Verità e bugie all’Aconcagua

Quando Cesarino Fava era partito alla volta dell’Aconcagua, nel 1953, era un umile immigrato. Al suo ritorno, era umile, invalido e immigrato. Dopo alcuni articoli pubblicati subito dopo, in Argentina, il ricordo di quella storia si era sbiadito; quando la versione di Fava venne fatta circolare ampiamente, l’episodio crebbe fino a diventare leggenda (K. Cordes)”. Matteo Bertolotti cerca di ricostruire storicamente i fatti dando voce a tutti i protagonisti, anche a quelli che dopo la salita si allontanarono dall’alpinismo.

Verità e bugie all’Aconcagua
di Matteo Will Bertolotti
(pubblicato su https://sassbaloss.wordpress.com/2019/05/20/verita-e-bugie-allaconcagua/ il 20 maggio 2019)

Recentemente ho ultimato la lettura del libro Cerro Torre – 60 anni di arrampicate e controversie sul Grido di Pietra scritto da Kelly Cordes e pubblicato in Italia, solo nel 2018, da Versante Sud.

Rolando Garibotti scrive che il lavoro di Cordes è lo sguardo più ravvicinato che sia mai stato dato alla lunga storia alpinistica del Cerro Torre. Si parla delle spedizioni alpinistiche di Cesare Maestri, della schiodatura della via del Compressore e di tante altre avventure verticali che si sono svolte su quelle pareti.

A catturare la mia attenzione è il capitolo Intermezzo: fact-checking che si trova quasi al termine del libro e che riguarda Cesarino Fava e la sua salita all’Aconcagua compiuta con Leonardo Rapicavoli nel 1953.

Quello che segue è un lavoro di approfondimento che è stato possibile grazie alla disponibilità di tante persone. Mi sento in dovere di ringraziare: Ermanno Salvaterra, Claudio Rapicavoli, la Biblioteca Max Von Buch dell’Universidad de San Andrés di Buenos Aires nella persona di Natalia Westberg, l’editore Versante Sud nella persona di Roberto Capucciati, l’editore Alpine Studio nella persona di Andrea GaddiAlex Paganoni, Franco Gugiatti e Guido Combi del CAI di Sondrio.

Di tutti i testi che ho consultato evidenzio che il libro Patagonia, terra di sogni infranti di Cesarino Fava e pubblicato dal Centro Documentazione Alpina nel 1999 è di fatto il testo più diffuso e conosciuto sulla vicenda. Recentemente Alpine Studio ne ha curato ben due riedizioni.

I fatti che andrò ad analizzare si svolgono nel febbraio del 1953 ma è bene sottolineare che già nel 1952 Cesarino Fava e Leonardo Rapicavoli avevano tentato di scalare l’Aconcagua 6962 m lungo la via normale. La notizia di questo tentativo è riportata sia a pagina 3 de Lo Scarpone n. 12, del 16 giugno 1953 che a pag. 758 del libro Alpinismo Italiano nel Mondo scritto da Mario Fantin e pubblicato dal CAI Centrale nel 1972 (per precisione bibliografica è bene evidenziare che questo libro è l’edizione aggiornata de Italiani sulle Montagne del Mondo, anch’esso curato da Fantin e pubblicato nel 1967).

I due resoconti riferiscono che Cesarino Fava e Leonardo Rapicavoli nel 1952 non hanno raggiunto la vetta per prestare soccorso e salvare l’alpinista argentino Manuel Rodriguez ma discostano per altri particolari riguardanti i compagni di spedizione. Ugo Baroni e Mario Manzoni avranno raggiunto la vetta? Non ho trovato risposta a questa domanda.

Spedizione Aconcagua 1952 – L’alpinista argentino Manuel Rodriguez viene portato in salvo da Cesarino Fava e Leonardo Rapicavoli. Qui nei pressi di Plaza de Mulas (Archivio Claudio Rapicavoli)

Spedizione Aconcagua 1952: Rapicavoli (?), Fava e Rodriguez stanno per lasciare Plaza de Mulas (Archivio Claudio Rapicavoli)

Quello che segue è l’articolo pubblicato su Lo Scarpone.

Questo, invece, quanto riportato sul libro di Fantin:
«La pratica dell’alpinismo, il frequentare la montagna, il condividere con altri momenti difficili, sviluppano ed affinano le innate doti del cameratismo umano, della generosità, dell’altruismo, dello spirito di sacrificio.

L’articolo nel libro di Fantin

Questo è risaputo e non vi è chi, praticando l’alpinismo, non sappia applicare gli stessi principi anche nella vita di ogni giorno. Pur tuttavia, il desiderare per anni di compiere una scalata come quella dell’Aconcagua, incontrare la rara concomitanza di buone condizioni fisiche e di tempo favorevole, giungere a duecento metri dalla meta, esser già sicuri di conseguirla, e rinunciarvi per salvare la vita di un altro, che non è neppure del medesimo gruppo dei salitori, tutto questo richiede elette doti morali, anche se chiunque, forse, al medesimo posto avrebbe fatto altrettanto. E’ una rinuncia molto grossa. L’episodio può essere capitato più volte, anzi è accaduto infinite volte su tutte le montagne e sicuramente si è ripetuto anche all’Aconcagua. Qui io mi riferisco a quanto accaduto agli italiani Cesare Fava, Leonardo Rapicavoli, Ugo Baroni e Mario Manzoni, quando nel febbraio del 1952, trovandosi al piede della canaleta final (6800 m) o forse anche a metà di essa (6900 m) hanno incontrato l’alpinista Rodriguez, sfinito, immobile, ormai irrigidito in una contrazione, foriera di lento “trapasso”, sintomi acutissimi del terribile mal di montagna. Senza indugiare, Fava e Rapicavoli, rinunciano a raggiungere la vetta poiché, facendolo, vorrebbe significare l’abbandono per altre due ore del Rodriguez, senza soccorso. Mandano Baroni e Manzoni in cima, in nome di tutti e, con molta fatica, riescono a portare il Rodriguez molto in basso, sempre più in basso. La rarefazione dell’aria, questa imponderabile causa del logorio umano in alta quota, questo nemico che viene sempre sottovalutato, ma che colpisce tanto più ci si eleva verso le quote maggiori, è altrettanto generoso per chi sappia riportarsi in tempo a quote inferiori. Le energie rifioriscono dopo breve tempo; le nausee, il vomito, le emorragie nasali e auricolari spariscono, e l’uomo rinasce a novella vita. Così anche Rodriguez, grazie alla generosità dei due italiani, può pensare di nuovo, di tornare in montagna, con una salita più graduale. Ma l’esperienza così amara non si può dimenticare!».

Prima di addentrarmi nell’analisi e nel confronto dei fatti riguardanti la spedizione del 1953, è utile definire i personaggi protagonisti:
Cesarino Fava: nato a Malè (TN) in Val di Sole nel 1920 e socio della SAT di Trento. Nel primo dopoguerra emigrò in Argentina. La salita all’Aconcagua, qui di seguito descritta, gli costò l’amputazione delle dita di entrambi i piedi. Manderà una lettera a Cesare Maestri con scritto “Qui c’è pane per i tuoi denti” dando il via a una serie di spedizioni per tentare la conquista del Cerro Torre in Patagonia. Muore a Malè il 22 aprile 2008 a 87 anni.

Cesarino Fava

Leonardo Rapicavoli: originario di Sondrio, emigrato in Argentina è amico e compagno di scalate di Fava. Insieme tentano la salita all’Aconcagua nel 1952 per poi riuscirvi nel 1953. Anche lui, come Cesarino Fava, riporta dei congelamenti ai piedi e subisce delle amputazioni. Secondo quanto riportato da Orlando Modia, Rapicavoli poco dopo la salita all’Aconcagua è costretto a rientrare in Italia dove morirà per delle complicazioni polmonari legate alla salita. Ma non è così. Dopo una prima stesura di questa ricerca ho avuto la possibilità d’incontrare Claudio Rapicavoli, figlio di Leonardo, che mi ha fornito informazioni precise e dettagliate su suo padre. Quello che segue è il necrologio, scritto da Aurora Rapicavoli, sorella di Leonardo e pubblicato in seguito alla sua morte:

Il 1° novembre del 2002 è improvvisamente deceduto, per collasso cardiaco, il geometra Leonardo Rapicavoli.
Era nato a Milano il 13 ottobre del 1929 e, all’età di 8 anni, nel 1937, aveva raggiunto il padre, Direttore del Dopolavoro, in Eritrea, all’Asmara, con la madre, e le due sorelle, Ester, del 1928 e Aurora del 1934.
Nel novembre del 1943 era rimpatriato con le “Navi Bianche” e precisamente la “Giulio Cesare”, con la sua famiglia, mentre il padre, caduto prigioniero degli inglesi all’Amba Alagi, col Duca d’Aosta, era stato deportato in India sino al 1946.
Dall’anno 1944 all’anno 1947, divenne un provetto scalatore, cimentandosi con tutte le vette della Valtellina dove viveva con la famiglia, in attesa del rimpatrio del padre dall’India: e infatti, nel novembre del 1947 partiva per l’Argentina, la patria della madre, con tutta la sua famiglia, risiedendo per sette anni a Buenos Aires e frequentando il Club Alpino Italiano di Buenos Aires, finendo per cimentarsi con altre scalate nelle Ande Argentine.

Leonardo Rapicavoli durante la convalescenza (Archivio Claudio Rapicavoli)

Nel febbraio del 1953, avendo scalato la cima più alta d’America, l’Aconcagua di 7.000 metri, portò il gagliardetto del CAI di Sondrio sulla cima, ritirando come prova della sua impresa la bandiera brasiliana, e riportando il congelamento dei piedi, perdendo così tre dita del piede destro che metteva inevitabilmente fine alle sue imprese di montagna.
Nel 1954 si trasferì in Bolivia, a Santa Cruz de la Sierra, a ridosso della Selva amazonica, dove gestì, per circa trent’anni una segheria e una falegnameria di sua proprietà, per i legni pregiati del Sud America.
Nell’anno 1981 rientrò in Italia e per 16 anni visse a Bergamo, occupandosi sempre del commercio del legname pregiato con il Sud America, e dal 1986 andava e veniva ogni anno dalla Bolivia, per andare a trovare il figlio primogenito che vi risiedeva per ragioni di lavoro: ma il clima tropicale, straordinariamente caldo nell’anno 2002, stroncava la sua forte fibra, dopo una vita di lavoro e di sacrificio, avendo sempre nel cuore e nei suoi ricordi la sua amata Eritrea.
Lo piangono la moglie, due figli e la sorella Aurora.

Jorge Washington Flores: giovane di 22 anni, originario di Mendoza è una giovane guida che viene ingaggiata da Richard Burdsall per accompagnarlo in vetta all’Aconcagua. Muore a Mendoza nel 2010.

Richard L. Burdsall: nato a Purchase (New York) nel 1895. Dopo la laurea presso lo Swarthmore College nel 1917 come ingegnere meccanico lavorò dapprima presso l’American Friends Service Committee e in seguito nella ditta fondata dal nonno, la Russell, Burdsall & Ward Bolt and Nut Co.
L’interesse per l’alpinismo arrivò abbastanza tardi, nel 1933, quando raggiunse la vetta del Minya Konka nella Cina Occidentale. Nel 1938 partecipò come membro della prima spedizione americana al K2 e collaborò alla spedizione dell’American Alpine Club, sempre al K2, nel 1953.
Il libro K2: The Savage Mountain di Charles Snead Houston e Robert Bates, pubblicato nel 1954, racconta di entrambe le spedizioni al K2 e riferisce della partecipazione di Burdsall a quella del 1938. Qui di seguito la nota a piè di pagina nel libro. Stando a quanto riportato, Burdsall ha sempre goduto di ottime condizioni fisiche. Questa versione dei fatti è in contrasto con quanto riportato da Fava e da Flores.

Burdsall è morto sull’Aconcagua, Argentina, il 20 febbraio 1953, dopo aver raggiunto la vetta e durante un tentativo vano di scendere in cerca di aiuto per due italiani che ha trovato vicino alla vetta, completamente esausti.

Più volte, nei documenti consultati il cognome di Burdsall è scritto in modo errato. Per scelta non ho alterato i documenti presentati.

Gwendalyn Forster: è l’infermiera (o medico) che fa parte della spedizione di Burdsall.

L’Aconcagua
La vetta dell’Aconcagua venne conquistata nel 1897 da Matthias Zurbriggen, una guida alpina svizzera che operava a Macugnaga durante una spedizione guidata da Briton Edward Fitzgerald. La via normale alla vetta non presenta particolari difficoltà alpinistiche. Si sviluppa sul versante nord-ovest, e consiste principalmente in una lunga camminata che richiede alcune tappe per l’acclimatamento. I rischi sono legati principalmente a tre fattori: la quota, le brusche variazioni metereologiche e la puna. Quest’ultima è un mal di montagna tipico dell’Aconcagua (e delle Ande) che non è dovuto solo all’altitudine ma anche alle esalazioni solforose che filtrano attraverso i ghiaioni. Il malessere cessa una volta raggiunti i ghiacciai.
La salita inizia a Puente del Inca 2740 m, un piccolo paese sulla strada che sale al Paso della Cumbre e che fino al 1984 era servito da una linea ferroviaria con servizio merci e passeggeri.
Il campo base degli scalatori si trova a Plaza de Mulas 4370 m, qui c’è anche un rifugio.
Il tragitto che collega Puente del Inca a Plaza de Mulas si era soliti percorrerlo con l’aiuto di alcuni muli per il trasporto delle attrezzature e per facilitare il guado del torrente.

La vecchia linea ferroviaria che portava a Puente del Inca (Archivio Claudio Rapicavoli)

Quattro versioni per una salita
In merito alla salita di Cesarino Fava e Leonardo Rapicavoli all’Aconcagua, come ho scritto sopra, il libro più noto al grande pubblico è, di fatto, la biografia di Fava. Avevo infatti deciso di partire da questo testo e di analizzarlo dettagliatamente cercando di collocare su una scala temporale le persone e i luoghi. Ultimata questa prima parte di lavoro avrei consultato gli altri testi e realizzato una comparazione.

Il primo risultato di questo lavoro è stato un gran bel risotto. Cesarino Fava racconta tutta la sua avventura nel capitolo intitolato Luci e ombre a 7000 metri.

Ho letto dettagliatamente tutto il racconto e trascritto le fasi e gli eventi che ritenevo essere i più importanti. Dopo averlo fatto ho deciso che la mia ricerca sarebbe dovuta partire da un altro resoconto, quello pubblicato a pag. 3 de Lo Scarpone n. 12, del 16 giugno 1953. L’autore di questo articolo non è noto.
Il racconto di Fava è privo di date; non solo non fa conoscere al lettore i giorni esatti della salita ma neppure l’anno in cui si svolge. Nonostante questo, ho cercato di definire dove Fava e Rapicavoli si trovassero prima di raggiungere la vetta (20 febbraio 1953) e subito dopo averla raggiunta. Il racconto di Fava contiene alcune contraddizioni che a fatica emergono a chi legge il libro senza appuntarne i dettagli, inoltre, nel suo resoconto non fa un minimo accenno a Luigi Tofanelli, amico del CAI di Varese, che interromperà la salita per disturbi di stomaco. Fava, anziché preoccuparsi di fornire dettagli precisi e accurati, descrive con ironia e dispregio i componenti della spedizione americana di Burdsall.

Quanto pubblicato su Lo Scarpone è invece un resoconto preciso e dettagliato che colloca i personaggi nei giorni e nei luoghi.

Il terzo testo analizzato è un articolo di cronaca pubblicato sul Buenos Aires Standard, un quotidiano in lingua inglese che a quei tempi veniva stampato nella capitale argentina. Questo articolo contiene la versione dei fatti della giovane guida alpina Flores. Con mia grande sorpresa, giorni, orari e luoghi coincidono perfettamente con quanto pubblicato su Lo Scarpone. La differenza è nel comportamento di Flores.

A chiudere la ricerca è l’intervista che Orlando Modia rilascia a Ermanno Salvaterra durante un loro incontro a Ivrea nel 2012. Modia, classe 1925, tenta la salita dell’Aconcagua con Gino Corinaldesi (nato nel 1900), un amico italiano originario di Ancona e con esperienze alpinistiche alle spalle. Anche loro, come Fava, Rapicavoli e Tofanelli saliranno a piedi a Plaza de Mulas con zaini molto pesanti.

Il Presidente Perón

Modia riferisce una versione totalmente differente da quanto finora pubblicato. Sarebbero stati lui e Gino Corinaldesi a prestare soccorso a Fava e Rapicavoli e tentare di salvare Burdsall. Modia, anni dopo, ha rintracciato Flores che gli ha riferito di aver insistito affinché i due italiani e Burdsall scendessero visto il perdurare del brutto tempo. Burdsall aveva fame di vetta e si era unito ai due alpinisti italiani mentre Flores era rientrato. La notizia del soccorso all’Aconcagua da parte di Modia e Corinaldesi giunse a Juan Domingo Perón, Presidente dell’Argentina, che in quegli anni era in cerca di ‘eroi’ da mostrare alla nazione. Per questo salvataggio, Modia, ricevette un appartamento in regalo.

1) Lo Scarpone
Quella che segue è l’intera trascrizione dell’articolo pubblicato su Lo Scarpone n. 12 del 16 giugno 1953. In grassetto evidenzio alcuni particolari.

«Italiani oltre i settemila metri
(le drammatiche vicende di una scalata all’Aconcagua)
L’istituzione della Sezione del CAI, avvenuta in Buenos Aires nel 1950, fu accolta con grande entusiasmo dagli appassionati, emigranti sparsi un po’ dappertutto in questo Paese, che videro in essa la possibilità di riunirsi di quando in quando a rievocare le passate ascensioni sulle montagne patrie. Andare sulle Ande, per chi vive in Buenos Aires, date le enormi distanze da superare, richiede tempo, mezzi adeguati e quasi sempre un’organizzazione da vera e propria spedizione.
L’Aconcagua, situato al confine argentino-cileno a 32 gradi e 40 di latitudine Sud e 70 a Ovest del meridiano di Greenwich, visto dal versante nord, via normale d’ascensione, si presenta come un ammasso di sfasciumi di origine vulcanica, dall’aspetto bonario, alto m. 7035.
Nel febbraio 1952 un gruppo composto da Leonardo Rapicavoli, Ugo Baroni, Mario Manzoni, per iniziativa del socio della SAT Cesarino Fava, partì per effettuare la predetta ascensione.
Al Bivacco di Plantamura (quota 6000) Baroni e Manzoni, esauriti dalla fatica, furono costretti ad abbandonare gli amici. Fava e Rapicavoli proseguirono, ma a quota 6900, incontrato l’alpinista argentino Manuel Rodriguez, in condizioni fisiche disperate, rinunciarono alla meta agognata per salvarlo.
Questa rinuncia a un passo dalla vetta costituirà uno sprone per il nuovo tentativo che avrà luogo nel febbraio 1953.
Il 9 febbraio c.a. la spedizione, composta da Leonardo Rapicavoli, Cesarino Fava e Luigi Tofanelli, rispettivamente del CAI di Sondrio, della SAT e del CAI di Varese, tutti soci della Sezione argentina del CAI, giunge a Puente del Inca, ultima stazione ferroviaria del valico andino.
L’ascensione viene compiuta completamente a piedi, con tutto l’equipaggiamento a spalla, contrariamente all’abitudine locale di ascendere fino a 6700 a dorso di mulo. Da Puente del Inca si accede al campo base di Plaza de Mules (quota 4200) procedendo attraverso lo scosceso vallone de Los Horcones, lungo km. 35, sul cui fondo scorre il torrente omonimo perennemente color ocra.
Gli alpinisti incontrarono serie difficoltà nell’attraversare a guado nei due punti obbligati il fiume, le cui acque gelide e torrentose causano al Tofanelli forti disturbi di stomaco, che lo costringono, giunto a Plaza de Mulas, a ritornare immediatamente a Puente del Inca. Il suo ritorno è causa di preoccupazione per i compagni, sia perché rimangono in due, sia perché Tofanelli è un ottimo alpinista.

Rarefazione dell’ossigeno
Il giorno 15 la spedizione lascia Plaza de Mulas, diretta al bivacco Eva Perón, quota 6000, per passarvi la notte. Già a quota 5500 gli effetti della rarefazione dell’ossigeno cominciano a farsi sentire: vomito e spossatezza costringono i due italiani a rallentare la marcia e a fare frequenti riposi.

Il giorno 16, dopo aver atteso che la violenza del vento diminuisse, lasciano alle ore 14 il bivacco Eva Perón diretti al bivacco Presidente Perón, quota 6700, dove arrivano alle 20.
Le difficoltà di ascensione aumentano col progredire dell’altezza; lo stomaco è insofferente a qualsiasi alimento compreso il destrosio; la respirazione è sempre affannosa e s’incomincia a comprendere come questa montagna, dalla apparenza innocua, abbia potuto fare in totale 18 vittime.
E’ la
puna, mal di montagna delle Ande, che non ha nulla a che vedere con quello delle Alpi; chi ne è colpito è attaccato tanto nel fisico che nella mente; perde a poco a poco la volontà e una spossatezza lo invade. Così lentamente privati di ogni possibilità, l’Aconcagua prende le sue vittime: è la morte bianca, indolore, cinica ma non terribile.
Il giorno seguente, verso sera, giunge al “Presidente Perón” anche la spedizione Burdsal, composta dal nordamericano Richard Burdsal di anni 57 e dalla sua guida Jorge Washington Flores, giovane di 22 anni, da ritenersi per l’età e per altre considerazioni piuttosto un portatore, che una vera guida, provenienti da Plaza de Mulas, che avevano raggiunto a dorso di mulo.
Dal giorno 17 al 20 imperversa la tormenta, obbligando Fava e Rapicavoli al rifugio. La violenza del vento e il freddo intenso rendevano impossibile un’ulteriore permanenza nel bivacco, che, nella sua semplice struttura di legno, formata da due spioventi laterali che arrivano a terra, chiusi alle estremità da due paretine, non più alto di metri 1,50 con una superficie di m. 2 per 1,80, con la porta scardinata, sempre percosso dalla furia degli elementi, aveva più l’aspetto di una ghiacciaia.

Ma quando, il giorno 19, Rapicavoli e Fava stimano prudente tornare al campo base, la forza del vento li costringe a ritornare al bivacco.
Finalmente il giorno 20 le condizioni del tempo permettono, verso mezzogiorno, di attaccare l’ultimo tratto che li separa dalla vetta.
Sul tetto delle Americhe
Flores cerca di convincere il Burdsal a rinunciare, per l’indebolimento che la prolungata permanenza a quella altezza causa, ma il Burdsal, che aveva già formato parte di una spedizione all’Himalaya e scalato molte vette importanti del suo Paese, impose alla guida la propria volontà.
Flores, preoccupato dalle condizioni del suo cliente, prega i due alpinisti italiani di formare un solo gruppo. Il ritmo di marcia è in tal modo ritardato, oltre che dalle difficoltà dell’altezza, anche dalla lentezza del Burdsal.
Raggiunta la
Canaleta (canalone), quota 6900 circa, per comune accordo Rapicavoli precede speditamente verso la vetta, raggiungendola alle ore 20. Fava giunge alle ore 20.30 e il Burdsal con la guida alle ore 21.
Il tetto delle due Americhe dà un’impressione sublime di grandiosità; si eleva sopra le cime della Cordigliera di gran lunga più alto e spazia solo fra le nubi, dominando incontrastato l’enorme vastità delle Ande. Il vuoto e la solitudine dei 7000 metri empiono l’animo di un’arcana sensazione: dal Pacifico i raggi del sole cadente giungono su noi, illuminando l’ultima parte della vetta. Tuttavia il cielo è già tempestato di stelle; giù in basso è notte. Ci sentiamo su di un’oasi luminosa, librata nello spazio.
Accanto alla croce, nella cassetta apposita, i due alpinisti depositano secondo l’uso argentino, le bandierine che hanno portato sul petto: del CAI Sezione argentina, del CAI di Sondrio e della SAT di Trento, ritirando una bandierina del Brasile e una della città di Mendoza, lasciate da una precedente spedizione, scrivendo nel libro le loro impressioni.
Comincia il ritorno
Prima di scendere, la guida Flores prega i due connazionali di restargli accanto, preoccupato per le condizioni del suo cliente che peggiorano.
Poi scende per primo, allontanandosi però rapidamente.
Mentre Rapicavoli si intrattiene aiutando il Burdsal che si reggeva a stento, Fava si preoccupa di raggiungere la guida per fermarla.
In fondo alla Canaleta, fermata la guida, alla richiesta di una giustificazione del suo comportamento, questa risponde che, avendo le scarpe rotte, teme un congelamento e perciò si affrettava verso il bivacco Perón per preparare una bevanda calda e portarla anche agli altri, cosa assurda perché il tutto comportava sei ore di tempo.
Fava gli ingiunge energicamente di non andarsene per nessun motivo; Flores risponde pregando Fava di prendersi la responsabilità del Burdsal e di lasciarlo scendere, responsabilità che Fava rifiuta in modo categorico di assumersi, perché era assurdo che in tali circostanze una guida che era in buone condizioni, pagata per la sua professione, declinasse così leggermente le sue responsabilità addossandole a terzi, occasionali compagni di itinerario; Flores senza rispondere riprende la sua discesa scomparendo in brevi momenti.
Già sta scendendo la notte: il vento che fino a questo momento era sopportabile, comincia a soffiare con sempre maggior violenza. Rapicavoli e Fava fanno il possibile per perdere quota rapidamente, ma a m. 6800 con un uomo all’estremo delle forze come il Burdsal, che scende ormai seduto, sotto il vento che ostacola i movimenti, ogni tentativo diventa un incubo. Toltosi gli occhiali per vedere nella notte, ben presto Fava ne subisce l’inevitabile e temuta conseguenza: perdere la vista. Nell’impossibilità di raggiungere il bivacco in quelle condizioni e di scendere speditamente, altro non rimane che cercare riparo sul luogo, ricerca molto difficile per la scarsa visibilità, per il vento e soprattutto per la conformazione del terreno, aperto e primo di quei ripari che le nostre Alpi offrono a profusione.
Perciò sistemato alla meglio sul luogo il Burdsal, che ormai non poteva più muoversi, i due alpinisti cercano nelle immediate vicinanze un riparo. Dopo aver cambiato ambedue posto varie volte, finalmente a un’ottantina di metri trovano un masso, dietro il quale, dopo aver ampliato una buca con la piccozza, si riuniscono a passare la notte gelida e tormentosa, accovacciati, occupando a turno il posto più basso della buca.
Fra raffica e raffica di vento, si tengono in contatto tutta notte col Burdsal a richiami; nella lunga e snervante attesa del nuovo giorno, si preoccupano, consci del pericolo, di una cosa sola, di non dormire. Non si deve assolutamente dormire.
Ai primi albori si apprestano a proseguire la discesa, ma Rapicavoli si accorge di essere colpito da una cecità parziale. Distingue solo vagamente i contorni della montagna, ma non vede ciò che ha vicino. Fava decide di bendarsi gli occhi per le violente trafitture. Ambedue hanno gli arti insensibili e pesanti, già in via di congelamento; si spostano qua e là per cercare il Bursal, ma questo non risponde più ai richiami.


Fava e Rapicavoli allora iniziano il penoso ritorno seguendo il canalone (Gran Acarreo) che con un’inclinazione molto accentuata e senza interruzione, scende dalla vetta fino a lato del campo base, coprendo un salto di circa 300 m. di dislivello. Tenendosi per mano, scivolando, cadendo, trascinandosi riescono a perdere quota. Nell’affannosa discesa Fava, che non vede, mette un piede in fallo precipitando per una cinquantina di metri assieme a Rapicavoli.
Solo a quota 5000 trovano inaspettatamente la guida Flores che dal bivacco Perón scendeva dalla via normale verso il campo base. Questa li aiuta a discendere mentre li tempesta di domande sul Burdsal, che i due alpinisti non hanno potuto rintracciare e che credono morto. Dopo altre 4 ore di marcia faticosa, giungono finalmente a Plaza de Mulas dove le persone che vi si trovano prestano loro i soccorsi agli occhi e agli arti.
Con due muli che si trovano sul posto i due italiani scendono fino a Puente del Inca dopo un viaggio di otto ore, accompagnati da uno degli ospiti del rifugio. Qui all’albergo Terme, tre medici argentini prestano le prime cure e dispongono il loro trasporto a Buenos Aires all’ospedale Alvear, provvedendo anche alle autoambulanze fino al treno e a Buenos Aires sino all’ospedale.
La loro degenza segue tuttora (dopo 40 giorni) avendo subìto Fava l’amputazione delle dita dei piedi ed essendo probabile anche l’amputazione di alcune dita del piede destro di Rapicavoli.
La spedizione di soccorso con la guida Flores ritrovò il Burdsal ancora vivo, ma nel viaggio di ritorno l’alpinista americano decedeva poco prima di arrivare a Puente del Inca.
Nota
Come è noto, il maggior problema da risolvere alle grandi altezze, dopo quello della respirazione, è l’alimentazione. Già a quota 4000 si va soggetti a nausee, mal di testa e vomito; tutti disturbi che hanno la durata di due giorni, spesso anche più a seconda dello stato fisico dell’individuo.
Gli stessi si possono però prevenire, ingerendo molta cipolla cruda e aglio. Verso quota 6000, pur avendo una buona alimentazione e non soffrendo dei disturbi suddetti, lo stomaco non tollera che determinati alimenti; tè con latte condensato, qualche biscotto, destrosio, caramelle di limone molto acide; strano a dirsi, pesce in scatola molto piccante, sogliole, tonno, acciughe, frutta fresca, preferibilmente mele, se non vi fosse l’inconveniente del peso; della frutta secca le migliori sono noci, noccioline e mandorle. Uva, prugne e fichi secchi sono intollerabili. Oltre 6700 m. mancando dell’alimento sintetico a base di vitamine, sono ingeribili le caramelle di limone e il destrosio preso a piccole dosi. Il tè, quando si ha la possibilità di prepararlo, è sempre l’alimento preferito».

2) Buenos Aires Standard
In seguito alla morte di Burdsall, il Buenos Aires Standard, conosciuto anche con il semplice nome di The Standard pubblica un resoconto sulla spedizione dell’ingegnere americano. A dar voce ai fatti è Flores, la giovane guida alpina. Date e luoghi combaciano alla perfezione con quanto pubblicato da Lo Scarpone. Le prime differenze si trovano nel comportamento di Flores. La guida scende velocemente al bivacco Juan Perón per preparare cibo e tè da portare a Fava, Rapicavoli e Burdsall. Non li troverà perché i tre anziché scendere lungo la via normale si abbassano lungo il Gran Acarreo (vedi cartina n. 2 sopra pubblicata). Flores, che ha con sé zaini e sacchi a pelo, inizia la ricerca di Fava, Rapicavoli e Burdsall. Dopo ore incontrerà Fava e Rapicavoli in pessime condizioni e li accompagnerà a Plaza de Mulas dove verranno soccorsi e ripartirà alla ricerca di Burdsall. Lo troverà ancora in vita e lo accompagnerà a Plaza de Mulas ma (questi) da lì a poco morirà.

Come il sig. Bursal ha incontrato la sua morte
«Il sig. Jorge Washington Flores del Club Andinista di Menzoza, che era stato ingaggiato come guida dal sig. Richard Bursal, l’ingegnere nord americano che è morto dopo aver raggiunto la vetta dell’Aconcagua, ha fornito alcuni dettagli sull’evento.
Ha detto di aver lasciato Mendoza l’11 febbraio con Burdsal e la signorina Gwendalyn Forster e dopo tre giorni erano a Plaza de Mulas. Il 16 febbraio hanno raggiunto l’altitudine di 6000 metri e apparentemente Burdsal avvertiva già gli effetti dell’aria rarefatta.
Il giorno seguente raggiunsero i 6600 metri e nel tardo pomeriggio il rifugio Joan José dove trovarono Cesar Fava e Leonardo Rapicarelli (il quotidiano storpia il cognome di Rapicavoli, NdA) del Club Alpino Italiano. I due si trovavano in un pessimo stato di salute. I cinque decidono di provare a raggiungere la vetta il giorno successivo ma a causa del maltempo sono costretti a posticipare l’ascesa al 20 febbraio.
Partirono nonostante il vento molto forte e alle 5.00 il gruppo si trovava ai piedi della Canaleta ad un’altitudine di 6900 metri.
Gli italiani sono stati i primi a tentare di raggiungere la vetta seguiti da Flores e Burdsal che la raggiunsero alle 21.00 dello stesso giorno.
I due italiani e l’americano erano completamente esausti e così Flores dovette ritornare al rifugio (bivacco, NdA) per preparare cibo e bevande calde per i loro compagni.
Quando Flores ritornò con il cibo scoprì che i tre uomini erano scomparsi. Cominciò a cercarli e scese a 6700 metri dove si addormentò a causa della stanchezza. Si risvegliò e continuò a cercare Burdsal e i due italiani. Trovò gli italiani mentre scendevano con grande difficoltà, essendo quasi accecati dalla neve che sferzava contro i loro occhi, spazzata dal vento.

Li prese e li portò a Plaza de Mulas e ritornò a cercare Burdsal. Lo trovò a 6300 metri e iniziò ad accompagnarlo in basso. (Questi) morì poco prima di essere trasportato con i muli a Puente del Inca».

3) Patagonia, Terra di sogni infranti
Come già detto precedentemente il racconto di Fava contiene delle contraddizioni e dei dettagli poco chiari che rendono faticoso, ma non impossibile, ricostruire la dinamica temporale. Fava preferisce dilungarsi in particolari atti a denigrare il comportamento di Flores sin dal loro primo incontro. I termini di narrazione mi sembrano decisamente sopra le righe e fuori luogo, ma questo probabilmente fa parte del carattere di Fava, visto che ho provato lo stesso fastidio leggendo altri suoi scritti pubblicati in merito alle spedizioni al Cerro Torre. Riporto qui, in ordine di narrazione, alcuni particolari che, cercando di svolgere un’analisi imparziale dei fatti, risultano decisamente superflui.

Seguono alcune citazioni dal capitolo Luci e ombre a 7000 metri:
«Il tempo è splendido. Non un alito di vento. Richard Burdsall è lì sotto la vetta, a meno di 50 passi, assieme a una “guida” di Mendoza. Salgono con una lentezza esasperante. Eppure fra mezz’ora, al massimo 40 minuti saranno qui anche loro a 7000 metri, sulla cima della montagna (i tempi corrispondono con quanto pubblicato su Lo Scarpone e The Standard, NdA).

[…] E poi a cosa servirebbe sapere che ore sono? E’ tardi, questo è certo. Non ci resta che una cosa da fare: scendere, fuggire via da queste gelide pietraie. Ci siamo trattenuti qui troppo tempo! Via, giù. Non dobbiamo farci sorprendere dall’oscurità della notte che incombe.

[…] Richard Burdsall, un ingegnere meccanico, ci aveva raggiunti al campo base di Plaza de Mulas. A Puente de Los Incas, dove si arriva con il pittoresco treno a cremagliera che unisce Mendoza a Santiago de Chile attraverso il passo andino di Las Cuevas, aveva noleggiato i muli per trasportare uomini, viveri e materiali, sino al campo base dove era arrivato in giornata. Noi a piedi, portando tutto a spalla avevamo impiegato 3 giorni. In compenso eravamo arrivati al campo base molto ben acclimatati.

[…] Il distacco che c’era tra di noi, come pure il modo diverso di intendere l’alpinismo, fu subito evidente.

[…] Loro ci guardavano con sufficienza.

Guglia di ghiaccio alta 30 m nei pressi di Plaza de Mulas (Archivio Claudio Rapicavoli)

[…] Non scambiammo una parola. Zitti loro, zitti noi. Quando per passatempo scalai un seracco alto una decina di metri, lì vicino al campo, senza ramponi e con la sola piccozza, mentre dopo vari tentativi la “guida” di Burdsall, armata di tutto punto, dovette rinunciare, le relazioni subirono un ulteriore raffreddamento.
Quella situazione ridicola si poteva risolvere in un modo soltanto: lasciando il campo.
“Andiamocene via” dissi a Leonardo, il mio compagno e carissimo amico. “Partiamo Domani”.
Conversando in piacevole compagnia, le ore passavano velocemente. Soltanto la “guida”, che si sentiva estromessa, faticava a nascondere la sua irritazione, che esplose quando Burdsall ci propose di salire assieme, offrendoci l’appoggio dei suoi muli.
Mi ritirai di malumore. Decidemmo di lasciare il campo base e incamminarci verso la vetta il mattino seguente. E così facemmo.
Ci trovammo purtroppo, tre giorni dopo, a 6700 metri. Ventiquattr’ore prima che una serie di errori ci portassero nel tunnel di una tragedia.

[…] Salimmo con poco entusiasmo.

[…] Leonardo mi precede con passo cadenzato, ritmato e costante. Fa una pausa più o meno ogni quarto d’ora. Per un paio d’ore continuiamo così: senza una parola, muti e ansimanti.
“Come va?” chiedo approfittando di una sosta.
“Non male; quei tre giorni di marcia da Puente de l’Inca al campo base (Plaza de Mulas, NdA) e le giornate di riposo con le piccole marce giornaliere là al campo a 4000 metri mi hanno rimesso in sesto”. 

[…] A seimilasettecento metri rimaniamo intrappolati per tre giorni da una violenta tempesta di sabbia. (Qui Fava e Rapicavoli si trovano al bivacco Juan Perón, NdA).

[…] La sensazione termica è quella che è: saranno 25 o 30 gradi sotto zero.

[…] Avremmo bisogno di tre litri d’acqua al giorno e non riusciamo a berne nemmeno uno.

[…] Sentiamo un rumore pesante di zoccoli, delle voci. Esco da dietro un pinnacolo di sfasciumi con il barattolo pieno di neve pulita. Guardo giù e vedo sul pendio tre muli con i rispettivi cavalieri. Ho un momento di stizza. Che modo di andare in montagna! Leonardo, che di noi due è il più tollerante, dice che in montagna ognuno va come meglio può e crede.

[…] Mister Burdsall, sceso dal mulo, ci propone di proseguire assieme.

[…] (E’ il 20 febbraio, giorno di salita alla vetta, NdA): “Leonardo, se vuoi vai. Io, costi quel che costi, prima mi faccio una buona bevuta di tè e vedo di ingoiare qualcosa di solido. Poi vi verrò dietro e da qualche parte ci incontreremo”.
Dopo un po’ mi avvio anch’io, pian piano, svogliatamente. Loro devono essere già in vetta.

[…] Parto. Superato il crinale di sfasciumi, con sorpresa li vedo a non più di cento metri! Fermi. Ma salgono o scendono? Vanno o tornano? Porca miseria, vanno! Ma che cazzo hanno fatto tutto questo tempo?

A 6000 m, poco sotto il bivacco Eva Perón (Archivio Claudio Rapicavoli)

[…] Ancora una volta mi prende il desiderio di piantare tutto e scendere. Ma la vetta è lì a poche decine di metri di dislivello. Salgo. Leonardo mi segue a ruota. (Stando a questo resoconto, Fava passa in testa seguito da Rapicavoli. Lo Scarpone però riferisce che il primo a raggiungere la vetta fu Rapicavoli, NdA).

[…] Giù nelle profonde valli, sotto i 3000 metri, è già notte. Su in cielo brillano già le stelle.

[…] Leonardo sta brancicando attorno a Burdsall. Non capisco cosa succede.
“Non si regge, non si regge! Sono le parole agitate di Leonardo. Parole che cadono come piombo. E’ la fine.
Ma l’altro dov’è? Fuggito, è fuggito via, abbandonando al suo destino il cliente che lo aveva profumatamente pagato per essere accompagnato e assistito.

[…] Provo smarrimento, rabbia, un senso di ribellione. Tra poco sarà notte. Per un errore madornale, abbiamo lasciato il sacco a pelo al bivacco. Per Burdsall è la fine. (Anni dopo Fava dirà di aver lasciato i sacchi a pelo alla base della Canaleta, NdA).

[…] La voce dentro di me insiste: scendi, fuggi via! Ma si può abbandonare al suo destino una persona perfettamente cosciente, se pur con le gambe paralizzate, senza almeno tentare di fare qualcosa? Ancora la voce. Scendi, scendi, fuggi via!
“Leonardo, dai, andiamo giù. Pianta lì tutto, andiamo via”.
Un urlo selvaggio di Burdsall mi blocca. Poi, obbedendo alla voce, riprendo a scendere.
All’inizio della traversata raggiungo la guida che sta scendendo velocemente: con la mano sinistra lo blocco alla spalla e con la destra alzata, armata di piccozza, pronto a colpire… Nooo! Rimango con il braccio alzato. Un dramma nel dramma, no! Mi accascio, esasperato. L’altro fugge. Piango. (Lo Scarpone riporta di uno scambio verbale tra Fava e Flores. Quest’ultimo riferisce di scendere a prendere cibo e tè. Lo stesso è contenuto nell’articolo del The Standard, NdA).

NdA: quella che segue è una descrizione di Fava poco chiara di come trascorre la notte. Dal riparo dietro al sasso allo scavo di una buca che servirà da bivacco. Burdsall era già stato ‘abbandonato’ più in alto. Nello scritto non viene riferito se venne predisposto per lui un bivacco o adagiato in una posizione di riparo. Certo è che la discesa, la mattina seguente, prosegue senza di lui.

[…] Arriva il mattino e c’è un tempo splendido: non un alito di vento. Il peggio è passato. La vista è tornata. Ci vedo pochissimo, ma abbastanza per trascinarmi giù. Sì, sono sicuro che ce la farò.

[…] Un fitto dolore scende per le cosce e invade le gambe. E’ il sangue che rifluisce nelle vene e nelle arterie. Dove c’è dolore c’è vita, dicevano i nostri saggi vecchi. I piedi però non dolgono affatto, e questo sì, mi preoccupa.

[…] fisso come punto di riferimento la cima del Cerro Cuerno e come meta il campo base di Plaza de Mulas. Devo farcela in giornata.

[…] “Forse è meglio andare al bivacco a recuperare gli zaini e il sacco piuma” dice Leonardo, che è ancora dentro al buco.
“Leonardo” dico “se andiamo a recuperare gli zaini non ce la faremo a raggiungere il campo base: è un giro troppo lungo. Non ce la faremo a resistere un’altra notte, con il sacco piuma o senza”.

Ma Leonardo insiste.
“Basta, basta! Io vado giù diritto; tu vai dove vuoi!”.

NdA: Rapicavoli non andrà al bivacco Juan Perón a recuperare il materiale ma di fatto Fava prosegue la discesa senza di lui. Si riuniranno più in basso.

[…] Un debole ma chiaro “aspettami!” interrompe i miei pensieri confusi. Su in alto, verso est, intravedo Leonardo che riconosco dal duvet bianco. Scende lento ma eretto; insomma cammina. Ma allora chi striscia? E’ l’americano! E’ Burdsall che sta ancora lottando!

[…] Ripetuti “Help! Help!” mi giungono chiari mentre muovo i primi passi e sembrano riempire tutto il vasto versante nord dell’Aconcagua, tanto rimbombano nei miei timpani. La tragedia non si è ancora conclusa e io non posso far nulla per evitarla.

[…] Richard Burdsall è un alpinista, un coraggioso alpinista che da oltre ventiquattro ore lotta con tutte le sue forze contro la tormenta, il freddo intenso, la disidratazione e l’inedia, per sfuggire dalle unghie della morte. Ciò che duole è la vigliaccheria, la codardia di chi, pagato per assisterlo, di fronte al pericolo è fuggito via, abbandonandolo al suo destino.

[…] Con un grido Leonardo mi avverte che non lontano, alla nostra destra, c’è un mulo. Alzo la benda che mi protegge gli occhi dai raggi solari e vedo un uomo scendere verso il campo base a passi allungati.
Leonardo insiste che è un mulo. Lancio un grido e la figura in movimento si ferma.
“Vedi? Se fosse un mulo non si sarebbe fermato”.
In fondo alla morena, a meno di un’ora dal campo base, facciamo un incontro inatteso e sgradito. E’ lui, la “guida” dell’ingegner Richard Burdsall. (The Standard riferisce cose diverse in merito a quest’incontro e alle circostanze in cui è avvenuto, NdA).
Un’onda di rabbia, come una marea crescente, invade tutto il mio essere, ma l’estremo sfinimento la trasforma in una profonda amarezza ancor prima che esploda. Forse è meglio così. Mi calmo e con voce ferma gli ingiungo di andar su ad aiutare il suo cliente.
“E’ lassù, a circa 1500 metri da qui” gli dico. Ma lui, con incredibile spudoratezza, mi risponde: “Prefiero acompanarlos a ustedes!” – preferisco accompagnare voi.
A questo punto Leonardo, che non discute mai, esplode: “Noi non abbiamo bisogno di nessun aiuto! Siamo ormai a un’ora dal campo base! E’ Burdsall che ha bisogno di essere soccorso, adesso, subito!”.
Ma l’altro, insolente, con la mutria del vigliacco incallito, insiste aggiungendo che noi siamo scesi troppo a destra e che se vogliamo raggiungere il campo base dobbiamo spostarci molto, ma molto più a sinistra, proprio il contrario di quanto stiamo facendo.
A questo punto non ho più dubbi sulle intenzioni di questo figuro.
“Leonardo” dico parlando in dialetto “impugna bene la piccozza, tienilo d’occhio e seguimi”.
Per un po’ ci seguì di fianco, poi, come era arrivato, se ne andò via per conto suo. Un po’ più di un’ora dopo, dopo che il sole era tramontato, accolti da un gruppo di bravi andisti che ci prodigarono infinite attenzioni, entrammo finalmente nella baracca del campo base, più sicura e accogliente di una reggia.

[…] Ma le sorprese non finirono qui: quando al mattino del giorno dopo ci svegliammo, nella baracca del campo base, circondati da mille attenzioni, scoprimmo meravigliati di trovarci nei nostri rispettivi sacchi piuma! E là, in un angolo, c’era pure lo zaino di Leonardo. Ma se noi avevamo lasciato tutto al bivacco a 6700 metri? Chi li aveva presi? Chi li aveva portati qui? La “Guida”! Ecco perché quell’enorme zaino che lo faceva somigliare a un mulo. Abbandonato il suo cliente, era fuggito ed era andato a dormire nel bivacco a 6700 metri, coprendosi con quattro sacchi piuma! E il giorno dopo, credendo impossibile che fossimo sopravvissuti alla terribile notte di vento, o forse per toglierci l’ultima possibilità di salvezza, aveva portato via tutto. Una grande canaglia. Un assassino potenziale (Fava, molti anni dopo, durante un’intervista riferisce di aver lasciato i sacchi da bivacco alla base della Canaleta e non al bivacco Juan Perón, NdA)».

4) Orlando Modia
Orlando Modia oggi vive a Ivrea ma è originario dell’Argentina e per motivi politici è stato costretto a cambiare più volte nazione. Non è mai stato un alpinista ma nel ’53 con Gino Corinaldesi tenta la salita dell’Aconcagua. Sarà Modia a prestare i primi soccorsi a Fava e ad accompagnarlo, con dei muli, a Puente del Inca. Gino Corinaldesi si adopererà per prestare soccorso a Burdsall. Quella che segue è la trascrizione di parte del capitolo di Kelly Cordes e contenuto nel libro Cerro Torre – 60 anni di arrampicate e controversie sul Grido di Pietra. Si ringrazia Versante Sud per la gentile concessione.

«Orlando Modia, ultraottantenne, residente a Ivrea, ha vissuto in Argentina e diversi paesi del Sudamerica e dell’Europa. Fino al 1953 non aveva mai avuto a che fare con il mondo dell’alpinismo.
2012: un salto avanti nel tempo di quasi sessant’anni. Ermanno Salvaterra, dal nulla, riceve un’e-mail da Alessandro Modia Rore, figlio di Orlando Modia. Non si conoscevano, ma Modia Rore intuiva la credibilità di Salvaterra da alcuni articoli che aveva letto. Modia Rore voleva raccontare a qualcuno la storia di suo padre: fin da quando era bambino aveva sentito racconti su quel pazzesco tentativo di soccorso sull’Aconcagua.
“Voglio solo che qualcuno riconosca quello che ha fatto allora, prima che muoia”, mi ha detto Modia Rore. “Per lui è stato davvero fastidioso scoprire che in tutti questi anni ci sono state così tante menzogne su un’esperienza che ha coinvolto la sua vita. Soprattutto, scoprire che un uomo ‘piccolo e insignificante’ si sia fatto passare per eroe”.
Quando Salvaterra ha sentito la storia di Modia Rore ha guidato fino a Ivrea per filmare e registrare un’intervista con l’anziano Orlando e il figlio. Salvaterra mi ha poi passato l’intervista, e io sono rimasto in contatto con Modia Rore per approfondire.
Ed ecco la storia di Orlando Modia.

Orlando Modia era nato e cresciuto a Buenos Aires, e non aveva nessuna esperienza di alpinismo. Ma nel febbraio 1953 gli capitò per caso di trovarsi sull’Aconcagua nello stesso momento di Cesarino Fava e Leonardo Rapicavoli. Non si erano mai incontrati in precedenza.
Modia era con Gino Corinaldesi, suo buon amico e mentore, un alpinista esperto, più grande di lui di venticinque anni. Erano entrambi amanti dell’avventura, e Corinaldesi aveva coinvolto Modia ad allenarsi con lui per tentare la salita dell’Aconcagua. Ci provarono due volte, senza mai riuscirci.
Durante il secondo tentativo, da un campo in alta quota, Corinaldesi vide con il binocolo due persone che erano evidentemente in difficoltà. Si trovavano in una zona nota come Gran Acarreo, a circa seimilacinquecento metri di quota. Modia Rore ricorda il racconto di suo padre: “uno stava cercando di camminare, ma poi cadeva ogni due passi. L’altro era in piedi, ma sembrava uno zombie”.
Corinaldesi e Modia salirono il più velocemente possibile cercando di aiutarli. I due alpinisti in difficoltà erano Cesarino Fava e Leonardo Rapicavoli. Entrambi erano accecati dalla neve e sfiniti. Nel video di Salvaterra, Modia racconta che i due “camminavano in cerchio attorno a una roccia”. Corinaldesi e Modia chiesero loro in quanti erano. “Tre”, era stata la risposta. Una terza persona? “Uno Yankee che abbiamo incontrato. Era con noi, prima, ma ora non sappiamo più”.
Burdsall era disperso più in alto. Corinaldesi disse a Modia di scendere portando Fava e Rapicavoli verso la salvezza, non c’erano grosse difficoltà tecniche. Corinaldesi invece salì in cerca di Burdsall.
Modia riuscì a portare Fava e Rapicavoli a valle, in una località chiamata Plaza de Mulas. Lì, un gruppo di muli di proprietà di un certo Carmodi stava aspettando la discesa della spedizione di Burdsall. Modia spiegò la situazione e Carmodi lo istruì, dicendogli di caricare Fava e Rapicavoli sui muli e scendere fino a Puente del Inca, a circa quaranta chilometri di distanza, mentre lui sarebbe rimasto lì per poter aiutare Burdsall e Corinaldesi. A Puente del Inca, i soldati e altre persone aiutarono il terzetto.
Più in alto, sulla montagna, Burdsall non fu così fortunato. Quando Corinaldesi lo trovò era in fin di vita, e morì poco dopo.
Qualche settimana più tardi Modia riuscì a parlare con Flores, la guida di Burdsall che spiegò che, visto che avevano incontrato Fava e Rapicavoli, avevano unito le forze. Ma a un campo alto il tempo era peggiorato e Flores aveva insistito perché scendessero. Burdsall aveva fame di vetta, e Fava e Rapicavoli rimproverarono Flores perché voleva scendere, dubitando del suo coraggio. “Erano molto arroganti”, raccontò Flores a Modia. “Io ero solo un poveraccio di Mendoza, mentre loro erano degli esperti alpinisti”. Burdsall decise di restare con Fava e Rapicavoli per tentare la vetta, mentre Flores scendeva.
“Mettiamo bene in chiaro una cosa”, dice Modia nel video. “I due italiani [Fava e Rapicavoli] hanno abbandonato l’americano. Lo hanno abbandonato per salvarsi la vita”.
Impossibile sapere chi dice la verità. Fava, Flores o Modia?

Modia e il figlio hanno aggiunto altri elementi alla storia di Fava.
Poco dopo, a Buenos Aires, Modia ricevette un appartamento in dono dal presidente Juan Domingo Perón, populista, che conosceva. Un quotidiano aveva pubblicato un articolo che raccontava il coinvolgimento suo e di Corinaldesi del soccorso (a oggi non sono riuscito a rintracciare questo articolo, NdA). A quei tempi, il governo era in cerca di eroi da celebrare. Modia riferisce che Rapicavoli era rientrato in Italia, dove morì poco dopo per via di problemi ai polmoni derivati dalla spedizione sull’Aconcagua, mentre Fava desiderava restare in Argentina. Modia provava pena per Fava, i cui piedi erano ridotti a moncherini. Chiese a Perón se si poteva far qualcosa per aiutare Fava, a cui fu assegnato un piccolo chiosco nella stazione Primera Junta della metropolitana di Buenos Aires (è ben noto che Fava, a Buenos Aires, aveva lavorato come venditore di strada).
Nel 1955 un colpo di stato militare rovesciò il governo di Perón. Fu di una brutalità senza precedenti, con persecuzioni e omicidi dei membri del partito di Perón e dei suoi simpatizzanti. Il regime si faceva sempre più dittatoriale e il 9 giugno del 1956 il generale Juan José Valle, un moderato, guidò un gruppo di Perónisti, tra cui Modia, in un tentativo di contro-golpe. Il tentativo fallì e nel giro di tre giorni trenta persone, sospettate di coinvolgimento, furono assassinate.
Modia fuggì, temendo per la vita. Non mangiava da cinque giorni, non aveva praticamente dormito. Si domandò a chi poteva chiedere aiuto. Cesarino Fava non solo gli doveva la vita, ma anche la sua nuova vita. Modia racconta di aver bussato alla porta di Fava, che si rifiutò di farlo entrare. Modia, temendo che i vicini potessero sentire una discussione animata tra loro due, scappò.
Riuscì a lasciare l’Argentina, e durante i sei anni successivi riparò in Uruguay, Brasile, Paraguay, Cile e Spagna. Nel 1975 Modia si trasferì con la famiglia in Italia, a Ivrea.
Tra il 2006 e il 2007, in un centro congressi di Ivrea, era prevista una presentazione di un alpinista che avrebbe raccontato un suo tentativo sul Cerro Torre. Il poster colpì l’attenzione di Modia, soprattutto per un dettaglio: un ospite speciale, di riguardo, sarebbe stato presente: Cesarino Fava.
Né Modia né i suoi familiari avevano mai letto l’autobiografia di Fava, e solo più tardi avrebbero scoperto la sua versione dei fatti su quanto accaduto sull’Aconcagua. Non si interessavano di alpinismo – dopo quella spedizione, Modia non aveva più scalato, ed era diventato un imprenditore di successo – e non erano a conoscenza della discreta fama di Fava. Ma Modia si ricordava la porta sbattuta in faccia nel 1956.
Alessandro Modia Rore, il figlio di Orlando, ricorda quella serata a Ivrea. “Siamo andati tutti a quella serata. Tutta la mia famiglia. Durante una pausa mi sono avvicinato a Fava e mi sono presentato. All’inizio non ha capito, ma poi gli ho spiegato chi era mio padre. Anche se aveva sicuramente bevuto un paio di bicchieri di vino, è sbiancato”.
“Nel frattempo si è avvicinato mio padre, portandosi di fronte all’uomo piccolo e insignificante. Io gli ho detto, ‘Lui è mio padre, si ricorda?’.
“Lui ha abbracciato mio padre, in lacrime. Mio padre era rimasto impassibile, come una statua! Poi hanno iniziato a parlare, e lui inventava scuse, dicendo che era stata sua sorella a obbligarlo a non aiutare mio padre, bla, bla, bla. Mio padre ha continuato ad ascoltarlo sorridendo, tutto il tempo”.
“Ha promesso che lo avrebbe invitato al suo ‘Circolo Alpino’ per parlare di lui, di quello che aveva fatto per lui, e che avrebbe scritto di lui, e tutte queste cose. Non è successo niente di tutto questo”.

Quando Cesarino Fava era partito alla volta dell’Aconcagua, nel 1953, era un umile immigrato. Al suo ritorno, era umile, invalido e immigrato. Dopo alcuni articoli pubblicati subito dopo, in Argentina, il ricordo di quella storia si era sbiadito; quando la versione di Fava venne fatta circolare ampiamente, l’episodio crebbe fino a diventare leggenda. Durante la lunga convalescenza Fava vide l’articolo che raccontava di Maestri che saliva le Dolomiti di Brenta in solitaria. Fu in quel momento che scrisse la sua famosa lettera, invitandolo ad andare sul Cerro Torre. Presto Fava sarebbe diventato “un eroe” grazie al legame con la “più grande impresa alpinistica della storia”».

Contributi video
In merito a quanto riferito da Orlando Modia penso valga la pena visionare questi brevi spezzoni video.
Il primo appartiene al film Cesarino e i colori della vita di Tiziano Gamboni e Gianluigi Quarti e realizzato dalla TV Svizzera. Nei pochi minuti che ho scelto di proporre, Cesarino Fava racconta del chiosco e di come ne sia entrato in possesso. Non contiene nessun riferimento a Orlando Modia.
Gli altri appartengono all’archivio di Ermanno Salvaterra e ritraggono Orlando e Alessandro Modia che riferiscono in merito al soccorso prestato a Fava, Rapicavoli e Burdsall.

VIDEO 1: Cesarino Fava racconta del chiosco e non accenna minimamente al fatto che ne è entrato in possesso grazie a Orlando Modia.

VIDEO 2: Orlando Modia e suo figlio Alessandro raccontano i fatti accaduti all’Aconcagua e il salvataggio di Fava, Rapicavoli e Burdsall. Non si può rimanere indifferenti quando Modia afferma: “Parliamo di una cosa chiara, l’hanno abbandonato“. Archivio Ermanno Salvaterra.

VIDEO 3: Alessandro Modia riferisce per conto del padre Orlando che la guida Flores non ha mai raggiunto la vetta ma ha rinunciato alla salita per il brutto tempo invitando anche gli italiani e Burdsall a scendere con lui. Archivio Ermanno Salvaterra.

VIDEO 4: A Plaza de Mulas arriva Carmodi con dei muli per riportare a Puente del Inca i suoi clienti (Flores e Burdsall). Carmodi si fermerà per prendere parte ai soccorsi a Burdsall mentre Modia accompagnerà a Puente del Inca Fava e Rapicavoli. Archivio Ermanno Salvaterra.

VIDEO 5: Orlando Modia prende parte al contro-golpe militare a Perón ma il tentativo fallisce e così è costretto a scappare. Chiede aiuto a Cesarino Fava, unica persona che gli doveva la vita. Fava dapprima gli offre il suo aiuto ma poi si rifiuta di aprire la porta. Archivio Ermanno Salvaterra.

La vetta è stata raggiunta?
La testimonianza di Orlando e Alessandro Modia mi ha stimolato una domanda: Fava, Rapicavoli e Burdsall avranno raggiunto veramente la vetta dell‘Aconcagua?

La risposta a questa domanda è giunta sul finire della mia ricerca quando, grazie a Guido Combi, memoria storica del CAI di Sondrio e alla sua fitta rete di conoscenze riesco a prendere contatto con Claudio Rapicavoli, figlio di Leonardo. Claudio, con mia grande sorpresa vive a pochi chilometri da me e l’incontro è presto organizzato.

A colmare la mia curiosità ci sono diverse fotografie e alcuni documenti curiosi, come il menù della cena che viene organizzata per festeggiare la conquista della vetta nella sede del CAI a Buenos Aires.

Il menù della cena organizzata presso il CAI di Buenos Aires per festeggiare la conquista della vetta dell’Aconcagua. (Archivio Claudio Rapicavoli)

Ogni spedizione che raggiungeva la vetta dell’Aconcagua doveva lasciare sulla sommità il proprio gagliardetto o la propria bandiera e prelevare ciò che la spedizione precedente aveva lasciato. E’ così che la bandiera del Brasile diventa la prova certa che Rapicavoli e Fava hanno raggiunto la vetta. Claudio la conserva ancora oggi nella sua casa di Seriate (BG).

Secondo quanto riportato da Claudio Rapicavoli i soccorsi di Modia e Corinaldesi avvengono molto in basso, quasi nei pressi di Plaza de Mulas. Fava e Rapicavoli riportano congelamenti; vengono ricoverati e subiscono importanti amputazioni. Fava perderà tutte le dita dei piedi mentre Rapicavoli tre dita del piede destro.

I piedi di Cesarino Fava prima delle amputazioni (Archivio Claudio Rapicavoli)

Leonardo Rapicavoli (Archivio Claudio Rapicavoli)

Cesarino Fava (Archivio Claudio Rapicavoli)

Leonardo Rapicavoli mostra la bandiera del Brasile prelevata dalla vetta dell’Aconcagua (Archivio Claudio Rapicavoli)

Amici del CAI di Buenos Aires in visita a Rapicavoli e Fava (Archivio Claudio Rapicavoli)

I piedi di Cesarino Fava in seguito all’amputazione (Archivio Claudio Rapicavoli)

Le informazioni in merito alla salita compiuta e alle condizioni di salute di Leonardo Rapicavoli raggiungono ben presto l’Italia; Luigi Bombardieri scrive ad Adeodato Rapicavoli, padre di Leonardo:
«Sondrio, lì 15 aprile 1953
Al Dott. Adeodato Rapicavoli – Buenos Ayres
Caro Rapicavoli. Ho avuto ier l’altro una cortese cartolina della tua Gentile Signora, ed oggi l’affettuosa tua lettera contenente relazione, fotografie e ritagli di giornale relativi alla bella impresa del nostro caro valoroso Leonardo.
La lettera stessa era attesa da me con vivo orgasmo poiché ero sempre privo di notizie precise sullo stato di salute di tuo figliuolo Leonardo.
Purtroppo le notizie stesse che ora tu mi dai non sono pienamente favorevoli: comunque, se si pensa al grave rischio incontrato, e non certo leggerezza o incompetenza del valoroso tuo figliuolo, ritengo si possa ancora essere contenti. La lieve minorazione al piede non comprometterà per nulla l’avvenire di tuo figliuolo stesso il quale nell’incresciosa occorrenza ha potuto almeno raccogliere il generale riconoscimento del suo comportamento generoso e valoroso.
Credaro inoltrerà la relazione della salita alla redazione della
Rivista del CAI; da parte mia, invece, ho provveduto a trasmettere stralci dei giornali e la tua stessa lettera ad un caro Amico del Corriere della Sera: speriamo che il desiderio dei connazionali di costì venga in qualche modo soddisfatto.
Dammi ancora, ti prego, notizie sul proseguo dello stato di salute di tuo figliuolo, e gradisci il mio più cordiale affettuoso saluto per te e per il nostro valoroso Leonardo, nonché doveri per la tua Gentile Signora e per altrettanto Gentili Figliuole.
Aff. Luigi Bombardieri
P.S. Ti prego pure di portare il mio saluto e l’augurio di sollecita guarigione al giovane compagno di tuo figliuolo, Sig. Fava, più toccato dall’avversa sorte. Fammi inoltre cortesemente avere, non appena ti sarà possibile, le foto dell’impresa. Di nuovo cordialità e doveri in Famiglia».

Cesarino Fava lascia l’ospedale (Archivio Claudio Rapicavoli)

La bandiera prelevata in vetta viene appesa nella sede della sezione CAI di Buenos Aires (Archivio Claudio Rapicavoli)

Cena in onore di Fava e Rapicavoli (Archivio Claudio Rapicavoli)

Per il soccorso prestato a Fava e Rapicavoli, Orlando Modia riceve in dono dal presidente Perón un appartamento a Buenos Aires; Cesarino Fava un chiosco. E Leonardo Rapicavoli?
Secondo quanto riportato da Claudio, nulla, perché il padre era socio con Perón in diverse attività commerciali e fu proprio lui a informarlo dei fatti accaduti all’Aconcagua.

In seguito al colpo di stato, Leonardo Rapicavoli si trasferisce in Bolivia perdendo completamente i contatti con Fava; Claudio mi ha riferito che i loro rapporti si erano già guastati prima.
Claudio, totalmente lontano dal panorama alpinistico, ignorava fino al mio incontro la pubblicazione Patagonia, terra di sogni infranti a firma di Cesarino Fava. Qualche anno fa, con fatica, grazie al comune di Malè era riuscito a contattare Fava telefonicamente. Fu una telefonata breve, con toni non troppo calorosi, per programmare un incontro che non si è mai concretizzato.

Ora, per scrivere la versione definitiva di questa vicenda e dei soccorsi che l’hanno caratterizzata mancava solo un ultimo tassello: l’incontro tra Orlando e Alessandro Modia con Claudio Rapicavoli.

Il 7 agosto 2019 ho organizzato un incontro a Ivrea tra i figli e la moglie di Leonardo Rapicavoli con Orlando Modia e la sua famiglia. Modia si è meravigliato dallo scoprire che anche Leonardo aveva subito delle amputazioni in quanto i soccorsi di quel lontano 21 febbraio 1959 furono esclusivamente per Fava. Rapicavoli era stato in grado di raggiungere il campo base senza aiuti. All’incontro ha partecipato anche Ermanno Salvaterra (il terzo da destra).

Bibliografia
+ Cerro Torre – 60 anni di arrampicate e controversie sul Grido di Pietra di Kelly Cordes, Versante Sud, 2018
+ Italiani sulle montagne del mondo di Mario Fantin, Cappelli Editore, 1967
+ Alpinismo italiano nel mondo di Mario Fantin, Club Alpino Italiano, 1972
+ Patagonia, Terra di sogni infranti di Cesarino Fava, Centro Documentazione Alpina, 1999
+ La Rivista del CAI, annate varie
+ Lo Scarpone, annate varie
+ K2: The Savage Mountain di Charles Snead Houston e Robert Bates, McGraw-Hill Book Company, 1954.

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