensione del Chimborazo fu compiuta settantasette anni dopo da un grandissimo nome dell’alpinismo. Fu Edward Whymper, accompagnato dalle guide valdostane Jean-Antoine e Louis Carrel, a compiere la prima salita del vulcano. Nella stessa campagna i tre salirono anche il Cayambe, l’Antisana, il Carihuairazo e il Sara Ureo, mentre i due Carrel raggiunsero anche l’Illiniza Sur. Sette anni prima, nel 1872, il tedesco Wilhelm Reiss e il colombiano Angel M. Escobar avevano salito il Cotopaxi, più basso ma più difficile del Chimborazo. Nel 1897 fu un’altra guida del Monte Rosa, Mathias Zurbriggen, a compiere la prima ascensione dell’Aconcagua e del Tupungato. L’anno dopo toccò ai valdostani Antoine Maquignaz e Louis Pellissier di accompagnare il britannico Martin Conway sulla vetta dell’Illimani, in Bolivia.




Record
Ma è tempo di tornare a Miss Peck. Di ritorno negli States dopo la sua ascensione, la Peck annunciò al mondo di aver raggiunto la vetta settentrionale (e più bassa) del Huascarán, e di aver quindi stabilito il record mondiale femminile di altezza. Ammise di aver raggiunto la cima stremata, e di essere stata trascinata nell’ultimo tratto dai due giovanotti di Zermatt. Una foto scattata alla Cima Sud, la più alta, conferma – metro più, metro meno – che la cordata raggiunse effettivamente la cima. Fu il calcolo della quota, però, a sollevare un putiferio.
Il barometro di Annie Peck, sulla cima, segnava 7300 metri. L’annuncio del nuovo record mandò su tutte le furie la connazionale Fanny Bullock-Workman, che l’anno prima aveva raggiunto la vetta del Nun Kun, al quale era attribuita la quota di 7200 metri. La danarosa signora finanziò di tasca sua una spedizione topografica che raggiunse la Cordillera Blanca, puntò i suoi teodoliti sul Huascarán, e decretò che la cima nord della montagna non superava i 6550 metri di altezza: un dato che le misurazioni successive hanno spostato a 6654. Per completare la storia, è bene ricordare che successive spedizioni scoprirono che Mrs. Bullock-Workman e il portatore Cyprien Savoie non avevano raggiunto la vera cima del Nun ma solo il vicino Pinnacle Peak, che non supera i 6930 metri. Anche se il record non c’era, Miss Peck è rimasta nella storia e nella topografia della Cordillera Blanca. Nel 1927 il suo ruolo fu riconosciuto ufficialmente, e la Sociedad Geogràfica di Lima battezzò la vetta settentrionale del Huascarán con il nome di Cumbre Aña Peck. Per una volta la bandiera a stelle e strisce era arrivata prima dell’Union Jack.
Gli Incas sulle cime
In tutta l’America Latina, chi scrive di storia dell’alpinismo deve stare molto attento prima di attribuire delle prime ascensioni a nordamericani o europei. L’infortunio più celebre è quello di Hernàn Cortèz, che inviò nel 1520 una pattuglia guidata da Diego de Ordaz verso i 5452 metri del Popocatèpetl, il vulcano che domina Città del Messico. Il conquistador voleva impressionare gli Aztechi, che gli opponevano una feroce resistenza. Nel Novecento, però, gli archeologi messicani hanno scoperto cinque santuari d’alta quota sul Popò e ben otto sul vicino Ixtacìhuatl. Uno di questi è sui 5286 metri della vetta dell’lxta. Numerose eruzioni hanno sconvolto il cratere del Popò, impedendo di individuare rovine. Un’iscrizione in nàhuatl, la lingua degli Aztechi, racconta però come un certo Chalchiuthzìn di Amecameca, salì alla cima nell’anno «tre-canna», il nostro 1289, e lì «si flagellò per invocare la pioggia». Resti di edifici sacri sono stati individuati sulle vette peruviane del Chachani 6075 m e del Misti 5822 m, e poi anche a poca distanza dalla vetta del Lluillaillaco 6723 m, una delle cime più elevate delle Ande che si alza sul confine Cile-Argentina. Sull’Aconcagua la mummia di un giovane uomo è stata trovata a 5500 metri su un itinerario impegnativo, ma il corpo mummificato di un guanaco è stato trovato a poca distanza dalla vetta. Forse qualcuno lo aveva condotto fin lassù. Lo spesso strato di ghiaccio che riveste le cime ha fino a oggi impedito di trovare resti di costruzioni antiche sulle vette della Cordillera Blanca. È bene ricordare, però, che nel nostro Medioevo – quando il Teodulo era privo di ghiacci, e i vigneti in Valle d’Aosta salivano fino a quota 1300 – anche qualche cumbre di queste montagne poteva essere accessibile ai non alpinisti. Il dubbio è destinato a rimanere.
Tutti gli scudieri del Professore
(parlavano tedesco i primi cartografi-alpinisti)
di Linda Cottino
Dopo che l’americana Annie Peck ebbe ragione del Huascarán Nord, le cime peruviane ammantate di ghiaccio tropicale rimasero escluse dalle campagne degli alpinisti occidentali. Finché, all’inizio degli anni Trenta, arrivarono tedeschi e austriaci con la prima di quattro spedizioni organizzate dall’Alpenverein. Obiettivo: sapere tutto sulla Cordillera Blanca.
La prima scoperta fu che non esistevano strade di collegamento tra la costa e la Valle del Rio Santa. Gli alpinisti, i geografi e i cartografi che componevano la prima spedizione del 1932 furono così costretti a percorrere a dorso di mulo il tratto dalla costa a Huaraz. Ma l’idea di salire al Passo Callòn sulla Cordillera Negra, proprio di fronte alla Blanca, per verificare la conformazione delle valli, risultò vincente, e i tedeschi dovettero senz’altro stupirsi nel constatare che una comoda carrozzabile collegava tra loro i paesi più importanti della valle del Santa. Era fatta: i motoveicoli che avevano dovuto abbandonare sulla nave potevano essere smontati, caricati sui muli e fatti arrivare a Huaraz, dove poi sarebbero serviti per gli spostamenti lungo le valli.
Ma intanto avvenne un episodio curioso. Un giornale di Lima pubblicò un articolo in cui si raccontava che i forestieri possedevano «un cannone e alcune armi più piccole per combattere i “selvaggi” di Yungay». Qualcuno doveva aver scambiato un apparecchio di misurazione per un cannone, e le piccozze erano diventate le “piccole armi”. Allarmate per il possibile incidente diplomatico, le autorità di Lima e di Yungay ricevettero con tutti gli onori i membri della spedizione, mettendosi a loro completa disposizione.
Dal punto di vista alpinistico, il maggior successo ottenuto fu la prima ascensione del Huascarán Sud 6768 m, la cima più alta delle Ande peruviane; ma furono salite anche il Chopicalqui 6350 m, la cima Nord dei Huandoy 6395 m, l’Artensoraju 6025 m, la cima mediana dei Hualcan 5500 m, la Nord e la Sud del Nevado Copa 6173 e 6203 m. L’obiettivo principale dei ricercatori era però quello di realizzare una carta geografica di tutta la parte settentrionale della Cordillera, e il grosso del lavoro si concentrò dunque sulle misurazioni e i rilevamenti topografici. Nel 1936, prese la guida della spedizione il geografo Hans Kinzl. Con lui c’erano l’alpinista Arnold Awerzger e il noto cartografo Erwin Schneider. Da maggio a settembre, esplorate palmo a palmo le zone dell’Alpamayo, del Quitaraju e, più a sud, del Pucajirca, salirono anche il Champarà 5749 m, il Champarà Chico 5273 m, il Quitaraju 6100 m, il Pucajirca Sud 6050 m. Senza trascurare la Cordillera di Huayhuash, dove furono saliti il Siulà 6356 m e il Rasac 6040 m.
Tre anni dopo Kinzl capitanò un nuovo viaggio, mirato questa volta alla parte meridionale della Cordillera. Dal Huascarán al Contrahierbas, dal Toqllaraju al Ranrapalca, i tedeschi centrarono alcune prime salite prestigiose. La fortuna, però, li abbandonò quasi subito: il 29 agosto 1939, durante una perlustrazione al Nevado Tunshu, il gruppo venne travolto da una slavina di ghiaccio e gli alpinisti Hans Schweizer, Siegfried Rohrer e Jacob Diener persero la vita. Risale a quella spedizione il primo avvertimento di Hans Kinzl circa i rischi cui era esposta la città di Huaraz per via del ghiacciaio di Palcacocha affacciato sulla Quebrada Cojup: il lago che esso alimentava, ingrossava a sua volta il torrente di fondovalle, da cui si sarebbe, generato un secondo lago pericolosamente vicino a Huaraz, sulla cui direttrice incombeva anche un ponte di instabili terrapieni. L’avvertimento cadde nel vuoto, e il 13 dicembre 1941 la parte moderna della cittadina fu travolta dalle acque dei due laghi. Vi perirono 8.000 persone.
La quarta spedizione, organizzata in tandem dai club alpini tedesco e austriaco, fu guidata ancora una volta dal professor Kinzl. Lo scopo era quello di eseguire nuove misurazioni sul Huascarán e proseguire le rilevazioni trigonometriche compiute nel 1932 e nel 1936. Anche la Cordillera di Huayhuash venne ulteriormente esplorata. La raccolta dei dati cartografici venne completata nel 1964, con l’ultima spedizione austro-tedesca alla cui guida c’era ancora l’indomito Kinzl.

L’importanza scientifica di queste spedizioni fu grande poiché ad esse si deve la prima seria cartografia della regione. Il lavoro svolto nel 1932 portò a una carta 1:100.000 della parte settentrionale della Cordillera Blanca, pubblicata nel 1935 con il libro di Philipp Borchers Die Weisse Cordillere: essa rimase la miglior carta in circolazione fino agli anni 70/80, quando l’Istituto peruviano geografico-militare scattò nuove immagini aeree. I dati raccolti nel 1936 confluirono invece in una carta 1:50.000 della Cordillera di Huayhuash. Con i rilevamenti del 1939, si completarono le conoscenze sulla parte settentrionale, nella zona compresa tra la Quebrada Honda a nord e il Lago di Conococha a sud. Nell’insieme le spedizioni fruttarono una carta per la parte nord e una per la sud (1:100.000), una generale (1:200.000) e una della Cordillera di Huayhuash (1:50.000). Ma non fu tutto. Il professor Kinzl e i suoi ricercatori spaziarono dalla cartografia alla geografia, dalla geologia alla meteorologia, dalla glaciologia alla botanica, alla zoologia. E in Perù che in Europa i dati vennero raccolti in numerose pubblicazioni. Un bilancio positivo anche dal punto di vista alpinistico. In quattro spedizioni, infatti, i tedeschi salirono ben 36 cime inviolate (24 nella Cordillera Blanca e 10 nella Cordillera di Huayhuash), 21 delle quali sopra i seimila metri.
Glace tropicale
(il grande alpinismo francese sulle inviolate cime andine)
di Pietro Crivellaro
Galvanizzato dalla vittoria all’Annapuma, che nel 1950 inaugura la conquista degli Ottomila himalayani, negli anni eroici del dopoguerra l’alpinismo francese occupa un ruolo di primo piano anche nelle Ande grazie a successi memorabili: nell’inverno 1951-52 Lionel Terray e Guido Magnone salgono lo stupendo Fitz Roy in Patagonia, nel febbraio 1954 la spedizione di Lucien Bérardini, Robert Paragot e soci raggiunge la vetta dell’Aconcagua lungo la terribile parete sud. Alle due imprese più celebri va accostata anche una serie di successi di minore notorietà, ma di alto livello tecnico, conseguiti negli anni Cinquanta dai francesi nell’esplorazione delle ultime vette vergini della Cordillera Blanca. Dopo la conquista della candida piramide dell’Alpamayo 6120 m, compiuta nel 1951 dalla spedizione franco-belga di Georges Kogan, Raymond Leininger e Maurice Lenoir, si affermò come un dominatore nella regione il grande Lionel Terray. La fortissima guida vinse nel 1952 lo Huantsan 6395 m, nel 1956 prima il Chacraraju Oeste 6112 m e pochi giorni dopo il Taulliraju 5830 m e infine nel 1962, con Guido Magnone, il Chacraraju Este 6001 m. Terray giudicherà il Chacraraju Oeste la più dura ascensione su ghiaccio da lui compiuta. Uscito prematuramente di scena Terray, a tener alto il prestigio francese nella regione gli succedette qualche anno dopo René Desmaison, protagonista di ben quattordici spedizioni andine, quasi sempre nella Cordillera Blanca. La sua impresa di maggior spicco resta l’impressionante parete sud del Huandoy Sur 6160 m vinta nel 1976, suprema prodezza dell’arrampicata artificiale che ormai stava passando di moda.
Uno dei massimi conoscitori della zona fu poi Nicolas Jaeger che nel 1977 e 1978 compì varie prime solitarie e il soggiorno record di due mesi sulla vetta del Huascarán per studiare l’effetto psicofisico della permanenza in alta quota.
Nel 2002 per i tipi di Cda&Vivalda è stato ripubblicato il volume I conquistatori dell’inutile, diario alpinistico di Lionel Terray e titolo divenuto simbolo e definizione stessa dell’alpinismo in tutto il mondo. Viene qui proposta una parte del capitolo dedicato alle prime ascensioni assolute delle due vette andine, che a quel tempo erano un limite tecnico di scalata in quota e oggi rimangono cime destinate solo a ottime cordate.

Qui a fianco lo «scudo bombato e strapiombante di granito alto mille metri dove nessuno riusciva a passare. C’erano già state undici spedizioni, tutte fallite». Con queste parole René Desmaison presenta la tetra parete sud del Huandoy Sud 6160 m, che lo ha visto impegnato in ben quattro spedizioni per tracciare una via diretta, perlopiù in artificiale, che lo soddisfacesse pienamente. Foto: Mario Verin e Archivio René Desmaison.

Chacraraju e Taulliraju
(il limite anni Cinquanta in due grandi prime assolute)
di Lionel Terray
Dopo la vittoria del Makalu (1955), il presidente del Comitato per l’Himalaya Lucien Devies, saputo della mia intenzione di recarmi in Perù con amici e clienti, mi invitò a investire le mie energie su un obiettivo del livello del Fitz Roy, da noi salito nell’inverno 1951-52, ma con una spedizione di carattere nazionale. Si poteva pensare a uno dei pochissimi e ardui Seimila peruviani rimasti da scalare. La scelta cadde sul Nevado Chacraraju, una vetta impressionante di 6100 metri. La regione circostante della Cordillera Blanca, piena di pareti di ghiaccio ‘a canne d’organo’ assolutamente verticali e alte più di ottocento metri, era stata esplorata da spedizioni austro-tedesche prima della guerra. Dopo il 1945 lo stesso Chacraraju era stato meta di alcune spedizioni americane e di una tedesca che lo avevano studiato a fondo. Nessun pretendente era però riuscito a individuare un punto debole lungo i suoi versanti; tutti si erano scoraggiati di fronte al suo aspetto inaccessibile e, senza compiere alcun serio tentativo, avevano rinunciato. Molti avevano poi dichiarato che la scalata era al di sopra delle possibilità umane. John Oberline, capo di una spedizione americana, aveva scritto: “Per vincere quella vetta ci vorrebbe un assedio o un suicidio o, più probabilmente, tutti e due“. Il grande alpinista austriaco Erwin Schneider, che era stato il primo a esplorare la regione, quando gli chiesi da che lato mi consigliava di sferrare l’attacco, mi rispose: “Nessun versante mi è parso offrire serie possibilità di salita“. Quando ci trovammo sul posto, compiuto un giro attorno al Chacraraju, piazzammo il campo base a 4000 metri, ai piedi della parete nord che presenta molti affioramenti di roccia e ghiaccio più favorevole. Di là partì un attacco sistematico, ispirato alla tecnica utilizzata in Himalaya. Posto un campo base avanzato a 5100 metri, all’estremità di un dedalo di seracchi, ci vollero tre giorni, alternando le cordate, per attrezzare con corde fisse i primi trecentocinquanta metri di parete. Esposti a crolli di seracchi, dovemmo superare passaggi su roccia che richiesero il ricorso alla scalata artificiale. Riuscimmo a sistemare un campo da bivacco a circa 5750 metri, su una piazzola tagliata nel ghiaccio, al terzo tentativo, dopo sforzi enormi. Il giorno dopo la cordata di testa superò altri duecentocinquanta metri di pendio ghiacciato inclinato a 60 gradi e li attrezzò con corde fisse.




Un periodo di maltempo ci costrinse poi a ritornare al campo base. Il 30 luglio 1956 risalimmo al bivacco scavato nel ghiaccio, carichi di viveri e di materiali. L’indomani l’attacco venne sferrato due ore prima dell’alba. Grazie alle corde fisse, toccammo il limite raggiunto nel corso dell’ultimo tentativo poco dopo l’aurora. Difficili passaggi su roccia ci condussero presto alla base di un canale ghiacciato interrotto da un breve strapiombo. Il ghiaccio era troppo fragile per assicurare la tenuta dei chiodi e per superare l’ostacolo impiegammo più di un’ora di scalata molto delicata e rischiosa. Seguirono sessanta metri severissimi che ci portarono su una larga spalla di neve, cento metri sotto la vetta. L’aspetto di quest’ultimo salto era veramente repulsivo. Senza riposare, ripartimmo subito. Dopo quattro lunghezze di corda che richiesero un grosso lavoro di scalinatura, alle cinque del pomeriggio sbucai sulla vetta vergine. Pochi minuti dopo tutti gli uomini della cordata d’assalto si abbracciarono sulla stretta cupola di ghiaccio del Chacraraju. Il “picco impossibile” si era arreso e, nonostante il valore della squadra, i mezzi e la tattica impiegati, la battaglia era stata veramente dura. Per vincere gli ultimi ottocento metri ci erano voluti undici giorni; gli ultimi duecento poi ci avevano messi di fronte a un’arrampicata davvero impegnativa, resa ancora più difficile dalla quota e dal tipo di ghiaccio. Eravamo esultanti. Da ogni punto dell’orizzonte le cime di roccia e di ghiaccio della Cordillera Blanca sembravano salutarci con un fuoco d’artificio di fiamme d’oro e rosa, mentre sotto di noi l’ombra del nostro gigante si stendeva sulle desolate colline dell’altipiano. Senza tenda, senza sacco piuma, il bivacco si preannunciava veramente infernale. Preferimmo affrontare la discesa notturna, aiutandoci con le lampade frontali. Dopo molte calate a corda doppia, alle sette del mattino raggiungemmo il campo che avevamo lasciato ventisei ore prima. Era stata una notte di incubi e di sforzi.
Dopo la difficile vittoria sul Chacraraju, la sete di avventura e di imprese “a tinte forti” che ci aveva condotto su quelle lontane montagne si era placata. La vetta est del Chacraraju, meno alta ma apparentemente ancora più ardua di quella appena vinta, ci sembrava un obiettivo troppo impegnativo per le tre settimane di tempo che ancora ci restavano (la vetta est sarà poi salita dallo stesso Terray con Guido Magnone nell’agosto 1962, NdR). Decidemmo quindi di dirigere i nostri sforzi verso il Taulliraju 5830 m, di cui avevamo sovente ammirato l’arditezza della forma e la cui scalata si annunciava difficile, ma assai breve. Benché non dovessimo superare più di cinquecento metri, l’ascensione del Taulliraju fu persino più dura e complicata di quella del Chacraraju e, se le traversate su ghiaccio non furono così tremende, una gigantesca placca di magnifico granito ci richiese passaggi su roccia di una difficoltà mai superata a quella quota.
Saliti i tratti iniziali su ghiacciaio molto delicato, attrezzammo i primi trecento metri con corde fisse. Dopo un breve periodo di maltempo, l’attacco decisivo fu sferrato il 17 agosto. Benché restassero da risolvere solo duecento metri, sapevamo che non avremmo potuto raggiungere la vetta e rientrare in giornata, perciò portammo con noi l’occorrente per un bivacco, due tendine e i sacchi piuma.
Alle nove del mattino con l’aiuto delle corde fisse giungemmo al limite estremo raggiunto in precedenza. A quel punto ci toccò procedere a mezza costa sul fianco sinistro della cresta sud; qui la neve molle ci costrinse a un noiosissimo lavoro di sgombero. Non si può descrivere quanto la progressione su un pendio inclinato a quasi 60 gradi fosse, non solo faticosa, ma anche pericolosa: infatti il terreno sotto i miei piedi cedette e feci un volo di oltre dieci metri. Per fortuna Sennelier, prontissimo, mi bloccò con la corda. Ogni tiro ci portava via un’ora e solo alle tre del pomeriggio uno strapiombo di ghiaccio ci portò in cresta, ai piedi di una superba placca di granito alta più di trenta metri. Sennelier superò il duro passaggio e lo attrezzò per l’indomani. Il 18 riattaccammo alle otto del mattino, malgrado la nebbia e una nevicata intermittente; purtroppo, dopo un bel passaggio di ghiaccio, dovemmo riportarci sul fianco sinistro della cresta e ricominciare a togliere la neve. Una torre di ghiaccio, che risalimmo delicatamente con i ramponi, fu l’ultimo ostacolo. Alle due arrivammo in vetta. Dopo un’altra notte trascorsa nelle minuscole tende piazzate ai piedi della grande placca in una posizione da brivido, il 19 agosto, dopo ventiquattrore di digiuno, cominciammo a scendere barcollando sul ghiacciaio in direzione del campo I.
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