Strumenti e tecniche di arrampicata – 1
(dal 1908 al 1939, miti e leggende)
di John Middendorf
(pubblicato su bigwallgear.com l’11 febbraio 2022)
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Strumenti e tecniche europee: dal 1908 al 1939
Dopo le famose salite come la Piaz al Totenkirchl nel 1908, le alte pareti rocciose furono guardate sotto una nuova luce. Non era più necessaria una linea continua di roccia scalabile per l’ascesa: a quel punto, gli scalatori trascorrevano molto tempo a studiare le pareti rocciose con il binocolo per individuare potenziali linee e potevano decifrare meglio i pericoli e le sfide della roccia verticale, tracciando percorsi precisi prima del tentativo. Alla domanda su un’attenta pre-ispezione delle potenziali vie su una montagna, Whymper una volta aveva detto: “Nessuno, tranne i più inesperti, evita di farlo”. Sulle pareti verticali alte, complesse e ripide delle Alpi orientali, gli alpinisti studiavano un piano preciso prima di ogni scalata. Immaginando di collegare elementi scalabili discontinui con traversate in corda, l’impossibile è stato reso possibile. La salita di alte pareti, con l’uso di chiodi, di traversate a corda e di corde doppie, la sempre maggior bravura ad arrampicare su roccia verticale erano i motivi della grande diffusione di quest’attività nell’élite atletica, specialmente nelle Dolomiti e nel Nord Tirolo, dove le pareti calcaree offrivano sfide a non finire.
Con qualsiasi altro nome: stile, etica, ecc.
C’era ancora una linea sottile tra quella che era considerata la costruzione di un percorso alpino: c’erano i primi “sentieri attrezzati”, e tra questi alcuni erano sottoposti a colpi di esplosivo e anche dotati di scale d’acciaio per facilitare il passaggio (ora noti come vie ferrate, anche loro in piena espansione in questo momento), e c’erano le vie “sportive”. Dobbiamo ricordarci che la maggior parte delle imprese fino alla fine degli anni ’20 erano prevalentemente vie in libera che ancora oggi sono considerate molto audaci per il loro grado, che all’epoca arrivava a quello che oggi, in Yosemite, è il 5.9. E ancor più nell’Elbsandsteingebirge (Nota: il termine “banco di prova” usato dagli arrampicatori, si riferisce a una via generalmente riconosciuta come un nuovo standard, non sempre in pura difficoltà e in termini di qualcosa di numerico, ma che si erge unica al suo posto al limite del possibile).
L’arrampicata in artificiale puro, passando da un chiodo all’altro, era inizialmente ancora molto disapprovata, anche se utilizzata solo per brevi tratti di una lunga salita. Tita Piaz in seguito chiamò coloro che impiegavano tattiche come “banditi della roccia”, Hans Fiechtl in particolare come “chiodatore specializzato” e “prestigiatore dei passaggi proibiti”. A Fiechtl è ovviamente attribuito il moderno chiodo sfalsato, un modello di chiodo che Piaz ha certamente adottato anche per le sue salite (notare, tuttavia, che i chiodi più comuni dal 1910 al 1914 sembrano essere semplici chiodi ad anello con anelli saldati, in quanto la saldatura elettrica si stava diffondendo negli anni prima della prima guerra mondiale, quando la rete elettrica si espandeva in tutta Europa, e un chiodo piatto con un anello saldato era ancora il chiodo più facile da realizzare). I martelli stavano diventando parte dell’equipaggiamento standard e la maggior parte degli alpinisti aveva una piccola dotazione di chiodi per gli ostacoli da superare.
Anche le calzature si stavano evolvendo, scarpe più strette con migliore attrito e flessibilità che consentivano un’arrampicata più ginnica. La scarpa di tipo Kronhofer con suola in feltro e successivamente con suola in gomma è più spesso vista su vie tecniche di roccia, anche se alcuni alpinisti si stavano muovendo verso forme ancora più aderenti senza una suola bordata. Quando erano in testa, gli scalatori si legavano alla corda con il nodo sulla schiena, per ridurre la possibilità di rompersi la schiena in caso di caduta statica sulla corda, e gli attrezzi – chiodi, martello e in seguito anche moschettoni – erano tutti portati in tasca. Giacche con grandi tasche erano comuni (spesso con colli larghi per l’evoluzione delle tecniche di discesa in corda doppia).
La dipendenza dall’attrezzatura si evolve
Molti “banchi di prova” dei primi decenni del XX secolo includevano l’uso di mezzi artificiali, cioè chiodi piantati dal primo di cordata per proteggere sezioni di arrampicata libera, oltre all’uso di chiodi per proteggere le traversate diagonali verso il basso: non erano però così disapprovati quanto le salite che richiedevano una progressione da chiodo a chiodo, anche solo su brevi tratti. Uno dei pionieri che ha spinto ulteriormente le nuove frontiere dell’unione di tecnologia e abilità umana su pareti rocciose intimidatorie è stato Angelo Dibona, una delle grandi guide di quest’epoca. La sua via sulla parete nord di 800 m della Laliderer nel gruppo del Karwendel con Guido e Max Mayer, e Luigi Rizzi ha richiesto un bivacco sulla via e ha stabilito nuovi standard di difficoltà sulle vie lunghe. Secondo Max Mayer nel resoconto della via del 1912, avevano “solo” 15 chiodi. Qui è il brano relativo al punto finale delle grandi difficoltà della prima parte (contrassegnato con la lettera K nella foto di sinistra):
“… il primo riposo dopo quasi 8 ore di arrampicata durissima. Dopodiché, Angelo riprende la lotta e, dopo un vano tentativo di scavalcare lo strapiombo proprio davanti a noi, scende di pochi metri a sinistra, ben assicurato, in un diedro poco profondo, strapiombante, ad angolo ottuso (nel citato reportage del quotidiano tedesco delle Alpi, il termine «straordinariamente difficile» non si riferisce al diedro strapiombante, ma al traverso in discesa a sinistra). Con grande fatica e con l’aiuto di diversi chiodi, conquista centimetro per centimetro fino a non poter più salire in linea retta. Con il cuore in gola seguiamo l’audace mentre, tirando la doppia corda attraverso un anello più in alto, fa un terribile passo a sinistra, sul bordo liscio come lo specchio. A malincuore, il piede destro deve abbandonare l’appoggio sicuro sul chiodo. Improvvisamente un leggero scricchiolio precedette il fatidico scivolare del piede sulla roccia liscia; ma già Dibona è felice e scompare dal nostro campo visivo. Passano pochi minuti di estrema suspense e di struggente eccitazione, poi Angelo annuncia la vittoria: “Sono nel canalone!” E tiriamo un altro sospiro di sollievo quando arriva il messaggio dopo: “Ora le cose stanno andando meglio!”. Ma a questo punto sorge una nuova domanda: la discesa di questo passaggio, che forse supera in difficoltà anche il passo chiave della parete nord dell’Oedstein nell’Ennstal, come sarà? La corda che viene dall’alto non basta ad evitare un grosso volo. Se vogliamo seguire Dibona, la notte potrebbe sorprenderci ancora qui; anche il pensiero di pendolare nel canalone e poi risalirlo viene scartato. Quindi dobbiamo muoverci usando una corda fissa in obliquo: questo vuol dire salire senza assicurazione dall’alto, però alla fine funziona. Ci ricongiungiamo a Dibona, vedendo poi con gioia che lui aveva ragione, e che da quel punto le cose sarebbero andate molto meglio. Dopo esserci rilegati, proseguiamo il nostro cammino in due cordate separate, e dopo poco tempo, salendo dentro o accanto al grande canalone, raggiungiamo un catino più ampio, la cui roccia bianca indica la frequente caduta di sassi, ma dal quale fortunatamente siamo risparmiati. Piuttosto esausti ci stabiliamo qui per la notte, nella felice consapevolezza di aver portato a termine la nostra giornata di lavoro (Max Mayer, 1912)”.
La descrizione della traversata di Dibona sulla Laliderer suona goffa e assai rischiosa. Oggi chiamiamo tale arrampicata A0, quando si fa affidamento sull’attrezzatura per progredire, anche con movimenti complessi in libera, alternando balzi alle tensioni di corda (Nota: una volta stavo camminando alla base della Tiger Wall ad Arapiles. Ho alzato lo sguardo e ho visto Malcolm Matheson che preparava un’altra pazzesca scalata su un tetto della massima difficoltà. Il modo in cui oscillava nel vuoto, muovendosi abilmente su e giù e di qua e di là, a volte con solo la punta del dito che lo tratteneva nell’oscillazione nel vuoto, mi fece realizzare che l’A0 del passato era stato soppiantato dagli scalatori del momento che portavano oltre il limite della difficoltà. Le sue acrobazie erano incredibili. Negli anni ’80 avremmo superato quel genere di passaggi con l’artificialità di un A0+).
Utilizzando il sistema di arrampicata corda-imbragatura-chiodo, erano possibili sfide più raffinate, che richiedevano ancora una tecnica altamente qualificata e, soprattutto, consentivano un’arrampicata efficiente, veloce e leggera. Molti hanno denigrato le nuove tecniche definendole “semplice ingegneria”, perché ovviamente è esattamente quello che sono. Ci è voluta una mente acuta per immaginare sistemi di sicurezza su corda per l’arrampicata su roccia sempre più complessa, trovare posti sicuri per fare assicurazione, manovrare su terreno più facile, il tutto nella roccia più ripida che si possa immaginare. “Airy” è l’unica parola che lo descrive meglio, perché c’è una sensazione di volo, la prospettiva richiede una forte volontà e un accresciuto senso di paura si aggiunge al puzzle. Anche gli incidenti erano in aumento: come oggi, gli incidenti venivano riportati sulle riviste con le analisi delle modalità degli errori. Conoscendo gli errori altrui si favoriva la diffusione di una maggiore attenzione. Questo sapere era proprio delle Dolomiti e del Nord Tirolo e impiegò anni per diffondersi anche in altre regioni.
Hans Dülfer (1892-1915)
Negli anni precedenti ai moschettoni robusti e affidabili, Hans Dülfer è quello che ha fatto progredire in modo significativo l’arte dell’ingegneria su corda verticale creando il primo sistema di traversata controllata a corda per spostamenti laterali sempre più grandi su parete ripida. Ma prima di guardare esattamente cosa stava combinando Dülfer, dobbiamo chiarire un paio di miti.
Mito n. 1: il Dülfersitz non è il Dülfersitz
Come molti, avevo un’idea sbagliata fin troppo comune sull’evoluzione della discesa a corda doppia, ma da allora ho scoperto che il Dülfersitz non è il Dülfersitz. Alla Telluride Mountaineering School, gestita da Dave Farny, dal 1974 al 1978, abbiamo appreso (e poi insegnato) le tecniche di arrampicata nella vera sequenza nei vari decenni: prima arrampicando con la corda dall’alto e disarrampicando su ripide placche con scarponi pesanti, poi alternando tratti da capocorda con altri in simultanea su lunghe e facili salite come la cresta Wham Ridge sul Vestal, e infine raggiungendo il livello necessario per scalare vie moderne con protezioni pulite e scarpette da arrampicata con grandi come Henry Barber. Sebbene i discensori a forma di otto in alluminio fossero già ampiamente disponibili negli anni ’70, raramente noi scalavamo con l’imbragatura (in genere ci legavamo con un semplice bulino), quindi eravamo costretti a scendere usando il Dülfersitz, quello che era descritto in ogni manuale di quel tempo, come ad esempio il classico Basic Rockcraft di Royal Robbins.
Nella vecchia letteratura ci sono solo rare rappresentazioni del metodo della discesa a corda doppia sotto il braccio come illustrato sopra, che è uno dei tanti sistemi varianti di discesa frenata con la corda visti nei primi libri di tecnica e articoli. Varie configurazioni della corda che passa attorno alle gambe e al corpo offrono vari vantaggi e svantaggi in termini di forza richiesta rispetto alla quantità di pelle potenzialmente persa a causa di ustioni dovute alla corda che passa sopra la spalla o ai fianchi sotto tensione. La doppia ab testa in giù di Piaz è stata probabilmente la più spettacolare:
Evoluzione della corda doppia
La tecnica della corda doppia (abseil, rappel) generalmente impiegata nel primo decennio del ‘900 sulle famose discese nel vuoto è una tecnica da palestra con la corda avvolta attorno al piede e con una gamba che blocca la corda con l’altra gamba: il nome è “Kletterschluss”. Questa tecnica richiede una grande energia di fondo per ottenere una discesa sicura e controllata.
Ben presto si verificò una naturale evoluzione delle tecniche di calata in corda doppia e la prima letteratura mostra tecniche che prevedevano l’avvolgimento della corda attorno a diverse parti del corpo per fornire attrito e controllo. Negli anni ’10 iniziano ad apparire metodi di discesa in corda doppia con la corda che avvolge il corpo e il metodo principale di discesa in corda doppia era con la corda avvolta due volte attorno alla gamba e sopra la spalla:
Il vero Dülfersitz: la traversata a corda in autoassicurazione
Ciò per cui Dülfer era più famoso all’epoca, e per buona parte nei decenni successivi, era una variante specifica di queste tecniche, con la corda che passava intorno al collo, progettata non tanto per la pura discesa, ma piuttosto mezzo di traversata che prevedeva una tensione manovrata con una seconda corda separata, forse una “traversata in tensione autoassicurata” sarebbe una descrizione più accurata dell’innovazione che Dülfer ha messo sul tavolo.
Gli alpinisti che usano tecniche di frenata con la corda intorno al collo sono spesso raffigurati con magliette o giacche con colletti alti, una necessità per la tecnica della Dülfer attorno al collo. Il metodo sviluppato da Dülfer è un sistema di controllo della corda molto efficace quando lo scalatore ha bisogno di un uso ottimale delle mani per muoversi su roccia in tensione.
Il sistema di Dülfer prevede una seconda corda separata per l’abbassamento e la traversata, e la sua tecnica divenne famosa quando la impiegò sulle sue vie rivoluzionarie della Fleischbank nel 1912 e sulla linea diretta al Totenkirchl nel 1913 (entrambe nel Kaisergebirge, entrambe con l’inserimento di traversate su roccia liscia fino a quel momento inimmaginabili). La tecnica si diffuse nelle Alpi orientali, poiché era molto più sicura che l’avere una corda da arrampicata tesa su un anello, con la possibilità di pericolosi attriti e bruciature. Gli scalatori iniziarono a portare perciò una seconda corda più corta per tali manovre, prima dell’arrivo dei moschettoni. La tecnica poteva essere utilizzata anche per una doppia in verticale come ci illustra Platz, ma è più efficace soprattutto quando ci si sposta su roccia grazie alla libertà ottimale di entrambe le mani.
La tecnica di Dülfer è chiaramente delineata e descritta in un articolo de Lo Scarpone del 1931 (italiano, articolo completo e traduzione in appendice):
1912, Fleischbank (400 m) e 1913, Totenkirchl (600 m)
Mentre l’originale via Piaz sulla parete ovest del Totenkirchl aveva una traversata in tensione che dipendeva da un ancoraggio a chiodo, Dülfer ha portato ulteriormente la tecnica della traversata con la corda con traversate in tensione più complesse, più lunghe e più difficili per collegare tratti impegnativi, creando linee visionarie nel Kaisergebirge.
E la visionaria via al centro del Totenkirchl nel 1913, con la temuta “Traversata del Naso”.
Con l’evoluzione delle tecniche di traversata in tensione, sempre più alpinisti stavano testando queste nuove tecniche su falesie più piccole e ne comprendevano il potenziale. A partire dagli anni ’20, il Seilquergang, come divenne noto in lingua tedesca, fu illustrato e descritto in molti manuali. Karl Prusik scrisse un libro sulle tecniche nel 1929 e considerava la traversata con la corda una delle sei tecniche di base che avrebbero dovuto essere insegnate formalmente a ogni alpinista principiante assieme a nodi, assicurazione, discesa in corda doppia, traino di uno zaino e creazione di una sosta con chiodi.
Le soste di un tempo e i pendoli
Con tutta la nuova dipendenza da chiodi e corde, le tecniche di assicurazione dovevano essere sicure e affidabili. Nella letteratura sono descritte sopra la spalla, le fasce per le braccia e persino dietro la schiena (assicurazioni dell’anca), in contrasto con le raffigurazioni precedenti, in cui l’assicuratore sembra semplicemente tenere la corda per il leader. Le persone erano decisamente consapevoli delle elevate forze di impatto generate da un corpo in caduta, come dimostrano molti tristi rapporti di incidenti, e gli alpinisti non hanno tentato di assicurare in modo precario come nei giorni precedenti ai sistemi di chiodi leggeri.
Hans Fiechtl e Otto Herzog notoriamente aggiunsero il moschettone alla tecnica della traversata a corda, usandolo sulla Schüsselkarspitze nel 1913, una traversata a corda così audace che divenne nota come pendolo.
Nota: il confine tra un pendolo e una traversata a corda può essere labile. Al giorno d’oggi, lo chiamiamo pendolo se comporta una corsa significativa avanti e indietro per guadagnare slancio, ma sia i pendoli che le traversate di pura tensione possono essere ugualmente difficili poiché entrambi possono richiedere la stessa abile scalata alla fine della traversata. In altre parole, “arrivarci” è facile, “concludere” è la parte più difficile, e richiede un assicuratore attento.
Ma prima di guardare alla loro innovazione e ad altre scalate di nuovi standard, dobbiamo chiarire un altro mito.
Mito n. 2: l’invenzione dei moschettoni
Gli snap-link (dispositivi per aggancio), in mancanza di un nome generale migliore, si sono evoluti con l’evoluzione dell’acciaio e delle tecniche di produzione. Nel 1887 il rifugio Teplitzer fu rifornito di “corda di salvataggio con moschettone”, e nel 1898, nelle comunicazioni del Club Alpino Tedesco/Austriaco, fu raccomandato per la discesa in corda doppia un sistema di imbragatura adottato dai vigili del fuoco civili, “con robusti anelli e moschettoni”. I brevetti per moschettoni e moschettoni rinforzati, per lo più modelli forgiati, risalgono al 1850; la maggior parte di questi erano complessi, costosi da realizzare e spesso pesanti. Alcuni alpinisti li avevano, ma non molti (vedi in appendice l’esempio del 1892).
D’altra parte, le clip più comunemente trovate disponibili per altri scopi (come i famosi ganci usati per allacciare un fucile a carabina alla schiena) non erano “a pieno carico” dal punto di vista di uno scalatore e venivano evitate in arrampicata, ma nella parte orientale delle Alpi erano tutte chiamate Karabinerhaken (gancio a moschettone) o semplicemente moschettone. Nel 1898 si annotava anche: “Sull’uso dei moschettoni le opinioni sono molto discordanti. La maggior parte dei moschettoni ha una chiusura a molla e potrebbe essere giustamente considerata da alcuni non sufficientemente affidabile”. Questa visione non è cambiata fino agli anni ’20, quando i moschettoni più resistenti realizzati con acciai migliori sono diventati più ampiamente disponibili. In altre parole, non esisteva uno snap link “normale” che potesse essere adottato per l’arrampicata e quelli specializzati e più resistenti erano costosi e pesanti (Nota: i migliori dei primi moschettoni descritti nella vecchia letteratura sembrano simili come resistenza ai moschettoni giocattolo di oggi, solitamente contrassegnati come “non per arrampicata”: potevano reggere il peso corporeo, ma non molto di più. Dopo la prima guerra mondiale l’acciaio più resistente divenne più ampiamente disponibile).
Ciò che veniva usato, molto più spesso, erano robusti anelli in acciaio forgiato, spessi 8 mm e diametro 70 mm, che potevano “essere fabbricati da qualsiasi ferramenta” (1910).
Anche gli “Eisenringen” (anelli in acciaio forgiato e saldato) sono spesso descritti nella prima letteratura come un mezzo per ridurre la resistenza della corda sia per le cadute di un capocorda che sulle doppie. Ma nella maggior parte dei casi, il “Seilring” o l’anello di corda annodato (chiamato anche “vine cord”) era ancora il modo principale per collegare la corda agli ancoraggi. Se il sistema non è dinamico, un anello di corda semplice e leggera è un sistema efficiente. Ma nel momento in cui gli scalatori stavano affidandosi sempre di più all’attrezzatura e iniziavano a usare la corda per oscillare sulla roccia, occorreva immaginare e sviluppare attrezzature per un sistema più dinamico. L’idea spesso vista qua e là che il moschettone sia stato inventato per agganciarsi al modello del chiodo sfalsato Fiechtl, o viceversa, è semplicemente sbagliata: l’occhiello sfalsato era vantaggioso per altri motivi, e la vecchia documentazione sul fare i chiodi specifica che l’occhiello sfalsato doveva avere contorni molto lisci e arrotondati proprio per impedire eccessivi sfregamenti della corda.
I primi moschettoni erano solo “per il peso del corpo”
I primi moschettoni erano usati come metodo rapido per proteggersi, per lo più erano noti come punto di connessione e utili su movimenti strapiombanti e scomodi in cui agganciarsi a un chiodo (invece di fare affidamento sull’assicuratore). Con l’uso di un cordino poteva aiutare a fare la mossa successiva, o usato come mini-puleggia, permetteva di issarsi su ad un ancoraggio più facilmente. Il loro uso iniziale in arrampicata era per applicazioni del solo peso corporeo, non per collegare la corda a un chiodo di protezione del capocordata; al loro posto si preferivano i cordini. Nel 1928, un articolo dei Mitteilungen sulla prova dinamica della corda cita un esempio di rottura di un moschettone in una caduta di un solo metro (con un carico di 80 kg), e osserva che i materiali erano il problema principale, concludendo, “la resistenza di tali ganci contro i carichi d’urto durante le cadute libere è molto basso. È più basso delle corde da arrampicata”.
D’altra parte, i moschettoni relativamente deboli ma utili comunemente usati all’epoca si notano per molte altre applicazioni sulla verticale, e nel 1920, dopo aver spiegato come il moschettone possa essere utilizzato come punto di sicurezza temporanea o come carrucola, il Mitteilungen raccomanda “l’arrampicatore deve quindi portare con sé: 3-4 chiodi, 2-3 moschettoni e un martello” sottolineando “e anche le fettucce di corda, che spesso sono molto utili!”. La comodità di un moschettone da agganciare a un chiodo alla fine di una traversata di tensione, quando solo una mano poteva essere libera, è nota nella prima letteratura e alcuni alpinisti usavano i moschettoni per aiutare a dirigere la corda assieme a un’assicurazione del corpo. È interessante notare che non ci sono prove che i moschettoni siano mai stati usati per essere agganciati ai chiodi del capocordata, almeno fino alla fine degli anni ’20, fino a che cioè si usava portare il materiale in tasca.
Il mito di Herzog che ha inventato il moschettone sembra provenire da una fonte secondaria, di qualcuno che lo ricordava usare i moschettoni nel 1910. Herzog era probabilmente inizialmente noto non per “aver inventato il moschettone”, bensì per l’aver introdotto il moschettone in una traversata a corda: un sistema di corde, che scorreva su una carrucola a moschettone governato dal secondo di cordata, che ha consentito nuovi livelli di controllo e distanziamento per oscillare acrobaticamente sui muri più verticali.
Insomma, non è molto chiaro chi abbia inventato il primo moderno “moschettone da arrampicata”, uno abbastanza robusto da sopportare i carichi dinamici tipici dell’arrampicata. Curiosamente, Franz Stöger (1883-1935), il custode del rifugio dello Stripsenjoch vicino al “suo” Totenkirchl, che ha scalato più di 200 volte, nel suo necrologio (AAJ, 1937) è indicato come “l’inventore dell’anello con moschettone”, ma non se ne sa di più. Ci sono anche prove che i primi robusti moschettoni per l’arrampicata furono sviluppati per la prima volta nell’Elbstandsteingebirge. Ma la maggior parte dei primi riferimenti ai moschettoni sono per applicazioni solo del peso corporeo, principalmente come punto di aggancio temporaneo e rapido a un ancoraggio.
Ciò che è più chiaro, tuttavia, è che verso la fine degli anni ’20 i moschettoni più robusti sono diventati più ampiamente disponibili e hanno portato direttamente a scoperte ancora maggiori in montagna, come le prime salite della parete nord del Cervino e dell’Eiger nel 1930, che prevedevano entrambi traversate a corda e altre manovre utilizzando l’utilizzo di sistemi leggeri corda-moschettoni-chiodi.
Oh!
Ora che abbiamo eliminato alcuni miti, possiamo finalmente guardare ai nuovi e divertenti modi in cui gli alpinisti hanno utilizzato le innovazioni in corso nell’attrezzatura da arrampicata sulle grandi pareti del mondo (incluso un approfondimento sulle acrobazie a corda dei primi pionieri), poi verso le nuove frontiere negli anni ’20 e ’30 nelle Alpi europee.
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