Tita Piaz, alpinista acrobatico
di John Middendorf
(pubblicato su bigwallgear.com il 24 agosto 2021)
Nota: le citazioni sono ritradotte dall’inglese, pertanto potrebbero non coincidere esattamente con i testi originali in italiano.
Tita Piaz è nato e cresciuto a Pera di Fassa, nella valle sottostante le imponenti cime del Catinaccio e delle Torri del Vajolet, in una casa architettonicamente un misto di grotta e fienile, con pareti di minuscoli appigli, fessure, vertiginosi traversi e strapiombi, “che si prestavano ai più svariati esercizi”. Scrive di essere “già una specie di scimmia non appena uscito dall’utero” ed era sempre alla ricerca di nuove mosse d’arrampicata nella sua palestra naturale di casa. Nelle vicinanze c’era anche una falesia di 15 m che saliva in solitaria, con grande preoccupazione della sua famiglia e stupore dei suoi amici, un audace scalatore di qualsiasi cosa e qualsiasi cosa verticale, nonché un’impressionante ginnasta sulla sbarra.
Tita Piaz (Giovanni Battista Piaz, 13 ottobre 1879 – 6 agosto 1948) è uno dei più affascinanti alpinisti del primo Novecento, ed è sorprendente che così poca letteratura in inglese sia disponibile sulle sue straordinarie vie pioneristiche (sebbene ci siano molti libri in italiano, francese e tedesco). Un anno prima di morire in un incidente in bicicletta, pubblicò le sue memorie Mezzo secolo d’alpinismo. Da qui sono tratte tutte le citazioni se non diversamente indicato).
Una volta Piaz, da giovane, comunicò trasmise la sua intenzione di salire sul campanile di Bolzano, a 42 chilometri a piedi dalla sua casa di Pera, e tutti, conoscendo la sua bravura e audacia, vollero essere presenti per assistere all’evento. Quando finalmente giunse il giorno, scalò le pareti della torre, tirò su per l’appuntita parte finale: ma, proprio quando stava raggiungendo il famoso gallo segnavento in cima, invece di festeggiare e crogiolarsi nello stupore del pubblico sempre più in basso, è arrivata la polizia (che lo conosceva per altre questioni). Ha dovuto fare una rapida ritirata, nascondendosi nel campanile tra “pipistrelli e ragni, topi e altre creature simili che probabilmente hanno anche buone ragioni per sfuggire alla luce del sole“. Rimase rannicchiato per ore finché i suoi amici non lo trovarono e lo riportarono alla luce.
Piaz era quello che oggi chiamiamo un radicale – non “soffriva gli stupidi e i codardi” – ed era schietto sulla sua non sopportazione di qualsiasi regola imposta o troppo assecondata dalla società in generale. Era un irredento vocale che cercava di rivendicare lo status di stato nazionale indipendente della regione del gruppo linguistico allora chiamata – con grande antipatia della gente del posto – Welsh Tirol (ora provincia autonoma del Trentino). Fu antagonista del dominio austro-ungarico in cui nacque, a volte a scapito della sua libertà personale, e in seguito si oppose all’ascesa del fascismo italiano; nel 1930 fu incarcerato come sovversivo per le sue opinioni. Il suo disprezzo per i nazisti durante la loro occupazione nel 1944 lo vide trattato brutalmente in prigione per nove mesi, condannato a morte, ma rilasciato mentre le forze alleate si spingevano verso nord attraverso l’Italia; subito dopo, fu eletto sindaco della sua città natale. Ha vissuto una vita al limite, con molti episodi in cui se l’è vista molto brutta.
Anche Tita Piaz era un padre di famiglia. Dopo una giovinezza probabilmente sfrenata in materia d’amore, si sposò due volte, nel 1903 con Marietta Rizzi, la responsabile della figlia del rifugio Vajolet, dalla quale ebbe tre figlie: Olga, Pia e Carmela. Nel 1913 si risposò con Maria Bernard e generò altri due figli: Nereo e Furio. Apprezzato poeta e scrittore di lingua ladina fassana, noto interprete teatrale. Aveva un cane fedele di nome “Satana” che portava le sue corde alla base delle rupi. Diresse e costruì rifugi di alta montagna sotto le Torri del Vajolet ma anche case turistiche, a volte in contrasto con le autorità edilizie, ed era conosciuto come un amico leale e generoso da molti nella sua comunità.
I racconti di Tita nel suo libro Mezzo secolo di alpinismo sono avvincenti, anche con la sovraesposizione odierna a tutte le cose “estreme”, eppure raccontati con una ironica consapevolezza retrospettiva mentre naviga nel “crogiolo degli ideali di una giovinezza esuberante, la scelta dei valori…”.
Esordisce Piaz, ponendo le basi: “Imitando Rousseau, confesserò i miei errori con candore, incorrendo nel pericolo di fare una profonda caduta nella stima di tutti gli alpinisti passati, presenti e futuri; magari correrò il rischio di attirare sul mio misero capo la collera degli Dei, quando dichiarerò d’esser giunto a tale grado di debolezza non solo da non sentire rimorso, ma anche da godere al pensiero d’essere stato così ingenuo, prima di varcare la soglia del vero alpinismo […]. Chi è senza peccato scagli la prima pietra!».
Prima che Tita sapesse qualcosa dell’alpinismo vero e proprio, partì da solo (perché non conosceva nessuno ardimentoso come lui o altrettanto nullafacente) per una vetta rocciosa sulla Forcella di Davoi dove era passato spesso con il padre che conosceva entrambi i lati del passo. Nella regione era già iniziata l’arrampicata tecnica su roccia, Winkler aveva salito in solitaria la prima delle mitiche Torri del Vajolet sette anni prima e vari alpinisti avevano concluso le vacanze dopo aver salito le prime vette conosciute dalla gente del posto, ma Tita non aveva alcuna conoscenza delle tecniche tranne il salire e basta! In alto, sulla sua prima vera arrampicata su roccia all’età di 14 anni, senza corde e facendo mosse azzardate in un’esposizione vertiginosa, provò improvvisamente rimorso per non aver ascoltato la madre preoccupata, e “sferzato dalla paura più genuina”, si ritirò. E con l’aiuto del suo buon angelo custode, si ritrovò su un terreno ragionevolmente inclinato. “Sconfitto ma, ciò che conta di più, sano e salvo e fuori dalla portata di tanti orrori”.
Ma tornato su un terreno sicuro, fu presto combattuto tra due forze contrapposte: “la paura e l’orgoglio ferito”, e dopo essersi rimproverato d’essere un vigliacco, tornò indietro, studiando un po’ meglio la linea, e presto raggiunse la vetta senza “nemmeno ricordarsi di difficoltà degne di nota.” La carriera alpinistica di Tita Piaz era iniziata.
Incoraggiato da una salita con due amici del Col Ombert, l’alta vetta sull’altro versante della valle, Piaz si sente pronto per il possente Catinaccio, l’imponente cima del Gruppo del Catinaccio. Aveva sentito che c’era una sorgente in cima e così, immaginando un paesaggio da mille e una notte, doveva vedere di persona. Giunto al ripiano pensile dove in seguito fu edificato il rifugio Vajolet, ebbe la prima buona visuale del canalone di avvicinamento tra “torri sinistre e minacciose” – una delle quali sarebbe stata poi battezzata Torre Piaz – e il “muro tenebroso” che avrebbe avuto poi il nome di Punta Emma. La leggenda narra che i pastori fossero riusciti a raggiungere la vetta, ma ancora una volta, da solo su un muro ripido di 200 m, si trovò di fronte alla paura e al dubbio e, dopo aver pregato per la sua salvezza, si ritirò e tornò a casa a piedi, vergognandosi della sua viltà.
L’anno successivo riesce ad attirare i due amici che con lui avevano scalato il Col Ombert per un altro tentativo al Catinaccio. Armati di alpenstock “lunghi come un anno di fame” (più lungo è l’alpenstock, migliore è l’alpinista, schernisce) e di due litri di grappa (fatta fuori prima ancora che iniziasse l’arrampicata su roccia), salirono in calzini, senza corde, in vetta. Dei suoi ricordi in cima scrive: “Questo è stato uno dei momenti più belli della mia vita di alpinista, un faro luminoso dei miei ricordi che ancora manda raggi di buon auspicio alla mia anima”. Se avesse avuto un giorno da rivivere, avrebbe scelto quel momento di beatitudine. In una nota a piè di pagina, osserva retrospettivamente che l’inebriante combinazione tra “il potere miracoloso della grappa” e lo splendore dell’essere in cima potrebbe essere la rovina per alcune guide alpine: guida che presto sarebbe divenuto.
Ci si aspettava che Tita ottenesse un diploma di insegnante a Bolzano, ma il fascino delle montagne era semplicemente troppo grande e lasciò il suo master prima del completamento. A questo punto la Torre Winkler era scalata regolarmente, anche con clienti, e aveva sentito dire che le guide alpine raccoglievano 50 fiorini (lo stesso costo per una mucca) per ogni ascensione che conducevano. Non riusciva a credere che fosse possibile guadagnare una cifra così astronomica in mezza giornata. Divenne ossessionato dall’arrampicata e dal fare la guida sulle famose torri.
Non ancora ventenne, ha scalato la Torre Winkler con un amico, “infinitamente sotto di me per abilità” e 20 metri di vecchia corda, “neanche buona per legare insieme due covoni di fieno”. Alla salita avevano assistito con apprensione i custodi del rifugio Vajolet, recentemente completato e sottostante. Orgoglioso, per lui è stato il culmine di un sogno impossibile: la notizia della sua salita si è diffusa ampiamente e ha attirato l’attenzione di altri alpinisti, tra cui la celebre guida Luigi Rizzi (che in seguito ha collaborato con Angelo Dibona per alcune delle più grandi pareti dell’epoca).
Con la sua ascesa alla celebrità, ha cercato un cliente pagante per l’avventura sulla Torre Winkler, ma la sua reputazione di temerario selvaggio lo precedeva e nessuno si sarebbe iscritto a un’ascensione guidata e pagata a questo “capitano pazzo” senza licenza (“guida abusiva” come diciamo ora, già a quel tempo nell’impero austro-ungarico la guida era una professione certificata). Per esercitarsi, ha portato sulla vetta della Torre Winkler un certo numero di “povere vittime” di tutte le classi sociali – e le donne erano le preferite, osserva. Non gli importava che fossero “prive di qualsiasi capacità e piene di paura”; in effetti, meno abilità e più paura, è il target migliore per un cliente pagante. Sbarcava il lunario trasportando carichi dal paese al rifugio Vajolet e in altre zone (come portatore), ma sentiva che lavorare come umile facchino era ben al di sotto di lui, che anelava solo a salire sulle cime
A questo punto della storia dell’alpinismo, il gruppo del Catinaccio era diventato famoso. La rivista alpinistica austo-tedesca pubblicò una monografia di 44 pagine sulla catena nel 1884 e un altro rapporto di 40 pagine nel 1897, definendo la nomenclatura principale sia in tedesco che in italiano: la maggior parte dei punti di riferimento in quest’area aveva nomi diversi in varie lingue (più tardi, nei giornali tedeschi, sono state riportate lamentele sull’insistenza di Piaz sull’uso solo dei nomi nativi ladino/italiani). La voce sul Catinaccio si era sparsa e molti alpinisti da tutta Europa andavano ad arrampicare lì. Piaz iniziò a trovare clienti per le sue ambizioni di guida. Le famose leggende della zona erano anche un’attrazione – il magico giardino di rose di re Laurino – le escursioni nella catena montuosa possono ricordare il tempo dei nani e dei castelli (ci si sente piccoli in mezzo al regno desolato delle torri). Insomma, il Catinaccio era una meta da condividere. Man mano che l’area è stata mappata e identificata meglio nei diari in lingua tedesca, molti alpinisti del nord si sono resi conto del potenziale per prime salite su cime maestose.
Alla fine Tita trovò un cliente per il Catinaccio per sette fiorini, grazie al fatto di trovarsi nel posto giusto al momento giusto: la guida assunta dal cliente non si era presentata al rifugio Vajolet il giorno della salita. Preoccupato per la professionalità della sua attrezzatura, Tita ha distratto il suo cliente con i racconti delle Torri Winkler e Delago, dipingendo gli orrori di queste salite per impedire al cliente di notare la corda consumata e malconcia di Tita mentre Tita lo legava. A circa 50 metri sopra: “probabilmente nella foga di ostentare le mie straordinarie capacità, ho spostato un enorme masso che con il fragore dell’inferno è caduto verso l’abisso, mancando di qualche centimetro la testa del mio povero allievo”. Pallido e tremante, il cliente lanciò un’occhiataccia a Tita, ma poi disse di buon umore: “Lei inizia bene”, e continuarono verso la vetta e tornarono senza ulteriori incidenti.
Al rifugio, con grande stupore di Tita per lo stretto contatto con la morte, il cliente chiese se poteva essere guidato sulla Torre Winkler l’anno successivo. Sì! stava diventando una guida! Durante la trionfante escursione di ritorno in paese – pantaloni sbrindellati, corda sulla spalla, scarpe da roccia legate fuori dallo zaino – classica postura da guida – non riusciva a credere alla sua fortuna, soprattutto quando il cliente gli ha dato 3 fiorini in più. La somma fu spesa per intero quella notte, festeggiando e giocando a dadi al Café Larcher.
Nel 1894 Hermann Delago aveva scalato la torre del Vajolet più occidentale, (Torre Delago), definendola più difficile della via di Winkler. Nel 1898 La Torre Delago era considerata la salita più difficile di tutte le Alpi, il limite assoluto del possibile. Solo alcune delle migliori guide e alpinisti – Dimai, Bettega, Zagonel, Rizzi, Innerkoffer – hanno osato ripeterlo e le salite senza guida sono state una grande novità.
Tita si è unito ad un vecchio compagno di scuola, Antonio Schrott, per una salita della temuta via Delago, forse la decima salita. Schrott è stato anche un audace scalatore dilettante degno di nota, avendo scalato la via Winkler e altri capolavori. L’unica cosa che sapevano della via era che c’era un camino liscio e difficile che richiedeva una buona tecnica, di cui nulla sapevano! Piaz scrive di aver strisciato nel camino come un serpente, al suo limite, essendoci riuscito solo grazie alle sue capacità e alla grinta da ginnasta, “arrivato in vetta con l’ultimo respiro che mi è rimasto nel corpo, ho urlato all’universo: il mondo appartiene ai coraggiosi!’”
Tita riflette su come all’epoca fosse alla ricerca di una torre inviolata a cui dare il suo nome: “La Torre Piaz!”. Così i clienti sarebbero arrivati da ogni angolo del mondo per “l’onore di attaccarsi alla mia corda” e sarebbe stato soffocato dalla moltitudine di clienti, correndo come cani alla porta di un’amante. E sarebbero piovuti fiorini!
In seguito, in risposta al dubbio di una guida che non credeva che lui avesse scalato la Delago con la tecnica e il modo da lui descritto, Tita si vantò di poter e di voler scalare il prominente e temibile camino inviolato del pilastro nord del Catinaccio (ora Punta Emma). Tita entra trionfante in rifugio, pubblicizzando: “Prima salita del Pilastro Nord del Catinaccio; difficoltà non molto superiori alla Stabeler. Tariffa: 25 Fiorini” anche se non aveva ancora salito la via!
Notare che quella di mezzo delle tre Torri del Vajolet, la Torre Stabeler, era stata scalata nel 1892 ed era considerata notevolmente più facile della Torre Winkler .
Ora che Tita aveva rivendicato la sua scalata a parole e per iscritto, era tempo di “lanciare” la via. Ancora, nelle pagine di scritti, racconta la sua spavalderia e come la sua prima salita del pilastro nord del Catinaccio lo avrebbe lanciato alla grandezza (precede molti dei suoi racconti di arrampicata – ironico – con questo tipo di prologo spavaldo). Prima ha trovato un modo per raggiungere la vetta da nord-est (come via di discesa), poi, mentre tentava la prima salita del contrafforte di 300 m, è salito metodicamente a un punto chiave particolare, un tetto strapiombante, quindi è disceso per una pausa e ulteriore esplorazione. Theodor Christomannos, segretario del Club alpino austriaco tedesco, ha assistito a una delle incursioni. Tornato al rifugio, Christomannos mise in mano a Tita 17 fiorini e disse: “Caro Piaz, comprati delle scarpe da arrampicata decenti e ce la farai”. Il supporto morale e le scarpe migliori hanno aiutato e la successiva prima salita in solitaria di Punta Emma di Tita ha stabilito un nuovo standard. Ma non doveva essere chiamata “Piazturm” – Torre Piaz – poiché l’onore richiedeva che la “sua” torre fosse nominata così da un compagno, non da lui stesso. Questa l’ha chiamata in onore di una cameriera del rifugio Vajolet, Emma Della Giacoma, dopo averla portata sulla via più facile per la vetta. Il camino del contrafforte nord di Punta Emma è stato per alcuni anni una delle vie di arrampicata su roccia dura più lunghe (V) delle Alpi.
Nota a piè di pagina: La lapide di Christomannos (1854-1911) reca l’iscrizione, come riporta Piaz, “L’uomo che voleva tutto per gli altri, niente per sé”. Christomannos, figlio di una ricca famiglia greca di mercanti residente a Vienna, fu determinante nella creazione della “Grande Strada delle Dolomiti” che collegava le catene montuose da Bolzano alla Marmolada, ed era noto per essere un generoso donatore di opere pubbliche a Merano. Piaz è rimasto grato a Christomannos per il suo dono di vere scarpe da arrampicata, anche quando in seguito è diventato un suo nemico politico e ha detto che Christomannos “ha cercato di farmi del male”.
Geografia delle Alpi Orientali e primo alpinismo
La maggior parte delle grandi scoperte nell’arrampicata su roccia all’inizio del 1900 si ebbero nell’impero austro-ungarico, una regione con 14 grandi gruppi linguistici. Nel Tirolo settentrionale ci sono le catene del Wetterstein, del Karwendel e del Wild Kaiser: gli “alpinisti di Monaco” di lingua tedesca, Hans Dülfer e altri, hanno aperto la strada a nuove tecniche di big wall in queste catene. A sud (Trentino, SudTirolo con il suo confine geografico e naturale, cioè il confine del Brennero, Trattato di Londra, 1915), ci sono le grandi muraglie dolomitiche: Marmolada, Civetta, Furchetta, Pelmo, Tre Cimen, le alte guglie nel Brenta e del Catinaccio, tutte le valli e le catene montuose dell’Alto Adige e del Trentino, aree cedute all’Italia nel 1918.
Tita Piaz, speed climber e acrobata della corda
di John Middendorf
(pubblicato su bigwallgear.com il 12 settembre 2021)
“Sta succedendo qualcosa qui, cosa non è esattamente chiaro (Buffalo Springfield)”.
Campanile Basso, 6a salita di Tita Piaz, 1902
A Pera, Tita Piaz ha letto sulle riviste alpinistiche tedesche delle salite della Guglia di Brenta/Campanile Basso; le “sorprendenti fotografie” della guglia gli davano i brividi. Dalla seconda (1900) alla quinta (1902) salita riuscita furono tutte salite “senza guida” da parte dei top climber di Monaco e Vienna. Ogni salita riuscita – tra tanti tentativi falliti – eclissava tutte le altre novità, “anche la parete sud della Marmolada”, scrive Piaz, “chiaramente questa (scalata) era tecnicamente più difficile e richiedeva maggior coraggio, (quindi) ho deciso di provare per non essere inferiore a nessuno”.
È stata la prima arrampicata di Tita nel gruppo del Brenta. Piaz, non ancora guida patentata ma pienamente impegnato nella professione di guida, invitò Franz Wenter di Tires, un amico che si era anche “fatto un nome” nel mondo dell’arrampicata e delle guide. Hanno salito il Campanile Basso con l’idea di testarne il potenziale come avventura da offrire ai clienti, e la loro “prima salita italiana” è stata ampiamente celebrata. Piaz osserva: “Abbiamo raggiunto la vetta in un tempo più breve di tutti i nostri predecessori”, trovando la via, soprattutto il traverso, molto acrobatico e più difficile di qualsiasi altra cosa, anche delle sue Torri del Vajolet di casa. Lui e Wenter hanno convenuto che sarebbero state sicuramente necessarie due guide per le sue traversate e “lunghi tratti di parete senza soste intermedie comode”. Così i due amici fecero il patto che se uno dei due avesse trovato un cliente per il Campanile Basso avrebbe coinvolto l’altro per farlo assieme.
Nota. Nel bollettino del DeÖAV del 1906: “La salita del 1902 di Piaz e Wenter, in particolare, è diventata importante per il futuro della Guglia di Brenta (così i tedeschi chiamano il Campanile Basso), perché finalmente la prima e ancora unica guida alpina tedesca autorizzata ha avuto modo di conoscere e amare questa salita straordinaria e da allora l’ha ripetuta molte altre volte”. Prima che Piaz diventasse una guida titolata, arrampicava con una vasta gamma di clienti come “portatore”, cioè essenzialmente una guida apprendista al servizio di una guida autorizzata. Secondo Alfredo Paluselli, Piaz è stato espulso della sezione di Fassa (Alto Adige) degli Alpenvereins (club alpini) perché si era rifiutato di sconfessare la SAT di Trento a favore del DuÖAV, scelta che “metteva a rischio il proprio lavoro, poiché il turismo di quegli anni era molto legato alla presenza dei turisti di lingua tedesca.” Nel 1906, denuncia d’ufficio contro Piaz da parte di Luigi Bernard, altra guida fassana, per “esercizio abusivo della professione di guida alpina”. Alla fine Piaz si collegò con dei suoi contatti di Innsbruck (Nord Tirolo), seguì il corso di guida a Bolzano, e divenne una guida ufficiale segnalata dalle Mitteilungen del 1907 come: “non sotto la supervisione dei club alpini”. Successivamente Piaz è indicato come Führer (guida) Piaz nelle rivista, anche se quel titolo era riservato alle guide ufficiali: e questo a dispetto dell’essere una guida ampiamente conosciuta e ricercata da molti anni prima della sua autorità ufficiale di guida da parte del DuÖAV.
Riguardo al ‘patto’ con Wenter, Piaz scrive in modo criptico in una nota a piè di pagina: “L’uomo propone, Dio dispone”. Piaz ha guidato molte volte sul Campanile Basso nella sua carriera; probabilmente era uno dei preferiti standard per i suoi clienti competenti. Molti anni dopo Piaz scalò nello stesso giorno il Campanile Basso e le torri del Vajolet tramite uno sfrenato trasferimento in moto.
Abilità nell’arrampicare veloce
La salita di Piaz al Campanile Basso ha senza dubbio ampliato la sua consapevolezza dei chiodi e dei sistemi di protezione utilizzati dagli alpinisti austriaci, ma anche la consapevolezza di essere uno degli alpinisti più veloci delle Dolomiti, una straordinaria risorsa in montagna dove il tempo cambia rapidamente. Una delle prime avventure di arrampicata veloce di Piaz fu in un giorno del 1898 quando scalò sette cime in otto ore, guadagnandosi il soprannome di “Diavolo delle Dolomiti”. Ha iniziato la giornata esplorando una nuova via, in solitaria, una prima traversata dell’enorme parete est del Catinaccio. Durante la discesa incontra Luigi Bernard, che guida due clienti lungo la ben più facile via normale. Quelli avevano visto per l’ultima volta Piaz al rifugio sottostante e ora erano sconcertati nel vedere Piaz venire dall’alto, scendendo dalla vetta. “Come può essere?” hanno chiesto. Piaz ha quindi spiegato come era corso su per la temibile parete est, con una vivace esposizione delle sfide estreme e dell’esposizione cui si era sottoposto, al che Bernard ha risposto: “Tu sei un demonio!” (“Sei un diavolo!”).
Piaz poi balzò via, senza corde e letteralmente correndo lungo la ripida discesa fino al Passo Santner. “Ho poi scalato la Croda di Re Laurino d’un fiato. Senza diminuire la furia, la seconda torre, poi la terza, e qui, riprendendo fiato”, Piaz si ferma per descrivere il suo pubblico, la cordata di Bernard, appena tornati al Passo Santner dopo la salita, ma anche la folla che guardava dal rifugio sotto, e continua: “Eccitato dal coro di applausi e dei “Bravo Piaz!”, ho continuato la folle corsa sulla roccia friabile e pericolosa: quarta, quinta torre, ancora avanti, senza riposo. Sette vette in otto ore! La fama delle mie gesta epiche mi precede da romano trionfante al rifugio del Vajolet. Un gentiluomo tedesco mi ha ispezionato a lungo con gli occhiali, poi ha detto solennemente: ‘Quindi questo è l’aspetto di un diavolo…'”.
Nota. il termine italiano di Bernard per diavolo è “demonio”, il termine del gentiluomo tedesco è “Teufel”. Le citazioni sono dalla biografia di Piaz, Mezzo Secolo D’Alpinismo. Quel giorno le scarpe di Tita erano completamente consumate, e lui aveva i piedi sanguinanti: “Ritenevo mio sacro dovere esporre i miseri resti delle mie famose scarpe che mi avevano portato la gloria di quella volata fantastica: reliquie storiche degne di un museo intitolato “Le scarpe di Tita Piaz, 7 cime in 8 ore”, preziose come la Gioconda!”. Così le appese ben in vista nella sala da pranzo. Piaz osserva poi come la mattina dopo, il vicepresidente in visita della DuÖAV di Liepzig abbia ordinato sommariamente “quegli stracci schifosi devono scomparire immediatamente!” e le scarpe non furono mai più viste. Le migliori scarpette da arrampicata di quel tempo erano scarpe sottili in pelle (o tela) attillate, con suole in corda intrecciata.
Oltre alla prima salita sulla parete est del Catinaccio, le vie di Piaz quel giorno includevano una salita in 20 minuti della Torre Delago e la prima salita della “torretta accanto”, poi battezzata Torre Piaz. Piaz è diventato un selvaggio pioniere dei collegamenti interessanti e salite veloci che coinvolgono l’arrampicata libera audace e ginnica. Intorno al 1906, i record furono formalmente riportati nei bollettini del DuÖAV, accompagnati come al solito da commenti del tipo che il “club non sostiene formalmente quel tipo di alpinismo, veloce e competitivo”.
Una mattina sui 650 metri della via Tomasson sulla Marmolada – un’altra via da lui percorsa con clienti molte volte – Piaz ha totalizzato 3 ore e 28 minuti, e la relazione sottolineava che “questa velocità non è stata affatto ottenuta a scapito della sicurezza”. Nel 1906 scalò tutte e tre le Torri del Vajolet in un record di 1 ora e 37 minuti. Nel suo libro Piaz racconta con gioia i giorni dell’arrampicata pura, accumulando chilometri di dislivello, spesso in solitaria, ma anche con gli amici. Nel 1908 Piaz con Käthe Bröske e Rudolf Schietzold come compagni di corda effettuò la prima traversata delle sei torri del Vajolet (settentrionali e Meridionali), da nord a sud, che comportava una “spaventosa discesa di 100 m”, che richiedeva un’oscillazione libera per raggiungere una stretta cengia a metà di una parete strapiombante (capitolo Quo Vadis).
Mastro “carpentiere” e virtuoso delle corde
Ciò che diventa chiaro guardando ai primi anni di arrampicata e ai risultati raggiunti da Piaz, è che Piaz stava diventando un mastro carpentiere, magari anche un “ingegnere degli ancoraggi su roccia” tra il 1902 e il 1908. Le vie classiche stavano diventando progressivamente attrezzate: chiodi fissi in punti chiave per soste, protezione e discesa, soprattutto sulle vie da lui scalate più volte. Gli ancoraggi strategici consentivano rapide doppie e buone soste per consentire un’arrampicata più veloce ed efficiente e, soprattutto, maggiore sicurezza per Piaz quando le percorreva con i clienti, ma spesso anche con amici e familiari che erano spesso principianti. Queste iniziative di Piaz diedero luogo a controversie e dovette affrontare notevoli critiche.
In tutte le cose, Piaz aveva il suo “modo” di fare: gestione del rifugio, guida, politica e teatro: si faceva beffe dell’immaginaria apoplessia degli alpinisti di Monaco che leggevano i suoi frequenti resoconti sui bollettini, magari raccontando di successi ottenuti “con qualche centinaio di metri di corda e diverse decine di chiodi”. Ci sono 72 riferimenti ai chiodi nel suo libro. A detta di tutti, tuttavia, Piaz era un purista dell’arrampicata il più libera possibile che respingeva l’uso eccessivo dei chiodi da artificiale come “privo di modestia e dignità”.
Le sue discese spettacolari furono liquidate da Franz Nieberl come “manovre artificiose e oltraggiose con la corda, esercizi ginnici che non appartengono alla montagna”. Il suo uso di chiodi era considerato da alcuni eccessivo, e più tardi nella vita ammise di aver talvolta esagerato, come scrisse Preuss, “per domare un’enorme muraglia tramite un’attrezzatura tipo quella di una bottega da fabbro (Paul Preuss)”.
Piaz scalava in modo elegante ed efficiente, di certo dopo la prima ascensione, quando veniva posizionato qualche indispensabile ancoraggio fisso.
Preuss probabilmente si riferiva al tentativo sulla Schüsselkarspitze nella catena del Wetterstein (Nord Tirolo) con Piaz. Dopo un cordiale ma divergente dibattito pubblico e altri sull’uso appropriato dei mezzi artificiali nei giornali tedeschi e austriaci – il famoso “MauerhakenStreit” – nel 1913 Piaz invitò Preuss a “tentare l’invincibile muro della parete sud della Schüsselkarspitze, il problema dei problemi di quei tempi, che aveva resistito anche agli attacchi di alpinisti come Hans Fiechtl”. Era chiaro a Piaz dopo i precedenti tentativi che la linea avrebbe comportato una notevole chiodatura e forse qualche passo d’artificiale, ma l’idea di Piaz era che sarebbe stato lui ad “affrontare tutta la vergogna dei mezzi artificiali” in modo che il suo amico Paul potesse avere la sua “quota di gloria.” Alla cordata si unì anche Lisa Fries, “la più famosa alpinista dell’epoca”. Dai precedenti tentativi, Piaz sentiva di conoscere la linea migliore per la cordata, soprattutto con un altro eccezionale scalatore in libera come Preuss. Su diversi tiri Piaz insistì per una “sicurezza”, ma Preuss continuava a rifiutare, e mentre Preuss era davanti su uno strapiombo difficile senza alcuna protezione per la cordata, Piaz slegò se stesso e la Fries dalla corda, scrivendo poi “perché non mi piace nessun genere di legame con i pazzi”, anche perché aveva promesso alla madre della Fries che l’avrebbe riportata indietro sana e salva.
Preuss alla fine dovette rinunciare, così toccò a Piaz continuare cedendo a qualche sicurezza. Continuarono a salire la parete, ma avvicinandosi la notte, alla fine la cordata dovette ritirarsi. Lasciarono 70 metri di corda fissa che fu poi utilizzata da Otto Herzog e Hans Fiechtl, quelli che fecero la famosa prima salita della parete sud della Schüsselkarspitze nello stesso anno, che comunque richiese loro pendoli e altre manovre di corda.
Campanile di Val Montanaia
Il Campanile di Val Montanaia nelle Prealpi Carniche (Pordenone) è strapiombante su tre lati; fu scalato per la prima volta nel 1902 per la parete sud per lo più verticale e disceso per la stessa via. Quasi tutti gli alpinisti dell’epoca concordavano sul fatto che la discesa fosse parte integrante di qualsiasi salita e generalmente percorreva lo stesso percorso della salita, specialmente sulle guglie, quando non c’era una discesa facile. Come scrisse in seguito Preuss, “la capacità di arrampicata di uno scalatore in discesa deve essere un fattore decisivo nella scelta della via”. Solo le doppie brevi erano considerate accettabili.
Piaz ruppe i canoni di questa tradizione e nel luglio del 1906, durante la settima salita del Campanile di Val Montanaia, attrezzò una spettacolare doppia di 37 m nel vuoto dello strapiombante versante nord, che prevedeva un’oscillazione per raggiungere una minuscola cengia esposta. Lì era un altro ancoraggio per un’altra doppia da 20 metri fino a terra. Fu considerata una manovra oltraggiosa con la corda, nessuno aveva mai tentato una discesa spettacolare e così avventurosa con la corda sospesa lunga come quella: la maggior parte delle cordate arrampicava con una corda di soli 30 metri! Anche in palestra una discesa di 12 metri su corda era considerata un’impresa (nota a piè di pagina). Invece di dover scendere a ritroso i 300 m del percorso di salita, l’innovativa discesa di Piaz richiedeva solo poco più di 50 m di discesa dalla vetta, poi due selvagge doppie, impiegando così molto meno del tempo normalmente necessario per scendere.
Guglia de Amicis
Lo stesso mese della famosa doppia, Piaz effettua la prima “tirolese” sulla Guglia de Amicis. Pochi anni prima, nel 1902, Antonio Dimai (sempre con le baronesse Ilona e Rolanda von Eötvös) aveva «sconvolto il mondo dell’arrampicata su roccia con un atto di ineguagliabile temerarietà con una specie di ponte di corda alla Torre del Diavolo (nei Cadini di Misurina). I dettagli della strana salita non erano ben noti, né molto ben compresi”, scrive Piaz, aggiungendo che “mi ha spinto con impeto a cercare qualcosa di simile alla stregoneria di Dimai. Cercavo un problema inconcepibile”.
Piaz cercò una sfida adatta, e la trovò: “Mentre camminavamo, la fortuna capricciosa ha sorriso sul mio cammino sotto forma di un’apparizione dolomitica, una guglia così fantasticamente snella, elegante e audace da sembrare più che un ago. Non avevo mai visto niente di più bello nel fatidico regno delle Dolomiti! Era il mio sogno. Il creatore l’ha messo lì per me!
Piaz partì per la guglia “dotato di un arsenale di corde di ogni lunghezza e spessore, funi, cordini e corde di 2-10 mm di spessore. Anche una buona quantità di palle di piombo perforate, delle dimensioni di un uovo di gallina. Attrezzatura davvero curiosa!” Per ore Piaz lanciò innumerevoli palle di piombo attaccate a un corda leggera lunga 20 metri fino alla sommità della “torre ribelle”, finché alla fine una superò il punto giusto e poté essere calata fino al “complice” sottostante. Dopo aver tirato nel vuoto una fune a piena forza e fissatala alla base della torre sull’altro lato, Piaz “passò come una scimmia sull’esile ponte aereo, paurosamente sospeso sull’abisso tra le due cime.
La tirolese richiedeva abilità nelle manovre di corda ma anche conoscenza delle forze elevate che un tale dispositivo scarica sugli ancoraggi. È ancora una delle tirolesi più famose al mondo, anche se all’epoca aveva suscitato inevitabili critiche. Piaz in seguito scrisse: “Non ho mai chiesto che tutto ciò fosse preso sul serio, né pretendevo di negare la comicità di un tale sistema di scalare le montagne. Per me è stata pura manifestazione della mia gratitudine verso (l’irredentista) Edmondo De Amicis, la cui scrittura mi avveva illuminato tante ore tristi della mia infanzia. Quando in un giorno lontano non sarò più in grado di scalare montagne, penserò con affetto al luminoso ricordo di quel giorno, e sarò nuovamente commosso da una grande gioia per aver dedicato nelle Alpi un monumento naturale a quel Grande che predicò l’amore al proprio Paese per generosità e bontà di cuore”.
Piaz si stava divertendo a trovare nuovi modi di fare le cose e non era infastidito dalle opinioni degli altri mentre provava nuovi strumenti e tecniche che sarebbero presto diventati modi e mezzi standard di una gamma molto più ampia di attività alpinistiche.
Nota. La dimostrazione di Piaz di “sartiame complesso” e di ancoraggi sulla Guglia de Amicis ha fatto evolvere le tecniche a corda che allora erano all’avanguardia, sebbene all’epoca fossero comunque abbastanza avanti nelle attività industriali anche il sartiame e il lavoro ad alto angolo d’incidenza. Sulle corde: anche le migliori corde di canapa italiane a fibra lunga dell’epoca avevano un carico di rottura compreso tra 7,5kN e 10kN (le corde moderne lo hanno almeno il doppio). Sembra che i produttori di corde che fornivano le corde agli alpinisti abbiano iniziato a integrare le proprietà dinamiche nella progettazione delle corde certamente entro la metà degli anni ’20, e forse anche prima. Una corda da 10 mm pesa circa 85 g/m, quindi 150 m di corda da 10 mm peseranno quasi 13 kg (28 libbre). Un primo articolo sulla corda da montagna è apparso nel 1926 sulla Rivista Mensile del CAI.
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All’inizio: astuzie e congegni
Strumenti di arrampicata precedenti al 1492
L’era moderna dell’alpinismo (1786)
Costruttori di sentieri americani, 1800
L’avvento della ferraglia
La tecnologia delle corde nel XIX secolo
Mizzi Langer, i primi chiodi da arrampicata pubblicizzati
Prima evoluzione dei chiodi da arrampicata – parte 1a
Prima evoluzione dei chiodi da arrampicata – parte 1b
Prima evoluzione dei chiodi da arrampicata – parte 1c
Prima evoluzione dei chiodi da arrampicata – parte 1d
Prima evoluzione dei chiodi da arrampicata – parte 1e
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