Tra olive marinate, torri medievali e bischerate varie, “tracciando una propria linea di pensiero sulle pareti”: il riscatto di una Cenerentola apuana.
La Torre Oliva
di Alberto Benassi
(pubblicato su alpiapuane.com il 23 ottobre 2025)
Come la storia dell’alpinismo insegna, guglie e torri, sono da sempre state considerate simboli dell’impossibile. Il Campanile Basso di Brenta, il Campanile di Val Montanaia, la Torre Trieste, la Lost Arrow, il Dente del Gigante, la Guglia De Amicis, le Torri del Vajolet, sono solo un breve elenco di torri e guglie che nella loro apparente inaccessibilità, hanno rappresentato un limite alle capacità umane, ma allo stesso tempo hanno esercitato un indiscutibile fascino e attrazione, stimolando la sfida e la competizione tra gli arrampicatori di ogni epoca. Per la conquista di alcune di loro, si è ricorso ai più rocamboleschi sistemi e fantasiosi marchingegni: dalle pertiche, ai ferri infissi nelle placche compatte, ai lanci di corda. Il 6 e 7 agosto 1927 Laurent Grivel, Arturo Ottoz, Osvaldo Ottoz e Albino Pennard, arrampicandosi lungo una pertica di legno di 6 metri, come fosse un palo della cuccagna, portata fin lì da Courmayeur ed opportunamente fissata alla roccia strapiombante con aghi da mina e chiodi, raggiungono la sottile punta del Père Eternel, un ago di roccia di 50 metri che svetta dalla cresta nord dell’Aiguille de la Brenva. Ancora oggi quella pertica è lassù e viene usata per raggiungere la punta dell’impossibile guglia. Tra tutte queste e le tante altre che non ho citato, quella che metto in evidenza, non solo per la bellezza e la fama, ma anche per averla salita diverse volte lungo vari itinerari che non sto qui a citare, che rappresentò una vera sfida “un ultimo grande problema” (c’è sempre un ultimo problema poi puntualmente smentito da un altro e un altro ancora), soprattutto tra alpinisti trentini e quelli di lingua tedesca, è il Campanile Basso di Brenta (o Guglia di Brenta, come un tempo veniva chiamata, e ancora oggi nome preferito dagli alpinisti di lingua tedesca).
Dopo un tentativo nel 1897 dei trentini Carlo Garbari, Nino Pooli e Antonio Tavernaro, arenatosi sotto uno strapiombo a circa 20 metri dalla vetta, due anni dopo, il 18 agosto 1899, due giovani studenti austriaci, Otto Ampferer e Karl Berger, ripresero il tentativo dei trentini, armati di chiodi e intuendo un’astuta traversata, risolsero il problema arrivando in vetta. Il 31 luglio 1904 il Pooli riprende il suo tentativo: “volle ritornare sulla «sua» montagna, con la quale aveva un conto aperto. Già 18 cordate erano salite alla cima, tutte passando dalla parete Ampferer. Nino Pooli con Riccardo Trenti salì, giunse al terrazzino e proseguì lungo la parete che nel 1897 l’aveva respinto. Sapeva di farcela, e di forza raggiunse la cima, dopo 35 metri valutati oggi di V grado superiore. Nel sacco Nino Pooli aveva una grande bandiera di Trento, gialla e azzurra, lunga tre metri. Raggiunta la cima la issò su un palo di cinque metri che si era trascinato dietro e la fece sventolare sul Brenta, tanto che il vessillo fu visto a lungo da tutta la Valle delle Seghe (Angelo Elli)”.
Nonostante il mito dell’impossibile sia stato demolito e su tutte le pareti del Basso siano stati disegnati, nelle varie epoche, numerosi itinerari di varia difficoltà, una tra tutte la prima della parete est salita e discesa slegato, oggi si direbbe in free-solo, dal fuoriclasse austriaco Paul Preuss nel 1911, ancora oggi il Basso, è un simbolo, un punto di riferimento, una meta assolutamente da raggiungere, una sorta di battesimo, di rito d’iniziazione all’alpinismo, come dire “se non hai salito il Basso non sei un alpinista”.



Ma torniamo a noi, scendiamo verso sud in Toscana, dove le torri non mancano, da quella famosa di Pisa “[…] che pende, che pende e mai non vien giù […]”, alle attuali 14 (di 72) della medievale ed oggi super-turistica San Gimignano, alla viareggina torre Matilde a guardia del canale Burlamacca (nulla a che fare con la famosa Contessa di Canossa), all’aristocratica torre Guinigi di Lucca simbolo di ricchezza e potenza dell’omonima famiglia lucchese con tanto di lecci secolari sulla cima, ed ancora alla merlata torre campanaria del Mangia in piazza del Campo a Siena, chiamata così dal soprannome “Mangiaguadagni” abbreviato in “Mangia” e affibbiato intorno al 1349 dai senesi al primo campanaro, un certo Giovanni di Balduccio, gran dilapidatore.
Ma lasciamo i monumenti della natia terra di Dante, agli storici e ai turisti e andiamo in Apuane, le maltrattate e “sacrificabili” montagne di casa, le montagne irripetibili, vittime dell’insaziabile voracità distruttiva dell’uomo. Anche in questa piccola ed aspra catena montuosa torri, guglie e pilastri non mancano: le guglie della Vacchereccia; il torrione Figari e la Punta Questa; le Torri di Monzone; la Torre Francesca al Pizzo delle Saette; la Torre di Piatreto, i Torrioni di Passo Croce e il Pilastro Cima 10 al monte Corchia; la Pietralunga del Monte Gabberi; il Procinto con il Torrione Bacci, il Piccolo Procinto e la Bimba. Nel gruppo delle Panie, a chi si affaccia alla Borra di Canala, per risalire con il sentiero 139 questo aspro e suggestivo vallone, stretto ad est dall’altopiano carsico della Vetricia e ad ovest dal versante che da Colle della Lettera corre fino al Pizzo delle Saette, non può passare inosservata una torre che sulla destra orografica fa da sentinella alla Porta, l’ingresso basso della Borra di Canala. A questa torre è stato dato un nome che, da sempre, mi è sembrato alquanto singolare, ma allo stesso tempo simpatico, quasi ironico: Torre Oliva.
Le olive, si sa, oltre ad essere la materia prima da spremere per ricavarne l’ottimo extravergine toscano, dal sapore intenso e “pizziente” come si dice a Camaiore, sono ottime per accompagnare aperitivi e intingoli vari, ad esempio in un ottimo spezzatino, ma anche più semplicemente messe in salamoia a indolcire, oppure come faceva la mia mamma che prima le metteva in forno ad appassire, poi lasciava a marinare in una saporita salsa di olio, aglio, peperoncino, rosmarino e sale. Pronte per essere gustate in un appetitoso merendino con del buon pane toscano, magari sciocco come qui usa, così da creare quel forte contrasto di sapori, il tutto annaffiato da un ottimo vino nero obbligatoriamente toscano. Ottima ricetta per tenere lontani i vampiri.
Visto che su questa torre di olivi non ce ne sono, vi chiederete, che c’incastrano le olive? Nulla! Quindi, ironia culinaria a parte, di cui mi scuso ma è solo per dare un tocco di leggerezza a questo lungo discorso in cui mi sto avventurando, in verità l’origine del nome è ben più nobile.
I primi salitori la chiamarono così in ricordo del loro amico Bruno Oliva (Bollettino del CAI di Firenze del 1931): “[…] Da informazioni assunte ci risulta che questa cima non era ancora stata salita. La nostra intenzione di scalare la vetta divenne fermo proposito quando, dopo la dolorosa scomparsa di Bruno Oliva, nel desiderio di onorare la memoria di questo nostro compagno di alpinismo, pensammo di legare il suo nome a questa cima […]”.
Era una domanda che mi facevo da tempo perché la torre fosse chiamata così, non immaginavo certo che fosse un cognome, per questa scoperta di cui non mi daranno il premio Nobel, anche perché bastava fare una semplice ricerca, devo ringraziare quel toscanaccio di Enzo Maestripieri, oltre all’aiuto del parmense ma oramai toscano di fatto Guido Barbieri, autentici appassionati di Apuane e profondi conoscitori dei percorsi più avventurosi e dimenticati, di storie lontane, aneddoti e personaggi di questi monti. Quindi il nome e cognome completo della torre è Bruno Oliva, anche se il gergo alpinistico tende a semplificare, quindi la chiameremo più semplicemente, come sempre è stato fatto, Torre Oliva. Nessuna sfida né competizione, nessuna bandiera per la nostra torre, le sue dimensioni, la fama e la sua storia alpinistica, non sono certo paragonabili al celeberrimo Campanile Basso di Brenta. La Torre Oliva sta al Campanile Basso come una formica sta ad un elefante, sia per le dimensioni che per la storia alpinistica, e non è certo un mito di inaccessibilità. Quindi non gridate allo scandalo, se, con un po’ di fantasia, e una buona dose di sano campanilismo apuano, oltre che da buon toscano camaiorese, maleducato e blasfemo (spero verrò perdonato), mi permetto di bestemmiare con spavaldo richiamo alla mitica Guglia di Brenta.
Certo le storie dell’una e dell’altra torre sono ben diverse, sul Campanile Basso hanno lasciato la loro firma i mostri sacri che hanno fatto la storia dell’alpinismo dolomitico. Tutti gli anni la vetta del Campanile Basso è una meta ambita e molto frequentata. I primi salitori della piccola Torre Oliva, non si sono dovuti inventare sistemi rocamboleschi o fantasiosi marchingegni, o fare gare con altre cordate, la storia alpinistica è stata molto più semplice, casalinga, silenziosa e lenta nel tempo. La vetta della torre è stata calpestata poche volte, solo qualche timido passaggio, azzardo a dire che per tanti anni forse nessuno ci abbia messo piede. Solo recentemente la frequentazione ha avuto un certo risveglio, con la riscoperta di alcuni itinerari rimasti ingiustamente nell’oblio per parecchi anni e con l’apertura di nuovi.
La gloriosa e storica Guida dei Monti D’Italia Alpi Apuane del 1979 (autori Euro Montagna, Angelo Nerli e Attilio Sabbadini), che tanta importanza ha avuto per queste montagne e per i suoi frequentatori, ed ancora ne ha nonostante non sia più al passo con i tempi (la mia l’ho ben vissuta e consumata, letta e riletta non so più quante volte), non ha tenuto in grande considerazione questa torre. Certamente in Apuane ci sono cime, pareti, speroni e creste di ben altre dimensioni e spessore alpinistico, ma la struttura è particolare, è inserita in un luogo suggestivo e con una storia interessante. Oltre a non averla chiamata con il suo nome e cognome completo, se fossi nei suoi panni mi sarei offeso, la torre meriterebbe qualcosa di più, invece di una descrizione un po’ approssimativa, come fosse solo una semplice appendice dell’altopiano della Vetricia, una Cenerentola liquidata con poche parole a pagina 380: “Torrione che si stacca dalla parete detta la Vetricia, che fa da sponda destra orografica alla Borra di Canala, in prossimità della Porta (vedi 142)” ; soprattutto, raccontando un po’ superficialmente i due itinerari di salita allora presenti, sicuramente non vie di grande respiro, ma meritevoli di rispetto, ed uno, in particolare, anche di un certo pregio tecnico vista la linea e le difficoltà superate.
La Torre è separata dalla parete da un ripido canale che forma un’ombrosa e suggestiva gola rivolta a nord. Il canale termina all’intaglio tra la Torre e la parete dove un enorme masso incastrato forma una finestra con aerea veduta sulla retrostante aspra Borra di Canala. Dall’inizio del canale, che si raggiunge salendo un infido risalto, girando a sinistra, si guadagna la stretta ed esposta Cengia Oliva che corre alla base del lato nord della parete della Vetricia. Il percorso della cengia Oliva è una emozionante ed impegnativa escursione, che con esposti passaggi di I e II, permette di accedere, in modo originale, al suggestivo altopiano della Vetricia, caratterizzato da importanti fenomeni carsici.

La Vetricia è un luogo di alto interesse speleologico oltre che ambientale, ricco di rocce plasmate dall’erosione degli agenti atmosferici: doline, inghiottitoi e vertiginose cavità a pozzo si avvicendano creando un vero labirinto. La Vetricia è ricca di veri e propri abissi: la voragine dei Bamburzi (-140 m), la Buca del Ragno (-120 m), la Buca Larga (-251 m), e la più famosa di tutte l’Abisso Revel, una voragine a verticale unica di oltre 300 metri di profondità, un primato apuano di fama mondiale per tanti anni. Il fondo fu raggiunto nel 1931. L’altopiano della Vetricia si può raggiungere anche dal lato opposto con accesso decisamente più semplice. Anche la parete che sostiene la Vetricia offre alcuni interessanti ed impegnativi itinerari d’arrampicata. Da sinistra verso destra: Mal di testa (Giuseppe Tessandori e Giancarlo Franceschi, 7 luglio 2002); Gli insegnamenti di Don Juan (Alessandro Biffignandi, Davide Damato e Luca Sisti, 4 settembre 2019); Il paradiso non esiste (Edoardo Mutti e Giovanni Viti, 27 agosto 2016); Fessura del Peccato (Almo Conti e Emanuele Cesaroni, 7 giugno 2012). I primi due, posti nei pressi della Torre, potrebbero essere concatenati con gli itinerari di questa.
Ma torniamo alla nostra guglia la cui frequentazione è sempre stata scarsa. La sua storia alpinistica, che risale all’aprile 1931 (data della prima ascensione), è piuttosto semplice, perché trascurata dagli arrampicatori. Questo, per me, è stato un vantaggio, l’opportunità di poter esplorare mi ha permesso l’apertura di tre nuovi itinerari, su una struttura particolare in un luogo che a dire bello è poco.
Sono itinerari brevi, ma impegnativi, dato il loro carattere alpinistico, chiodatura non sistematica da integrare e roccia che richiede attenzione. Esplorare, tracciare nuovi itinerari, è una delle attività di maggiore soddisfazione che ci regala l’alpinismo, oltre ad un momentaneo e breve appagamento, perché l’alpinista è insaziabile, e la piccola Torre (Bruno) Oliva ha esaudito appieno questo desiderio solleticando la mia immaginazione. È da lì che bisogna partire, dall’immaginazione per poi arrivare alla creazione. Non importa se la roccia non è delle migliori, non importa se le vie sono brevi, non importa se la cima non è famosa, non importa se le vie sono facili o difficili. Quello che conta è la possibilità di fare esplorazione e dare sfogo alla propria curiosità e creatività. Non limitarsi alle sole ripetizioni, pur prestigiose che siano, ma andare a mettere il naso dove altri non sono stati, tracciare una propria linea di pensiero sulle pareti, fedeli al proprio stile, lo vedo come la massima espressione per un alpinista, che vuole dare una sorta di completezza alla propria attività.
Incertezza, paura, scoperta, rinuncia, determinazione, fiuto, eleganza, forza, debolezza, incoscienza, eccitazione, spacconeria, creatività, entusiasmo, passione, visione, insomma un insieme di saporiti ingredienti, un vortice di forti sensazioni ed emozioni in cui immergersi. A tal proposito riporto le parole che Ivo Rabanser ha scritto sull’apertura della sua via Dieci anni dopo sulla Punta Maffei nel gruppo del Sassolungo: “[…] Escogitare una linea di salita, studiarne attentamente il percorso e poi tracciare un itinerario che rimarrà nel tempo, è un atto creativo e al tempo stesso di possesso. […]”. Lo so, qualcuno storcerà il naso, nel leggere la parola “possesso”. E’ una parola forte, ma non credo che Ivo Rabanser l’abbia usata per rivendicare un diritto di proprietà, quanto piuttosto a voler sottolineare che realizzare una via d’arrampicata è come mettere una firma su un’opera d’arte. Una creazione che rispecchia l’autore, in cui si può leggere il suo stile, la sua mentalità, la sua concezione alpinistica. Insomma una specie d’impronta digitale. E qui si potrebbe aprire una discussione senza fine, sicuramente accesa, magari anche polemica, come spesso avviene, quindi lascio perdere.

LE VIE DELLA TORRE OLIVA (relazioni di epoche diverse a confronto)
Ad oggi gli itinerari che salgono alla cima della Torre Oliva sono cinque. Per un interessante raffronto storico-tecnico tra le relazioni di un tempo e quelle di oggi, ho pensato di riportare più relazioni di una stessa via, scritte in epoche diverse, per evidenziare le differenze. Oggi le relazioni tendono a dire quasi tutto, anche la copertura cellulare, lasciando poco spazio all’interpretazione dei ripetitori. Nel 1964 Gary Hemming, l’alpinista hippy e ribelle arrivato dalla California, in difesa della roccia e dell’avventura scrisse, tra le altre, queste significative parole: “Non lasciate nessuna traccia di voi in parete, né chiodi, né cunei, né cordini: non asportate nulla dalla parete, ritornate portando con voi i vostri ricordi e le vostre fotografie; a chi vorrà seguirvi non dite nulla di preciso: soltanto il punto di attacco, quello di uscita e un cenno per le difficoltà generali”, parole che si sono perse nel vento della certezza della conquista e della sicurezza ad ogni costo. Forse l’hippy californiano, non avrebbe condiviso l’opinione di Ivo Rabanser di usare per una via il termine “possesso”?
Ho anche riportato alcuni commenti e considerazioni dei ripetitori delle altre vie, e visto che sono tutte vie che ho aperto io, ho inserito solo quelli positivi. Lo so è un atteggiamento da presuntuosi, ma come canta Tonino Carotone “è un mondo difficile e vita intensa felicità a momenti e futuro incerto”.
La vecchia guida CAI Alpi Apuane del 1979 descrive solamente i due itinerari d’arrampicata fino a quel momento presenti, la via dei primi salitori sulla parete sud (it. 143a) e un altro sulla Nord (it. 143b) che, per altro, non riporta con il corretto nome dato dagli apritori alla via.
Via dei primi salitori (versante sud)
Giuseppe Occhialini, Nicola Zabiello, Enrico Ciaranfi e Marco Marchetti (sez. di Firenze), aprile 1931 – R.M. CAI 1931, 530 – Bollettino CAI Sezione Firenze, 1931, n. 3.

Relazione pubblicata sul Bollettino CAI Sez. di Firenze
“Durante le nostre peregrinazioni sul massiccio della Pania per la ricerca e lo studio delle grotte della zona, aveva attirato la nostra attenzione, invogliandoci a tentarne la scalata, un ardito torrione che si innalza nella sponda destra della Borra dei Canali (1). Questa torre dall’aspetto slanciato, tanto per chi la guardi dal basso profilata contro il cielo, quanto per chi la osservi da monte, discendendo la Borra dei Canali (1), si presenta addossata alla parete della Vestricia (1) da cui la separa una profonda spaccatura larga in alto una ventina di metri e interrotta da un grosso blocco incastrato. Da informazioni assunte ci risultava che questa cima non era ancora stata salita. La nostra intenzione di scalarne la vetta divenne fermo proposito quando, dopo la dolorosa scomparsa di Bruno Oliva, nel desiderio di onorare la memoria di questo nostro appassionato compagno di alpinismo, pensammo di legare il suo nome a questa cima. Nell’aprile, quando ancora la neve è abbondantemente nei canaloni, risaliamo la Borra e osserviamo la torre da valle, per studiare le possibilità da questo lato; ma la minacciosa parete di circa 200 m. di altezza strapiombante, nella parte superiore non lascia scorgere un passaggio e ci consiglia a cercare altrove la via di salita. Dal lato a monte infatti sembra più accessibile e presenta, circa 30 m. sotto la vetta, una ripida cengia che deve facilitare assai l’ultima parte della salita. Risalito un ripido nevaio, ci portiamo alla base della torre, separata dalla parete della Vestricia (1) da un ripido canalino che fa seguito all’intaglio superiore: attacchiamo le rocce che formano il labbro esterno di questo e ci innalziamo rapidamente con arrampicata non difficile, ma assai delicata data la roccia malferma e l’impossibilità di assicurazione. Saliti così per una sessantina di metri, ci troviamo chiusa la via da una breve paretina verticale che è necessario aggirare a sinistra, superando un lieve strapiombo, con passaggio delicato e assai esposto. Possiamo così raggiungere la cengia già individuata dal basso e seguirla per tutta la sua lunghezza fino ad una specie di spalla da cui senza difficoltà ci portiamo sulla vetta. Ci fermiamo un poco ad ammirare la sottostante Borra dei Canali (1) e l’imponente parete della Pania che si vede di qua in tutta la sua estensione. Dopo aver costruito un ometto, discendiamo per la via solita fino al termine della cengia: di qui giriamo a sinistra sull’altro lato della torre e, fissato un anello di corda alla roccia, ci caliamo con una corda doppia di 20 m. in parte nel vuoto, sul ripidissimo canalino sottostante, dove la neve dura che ne ricopre il fondo ci costringe ad una cauta discesa fino alla base della torre”.
Nota (1) Cosi nel passato venivano chiamati questi luoghi, spesso ricorrenti nei vecchi bollettini speleo.
Relazione pubblicata sulla guida CAI Alpi Apuane 1979 (it. 143a)
“Si sale verso la spaccatura che separa dalla parete, interrotta da un blocco incastrato, e si arrampica per le rocce che ne formano il labbro esterno, aggirando dopo 20 m una paretina verticale con passaggio esposto. Si mette così piede su una cengia visibile dal basso e la si segue verso una spalla, dalla quale facilmente in vetta. Difficoltà sul III”.
Personalmente non ho ripetuto questa via, né sono a conoscenza di ripetizioni più o meno recenti, quindi non posso dare notizie fresche dell’itinerario. Ma mi riprometto presto di ripeterla.

Incontro con Galileo Venturini
Sabato 15 marzo 2025, con Enrico Puccetti, compagno in una prima alla Torre Oliva, ho un appuntamento con Galileo Venturini a casa sua a Pietrasanta. Con Galileo è da tempo che dobbiamo incontrarci per parlare della via, che ha aperto con Agostino Bresciani alla Torre Oliva. Sarebbe stata una bella festa ci fosse stato anche Agostino, avrei avuto tante domande per lui, ma il Gò (come tutti noi lo chiamavamo) purtroppo ci ha lasciato da qualche anno. Oltre alle notizie sulla via, spero che Galileo abbia le foto dell’apertura, sarebbero un bel documento storico, la ciliegina sulla torta. Purtroppo, la mia, resterà una vana speranza, le foto non ci sono perché non portarono la macchina fotografica. Troppo pesante, mi dice Galileo. Non nego una certa dose di delusione, ci speravo. Galileo è nato nel 1936 a Capezzano Pianore, una frazione di Camaiore, ai piedi delle verdi colline di oliveti a ridosso dei monti Lieto e Gabberi, nelle Apuane meridionali. Ha praticato diversi sport, nuoto, calcio, ha iniziato ad andare in montagna da giovanissimo con l’escursionismo per poi arrivare all’alpinismo e allo sci.
Una persona dalla mentalità aperta, avanti con i tempi, come dice lui. Nell’agosto del 1944 all’età di 8 anni, con un gruppetto di ragazzi, salì la sua prima cima, il Monte Piglione nelle Apuane meridionali, partendo dal paese di Pascoso dove era sfollato con i suoi genitori e fratelli a causa della guerra. Dopo un periodo da escursionista, nel 1958 inizia ad arrampicare da autodidatta, allora non c’erano certo le scuole d’arrampicata. Fa soprattutto cordata con Franco Viviani di Capezzano Monte, ma arrampica anche con Elio Genovesi ed Agostino Bresciani, anche loro versiliesi. Tutti e quattro, nel 1960, faranno la prima salita della parete est del Monte Procinto, aprendo la via Gioli. Con Franco Viviani nel 1962 effettuerà la 16a o 17a ripetizione della via Oppio-Colnaghi sulla parete nord del Pizzo d’Uccello. Galileo che lavorava in un calzaturificio, prima come dipendente poi anche come imprenditore, da abile artigiano quale era, si costruiva con le sue mani i propri scarponi d’alpinismo. Ne possiede ancora un paio che ci mostra orgogliosamente, sono ancora in ottimo stato nonostante li abbia fatti nei primi anni ‘60. Oltre agli scarponi, ci fa vedere anche le staffe che si era costruito.
Parliamo della via alla Torre Oliva, e alla mia domanda di chi fu l’idea di aprire la via, i ricordi si fanno nebulosi, del resto son passati 61 anni: Galileo non sa darmi una risposta certa, poi dice “di Agostino Bresciani”. Comunque ci ha preparato un piccolo racconto dell’apertura. Ci prendiamo il caffè, l’incontro è l’occasione per una bella chiacchierata che si allarga a tanti altri ricordi ed aneddoti della sua esperienza alpinistica e non solo. In particolare quello della ripetizione della via Oppio. Una bella foto in banco e nero accanto alla croce in vetta al Pizzo d’Uccello con Franco appena usciti dalla via, fa bella mostra sul muro del salotto. Anche di questa avventura ci regala un bel racconto d’alpinismo d’altri tempi, certamente non frenetico come quello di oggi. Un alpinismo praticato in quel poco tempo libero dal lavoro. Domanda delicata: “come mai hai deciso di smettere di arrampicare? “L’ho fatto per rispetto di mia moglie, che veniva in montagna, ma solo a camminare e mi dispiaceva lasciarla ad aspettare”.
Comunque in montagna non ha mai smesso di andarci, segno che se la passione va oltre la sola arrampicata, prima di essere alpinisti si è montanari. Oltre che di alpinismo, parliamo anche di un lavoro di raccolta dati e documenti, che sta portando avanti sui tragici fatti della strage di Sant’Anna di Stazzema. Alle 18.30 dopo qualche foto, ed aver salutato anche sua moglie, appena rientrata con la figlia, ce ne andiamo con la promessa di rincontrarci presto al Monte Procinto, per andare a ritrovare l’attacco della vecchia e oramai scomparsa via Gioli sulla parete est. Dimenticata sì, ma scomparsa del tutto no, qualche vecchio chiodone è ancora lì a testimonianza, anche se circondato da luccicanti fix ed ai più, quel vecchio chiodone non dice e non frega nulla… (Gogna Blog: “Quel misterioso vecchio chiodone”, di Alberto Benassi).
Parete nord, via dei Capezzanesi
Per l’apertura del secondo itinerario sulla Torre dovranno passare 33 anni, prima che Agostino Bresciani di Capezzano Monte e Galileo Venturini di Capezzano Pianore, il 30 agosto 1964, dopo un precedente tentativo interrotto per l’arrivo del temporale che li costrinse ad una fuga precipitosa, realizzino sulla parete nord la via dei Capezzanesi, un breve ma intenso itinerario.
Dal racconto di Galileo Venturini:
“Rifugio Pietrapana alla Foce di Mosceta ore 2.20. Mi sveglio da un sonno leggero e un po’ agitato sentendo una voce che dice: svegliatevi ragazzi che è l’ora di partire. Sono un gruppo di amici, ragazzi e ragazze, fra le quali anche la mia fidanzata, che sono venuti con noi al rifugio. Per loro è giunta l’ora di alzarsi, se vogliono andare a vedere la “levata del sole” sulla Pania, ma per noi è ancora presto. Noi abbiamo un altro obbiettivo in programma. Quando sono pronti, finalmente partono e ritorna il silenzio, perciò cerco di riprendere il sonno. Sento, sopra di me, Agostino che dorme alla grossa e lo invidio. Dopo un po’ sento un’altra voce che mi chiama, è Agostino, dice che è l’ora di partire perché sono le 5.30. Mi sembra di aver chiuso gli occhi ora. Facciamo una bella colazione poi, dopo esserci caricati il materiale che ci servirà per arrampicare, si lascia il rifugio incamminandoci sul sentiero che, dalla Foce di Mosceta, costeggia la base nord-ovest del Pizzo delle Saette. Superato lo spigolo nord del Pizzo si prosegue ancora nel bosco fino a raggiungere la diramazione del sentiero. Quello che prosegue a dritto arriva a Piglionico. Noi prendiamo quello di destra, segnavia n° 139, che inizia a salire verso l’inizio della Borra di Canala. Quando siamo fuori dai boschi, sui ghiaioni, si vede in tutta la sua mole la “Torre Oliva” che, pur essendo a ridosso di una grande parete rocciosa, (la Vetricia), si staglia su possente, ed è molto bella. E’ la seconda volta che torniamo a sfidarla. La prima volta ci respinse servendosi, come arma, il cattivo tempo. Questa che stiamo iniziando vediamo, sarà la volta buona? In breve raggiungiamo il punto d’attacco che è alla base della parete nord-ovest, dove avevamo iniziato a salire nel tentativo precedente. Sono le ore 7. Dopo un breve riposo si fanno i preparativi che precedono la partenza del primo di cordata.
Ci leghiamo a una corda da 40 m. e ad una più fine, da 8 mm. che ci servirà per il recupero, e di sicurezza quando usiamo la forbice. Si preparano chiodi, moschettoni, cunei, staffe, cordini vari e, alle 7.40 Bresciani parte. Per metà salita si tratta di seguire un “diedro”, che va dritto con pendenza vicino alla verticale, circa il 90%, che a metà è chiuso da un tetto. Saliti alcuni metri troviamo un chiodo lasciato nel nostro precedente tentativo. Continua a salire in libera fin sotto al tetto, lo supera in breve tempo, in quanto l’avevamo già attrezzato nel precedente tentativo, e prosegue arrivando da dove ci si calò a corda doppia. Qui si ferma e io mi preparo per partire. Lascio i primi due chiodi che faranno da segnale, per eventuali futuri salitori, ad indicare l’attacco da dove abbiamo iniziato a tracciare questa nuova via. Sotto al tetto prendo un po’ di fiato ed ho così modo di vedere come se l’è cavata Agostino. Un cuneo di legno (me li aveva fatti mio fratello i cunei, di diverse misure, con legno di mogano) è piantato nel fondo dello stretto camino che stacca il tetto dalla parte di sinistra del diedro (questo cuneo è rimasto lì, non l’ho tolto); vedo una “campanella” un po’ più in alto, sul bordo del camino e, un po’ sopra ancora un’altra campanella. Sentiamo delle voci poi vediamo scendere, dalla Borra di Canala, un gruppo di persone: sono gli amici che hanno salito la Pania della Croce, per andare a vedere la levata del Sole”, uno spettacolo molto bello: dopo l’aurora si vede il sole che sorge dal Mare Adriatico. Una escursione che invita diverse centinaia di persone a salire la Pania della Croce di notte, ogni anno, per assistere a questo grande evento naturale, molto spettacolare. C’è chi parte la sera, attrezzato con una tendina (poche) o il sacco a pelo, per dormire in vetta, così vede anche il tramonto oltre l’alba. Gabriele Rovai, uno del nostro gruppo di arrampicatori, che ha guidato gli amici sulla Pania, ha voluto fargli fare questo itinerario, non normale per la discesa, per vedere come stavamo andando noi con la nostra salita. Vedendo che tutto andava bene, ci hanno raccomandato, in particolare la mia ragazza, di stare attenti, perché quello che stiamo facendo è molto pericoloso e il tempo stava iniziando a cambiare. Ci aspetteranno al rifugio di Mosceta.
Dopo che gli amici si sono di nuovo rimessi in cammino, riprendo a salire. Aggancio una staffa e mi alzo entrando nel camino, salgo ancora fino a raggiungere un chiodo sopra l’ultima campanella e comincio a recuperarle. Qui il camino si è di nuovo aperto in diedro. Mi alzo ancora un po’ e arrivo ad un terrazzino, qualche metro più in basso di Agostino e mi fermo, perché dove è lui non c’è posto per due. Mi metto in sicurezza assicurandomi ad un chiodo e recupero le corde mentre lui si prepara a partire. Subito mi accorgo che sosto in un brutto posto, perché sono sulla verticale di Agostino, e i sassi che gli cadono inavvertitamente mi fischiano vicini, e altri più piccoli mi picchiano sul casco, producendo dei piccoli suoni di campanella. Sento che pianta chiodi con molta lena e in breve tempo arriva al termine del diedro. Mi libero dal chiodo di sicurezza e, dopo aver liberato le corde rimaste, parto. Si continua a salire sul fondo del diedro, che ad un punto si trasforma in camino, nel quale si entra per uscirne, ed entrare in un altro, che poi si allarga di nuovo. Proseguo direttamente e raggiungo la grande cengia, che si intravvede anche dal basso. A questo punto siamo a metà salita, a 50 m. dall’attacco, di qui si studia la via da seguire e ci sembra opportuno proseguire direttamente, perché su in alto, si dovrebbe passare. Agostino parte, risale lo spigolo di sinistra di un diedro fino a una fessura, si sposta e supera direttamente lo spigolo arrivando sotto ad uno strapiombo molto marcato, lo attraversa orizzontalmente sfruttando una esile cornicetta per poggiarvi i piedi. Ora si trova di fronte ad una placca verticale, pianta un chiodo e ci attacca una staffa, si sposta verso destra arrivando su rocce meno ripide, ma molto sfasciate. Riprende a salire verso l’alto fino ad un terrazzino dove si ferma e io mi preparo a raggiungerlo. Quando arrivo alla traversata la trovo molto aerea e delicata. Quando siamo di nuovo insieme ci scambiamo le nostre impressioni, riguardo ad un temporale che sentiamo brontolare verso il Sumbra. Però sta prendendo la direzione verso la Garfagnana e per il momento possiamo stare tranquilli. Bresciani inizia l’ultimo tiro di corda. Si alza sulla verticale a destra del punto in cui siamo, in piena parete ripidissima, di lì a poco lo sento sbuffare perché la roccia si chioda male; le fessure sono piccole, oppure tanto grandi, tanto che i chiodi ci vanno fino all’anello con le mani. Ogni tanto riesce a metterne qualcuno buono e allora mi comunica la sua soddisfazione. Dopo un po’ di tempo, l’unica cosa che vedo di lui, sono le suole dei suoi scarponi, poi spariscono anche quelle.
Dopo poco sento il suo richiamo: Galileooooo, sono in vettaaaaa. Io gli urlo la mia gioia e gli faccio i complimenti. In questi ultimi momenti il temporale ha invertito la sua rotta e viene veloce verso di noi con un fragore assordante. Recupero i chiodi che ci assicuravano al terrazzo: una grossa campanella, lunga circa 20 centimetri, non ne vuole sapere di uscire nonostante le martellate ben date, la ricalco nella fessura rendendola di nuovo sicura, poi abbandono il recupero e cerco di salire il più in fretta che posso perché, se il temporale ci coglie in piena arrampicata, specialmente se siamo verso la vetta e con tutta la ferraglia che abbiamo addosso, se non ci si può riparare o perdere quota velocemente, saremmo preda del fulmine e allora sarebbero guai grossi: c’è il rischio di rimanere “fritti”. Agostino dall’alto mi urla di abbandonare il recupero perché sta soffiando un forte vento, segno che il temporale è vicinissimo. Infatti, voltandomi indietro, vedo che ha già raggiunto il Monte Rovaio, che è una montagna vicina a noi. Supero gli ultimi metri, sganciando staffe e moschettoni e raggiungo la vetta quando la nebbia ci avvolge. Sono le ore 13, una breve stretta, ma calorosa, di mano ci unisce nella gioia della vittoria a consolidare la nostra grande amicizia, ma il tempo stringe e ci prepariamo a scendere a corda doppia. Troviamo una roccia, lì nei pressi della vetta abbastanza sicura, vi passiamo la corda attorno, e la lanciamo nel canale che separa la torre dalla parete della Vetricia, e si inizia la discesa. A questo punto si verifica un fatto che fa molto piacere: la nebbia si dirada e così come si era formato, il temporale si esaurisce. Scendiamo ora con meno precipitazione e ci troviamo 30 metri più in basso, sopra un masso incastrato nello stretto canalino che l’erosione naturale, nel corso dei millenni, ha staccato la torre dal fianco della montagna. Scendiamo un pendio di detriti senza difficoltà e raggiungiamo il sacco che avevamo lasciato all’attacco del diedro iniziale, e ci rifocilliamo con un po’ di zucchero e biscotti. Ci carichiamo il sacco e il materiale poi via, verso il rifugio, dove ci aspetta un bel pranzetto e gli amici chi ci stanno aspettando, forse in pensiero a causa del temporale”.

Relazione degli apritori (di Galileo Venturini) pubblicata su Lo Scarpone, anno XXXV, n. 3 del 1° febbraio 1965
“Il 30 agosto scorso Agostino Bresciani e Galileo Venturini della Sezione di Pietrasanta del CAI hanno compiuto la prima ascensione della parete nord della Torre Oliva, nel massiccio della Pania della Croce (Alpi Apuane), chiamando il nuovo itinerario via dei Capezzanesi, in onore dei propri paesi Capezzano Monte e Capezzano Pianore.
La relazione tecnica stesa da Galileo Venturini, dice: “si attacca alla base di un diedro verticale di roccia alquanto compatta (4°). Lo si sale direttamente arrivando sotto ad un tetto che si supera sulla sinistra (5°), arrivando ad un piccolo terrazzo dove si può sostare. Si riprende a salire direttamente il diedro (4°) che in un punto si trasforma in camino allargandosi poi di nuovo. Proseguendo, si arriva ad una fascia erbosa con buoni punti di sosta che segna l’uscita dal diedro. Fino ad ora si sono saliti circa 60 m. A questo punto siamo a circa metà salita.
Si riprende a salire, seguendo per 4, 5 m circa un canalino erboso, in direzione di un diedro molto marcato. Si risale lo spigolo a sinistra del diedro (4°); arrivati ad una placca, ci si sposta a sinistra e si supera direttamente, arrivando sotto uno strapiombo. Si traversa orizzontalmente verso destra sotto lo strapiombo con manovra molto delicata, data la piccolezza degli appoggi per i piedi e, traversata una placca liscia strapiombante (5°) con una staffa, si riprende a salire, arrivando dopo qualche metro, ad un buon punto di sosta. Da questo punto con la lunghezza di una corda si arriva in vetta.
Si sale sulla destra del punto di sosta su parete liscia, verticale (3°) dove piantare i chiodi è un po’ difficoltoso a causa della roccia poco adatta che, pur avendo delle fessure, le presenta cieche o larghe. Dopo circa 20 m, si giunge alla cresta terminale. Dislivello dall’attacco alla vetta 100 m circa. Difficoltà 4° e 5°. Tempo impiegato, ore 5.30. Chiodi usati 35 circa, rimasti 10 circa. Cunei usati 5, tutti lasciati. Nei tratti di 5° adoperate alcune staffe”.
Relazione pubblicata sulla guida CAI Alpi Apuane, 1979 (it. 143b)
La guida CAI Alpi Apuane 1979, invece di chiamare la via con il suo vero nome via dei Capezzanesi come era usanza abituale nell’alpinismo di quei tempi, gli attribuisce i cognomi degli apritori “Bresciani-Venturini”. Spesso il primo cognome stava ad indicare colui che aveva fatto il primo di cordata. E qui, come si legge nel racconto di Galileo, la via l’ha tirata tutta Agostino.
“La prima metà dell’arrampicata, fino a una cengia erbosa, si svolge per un diedro-camino, IV con un passaggio di quinto, nel superamento di un tetto sulla sinistra. Risalito un breve canalino erboso, si vince lo spigolo a sinistra di un diedro molto marcato IV e poi una placca, giungendo sotto uno strapiombo. Si traversa allora orizzontalmente a destra su appoggi minuscoli e, traversata una placca liscia strapiombante V e A1, si arriva a un buon punto di sosta. L’ultimo tiro di corda si svolge su parete liscia verticale di c. 20 m. V e A1. Dislivello 100 m“.

Relazione di Silvia Tamagno e Edoardo Mutti dopo la loro ripetizione del 15 ottobre 2024
Avvicinamento: dalla località Piglionico per sentiero CAI n. 7, 127 e 139 salire fino all’imbocco della Borra di Canala e raggiungere l’attacco, situato all’estremità sx della parete nord della Torre Oliva, tra la via Segmenti Irrazionali (ancora 10 m. a sx) e la via Tuttaunc’èpiù (5 m. a dx).
Relazione tecnica:
L1. Seguire una fessura diedrica di oltre 25 metri dal fondo a tratti erboso, costantemente quasi verticale e con un tratto strapiombante che va aggirato sulla sx. Una spaccatura parallela presente sulla faccia sx del diedro agevola la salita e il posizionamento di protezioni veloci in quanto sgombra dall’erba. Presenti 4 chiodi e un sasso incastrato con cordino rosso a strozzo. Sosta su un chiodo e un friend su un piccolo pulpito. 28 m, V+.
L2. Continuare per pochi metri nel diedro verticale sovrastante dal quale si esce a sx su terreno erboso e articolato. Nessun chiodo. Sosta da attrezzare sul filo dello spigolo. 30 m, V poi III.
L3. La direttiva di salita è sulla sx del caratteristico tetto triangolare soprastante. Risalire un breve canalino erboso che diventa poi un bel diedro verticale (var.) al termine del quale traversare a dx sotto un piccolo tetto e proseguire verticalmente alla terza sosta su roccia poco affidabile. 30 m, VI. La via originale, come da relazione dei primi salitori e da cuneo trovato, segue il filo dello spigolo alla sx del diedro per poi traversare decisamente a dx (V, A1).
L4. Vincere direttamente la placca verticale soprastante la sosta. 3 chiodi. 20 m, V e A1/A0. Sosta su friend su comodo terrazzo prima della spaccatura finale che conduce alla cresta sommitale.
Discesa: prima calata di 40 m dalla cima meridionale della Torre. Discesa verso nord per ravaneto nell’intaglio tra la Torre e la parete della Vetricia e ulteriore calata di 20 m che riporta direttamente nei pressi dell’attacco.
Note: salita logica e di impegno per la scarsità delle protezioni in loco e la precarietà di alcuni tratti di roccia. I chiodi in loco sono chiaramente datati e taluni consumati dalla ruggine. Si ritiene che eventuali ripetitori debbano considerare la possibilità di sostituirne alcuni, soprattutto lungo la terza e quarta lunghezza. Materiale consigliato: friend fino al n. 3 Camalot, volendo anche doppi nelle misure medie, martello e chiodi. Ammirevole l’ardire e le capacità atletiche dei primi salitori.
Dopo questa apertura, la nostra Torre torna a sonnecchiare, con “un occhio chiusingo ed uno guardingo” (direbbe l’Imbecaro) vigilando, tra uno sbadiglio e l’altro, sui viandanti della Borra di Canala ignari che qualcuno li osservi. Bisognerà aspettare altri 20 anni prima che qualcun altro si ricordi di lei?


Parete nord, via Segmenti Irrazionali
1984, ecco che tre baldi giovanotti (un quercetano, uno stiavese e un camaiorese), preso esempio dal principe azzurro, risvegliano dal sonno la bella Torre addormentata. Il principe azzurro se la cavò con un bacio risvegliando la principessa e come nelle migliori favole, tutti vissero felici e contenti. Per i giovanotti la cosa fu un po’ più complicata, gli toccò di ruzzare su rocce impervie, lottando con il “Drago” ancora bello, vivo e vegeto. A dispetto del “messneriano” pensiero, l’impossibile non fu assassinato e alla fine il “Drago” premiò l’audacia dei tre giovanotti e li lasciò passare: così felici e contenti raggiunsero la vetta. La via che ne incrocia una già esistente, inizia a sinistra di questa e ne esce a destra, come una serie di “segmenti irrazionali”, come del resto potremmo definire irrazionale l’alpinismo. Ora bisognava cercare la discesa, chi sa se dai tempi di Bresciani e Venturini ci sarà stato più nessuno quassù? Seguendo verso sud la stretta cresta di vetta, ci affacciammo sulla gola che separa la torre dalla parete della Vetricia, scorgendo in basso su uno stretto ed esposto gradino, un vecchio ancoraggio di logori cordami ancorati a vecchi chiodi, non proprio da comodo raggiungere, ma era evidente che era quella la discesa. Lo rinforziamo con un chiodo e cordino e con una verticale calata di una quarantina di metri siamo nel canale. Su terreno ripido e franoso, aiutandosi ai ciuffi di paleo, lo discendiamo fino al bordo inferiore, dove si rivede la fessura di partenza. Potremmo proseguire la discesa, ma visto il terreno piuttosto ripido ed infido, preferiamo attrezzare una calata più sicura. Attrezzato un ancoraggio sullo spigolo con due ottimi chiodi che uniamo con un cordino, con una corda doppia siamo giù esattamente all’attacco della via.
Relazione degli apritori:
Giorgio Giannaccini, Fabrizio Convalle e Alberto Benassi il 27 luglio 1984, iniziano a sinistra della via dei Capezzanesi e ne escono a destra.
Attacco: oltrepassato il diedro della via dei Capezzanesi si raggiunge la base di una evidente fessura ad arco visibile anche durante l’avvicinamento dal sentiero che arriva dal Piglionico.
1) Si inizia per l’evidente e larga fessura ma se ne esce subito a destra su placca verticale. Si sale la placca e si traversa decisamente a sinistra rientrando in fessura. Si supera una difficile placca poi per facile diedro-camino si esce a destra superando il bordo leggermente strapiombante della fessura arrivando alla sosta.
2) Si sale per terreno facile arrivando su una cengia (la via dei Capezzanesi va a sinistra). Sosta a destra alla base di un muretto compatto.
3) Si sale direttamente il muretto poi a sinistra salendo un bel diedro chiuso da un tetto. Da sotto il tetto a destra aggirandolo quindi di nuovo a sinistra alla sosta.
4) Dalla sosta si sale a destra per bella ed esposta placca compatta. Quindi per terreno facile alla cima.
Materiale: usati in apertura 17 chiodi normali comprese le soste, tutti lasciati. Anni dopo sono stati aggiunti gli spit alle soste. Portare chiodi, martello, nut e friend anche di misura grossa per integrare. Difficoltà VI e A1, lunghezza 110 m.
Bella via di discreto impegno nonostante la sua brevità, che per un lungo periodo non vede che rare ripetizioni. Da alcuni anni però è stata riscoperta ed apprezzata dai ripetitori. Addirittura durante una ripetizione del 2021 è stato girato e pubblicato un video. Questo il commento dopo la ripetizione del 2018 dell’amico Alessandro Biffignandi detto il Biffi, un appassionato senza fine delle Apuane: “Ieri con Nicola Andreini siamo andati a ripetere la via; soliti complimenti agli apritori! Bellissima! Delle vie di Albè fatte sin ora è sicuramente quella con l’arrampicata più entusiasmante (senza nulla togliere alle altre); raramente in Apuane ho trovato passaggi del genere su terreno classico! Nella sua brevità la definirei geniale; […]; la fessura diedro del terzo tiro e la placca compatta del quarto sono qualcosa di incredibile, quest’ultima in particolare costringe a fare un passo deciso con il chiodo qualche metro sotto al sedere… ecco, uscito di lì ho tirato un urlo liberatorio che si sarà sentito fino al Rossi! […]. Fu una grande salita per me…molto bella…e tra l’altro fu grazie a Segmenti Irrazionali che poi nacque Gli insegnamenti di Don Juan.
Leggere dei commenti così non può che fare solo piacere.




Parete ovest, via Equilibri Apuani
Oramai è appurato che le vie nuove alla Torre sono di lunga gestazione, tra un’aperura e l’altra devono passare almeno 20 anni.
Relazione degli apritori:
Giuseppe Tessandori, Andrea Stagetti e Alberto Benassi, 18 agosto 2007. Lunghezza: 130 metri circa – Difficoltà: IV+ e V, un tratto di V+.
La via che si sviluppa in 4 tiri di corda, sale all’estrema sinistra della parete ovest della Torre Oliva, prima che giri verso nord, ed ha come direttiva l’evidente diedro-camino, il secondo a destra, dello spigolo nord-ovest della torre, con caratteristico becco strapiombante ben visibile anche dalla base. Come per le vie precedenti si raggiunge l’attacco in breve dalla Porta di Borra Canala, circa 30 metri prima del diedro della via Bresciani (via dei Capezzanesi) presso una caratteristica rientranza dalla forma rettangolare, un chiodo universale ne evidenzia l’inizio.
1) Salire in opposizione (IV) la rientranza quindi per placchette delicate (IV+, friend) in direzione del superficiale e verticale diedro. Salire il diedro (V, 1 friend, 1 ch. lasciato) sfruttando la bella placca di buona roccia a destra (1 nut) ed uscire in un canaletto. Obliquare a destra per placchette delicate (IV, 2 friend) e da ultimo superare un muretto uscendo su di un terrazzino alla sosta. (40 m, 1 ch. di sosta con cordino lasciato).
2) Salire in verticale superando un corto diedro sopra la sosta (IV+, 1 friend) per roccia erbosa e delicata obliquare a sinistra arrivando su di un terrazzino dove si sosta alla base della bella fessura diedro con alberello. (25 m, 1 ch. di sosta lasciato).
3) Salire la fessura-diedro con bella arrampicata in opposizione e buona roccia (IV e V, 3 friend) proseguire per canaletto (III) e quando si restringe a camino con blocchi, uscire a destra su ballatoio dove si sosta sotto il becco strapiombante. (30 m, 1 ch. di sosta lasciato).
4) Non proseguire nel camino (blocchi pericolosi) ma salire a destra dello spigolo per bella ed esposta fessura verticale di buona roccia (IV e V, 3 friend, 1 ch. lasciato) uscendo delicatamente su terrazzino con a destra una bella e compatta paretina fessurata. Superarla con bella arrampicata (V+, 2 friend) uscendo sulla cima della Torre. Proseguire frontalmente per una decina di metri e sostare su 2 ch. con fettuccia.
Materiale: la via è stata salita senza l’utilizzo di spit. Sono stati usati e lasciati 8 chiodi, soste comprese. Inoltre sono stati usati nut e friend fino al n. 4 Camalot. Portare chiodi e martello per ogni necessità.
La via pur nella sua brevità è impegnativa, anche per la qualità della roccia che richiede attenzione e la scarsa chiodatura.
Spigolo nord-ovest e parete ovest, via Tuttaunc’èpiù
La via sale nei pressi dello spigolo nord-ovest a sinistra della via Equilibri Apuani e poco prima del diedro della via dei Capezzanesi presso un evidente diedro-fessura con chiodo.
Relazione degli apritori:
Giovanni Berti, Enrico Puccetti e Alberto Benassi, 12 agosto 2023
Lunghezza: 90 metri circa. Difficoltà: V, V+ e VI. Relazione: vedi schizzo allegato.
Materiale: la via è stata aperta senza l’utilizzo di spit. Sono stati usati e lasciati 14 chiodi soste comprese. Occorre portare nut e friend almeno fino al n. 3 Camalot per integrare le protezioni, oltre a chiodi e martello per eventuali necessità.


Con Enrico abbiamo pensato di dedicare questa nuova via a Luciano (Sigali), per tutti noi: l’Imbecaro. Giovanni, nonostante lo conoscesse poco, è stato subito d’accordo. Luciano per noi è stato una persona molto importante. Quel “ragazzo” seduto solo solo, sul muretto del rifugio Forte dei Marmi, che guardava con occhi pieni d’invidia gli scalatori intenti a preparare il materiale per le scalate, è stato lui a notarlo ed invitarlo ad arrampicare. Da quel giorno è nata una cordata, una fiducia, un’amicizia che li ha portati lontano, dalle Apuane fino alla remota parete sud del Burel. Chi l’avrebbe mai detto che si sarebbe fatta tanta strada da quel muretto?
Sono certo che questo luogo bello e suggestivo, per qualcuno magico, a Luciano piacesse assai. La Borra di Canala incastonata tra le pareti della Vetricia da una parte, Colle della Lettera, Antecima Nord della Pania e Pizzo delle Saette dall’altra, è stata per lui, soprattutto d’inverno, un luogo che l’ha visto autore di ripetizioni ed aperture di vie di misto. Dedicargli una via sulla Torre Oliva è stato doveroso, un segno di riconoscenza e di amicizia. Luciano è stato come un babbo alpinistico, che ci dava fiducia. Sapere che era con noi, anche se poi non era lui a condurre la cordata, ci dava sicurezza.
12 agosto 2023, la via è fatta, ora bisogna solo darle un nome che sia adatto per ricordare Luciano, che dica qualcosa di lui. Non un nome serio o triste, ma piuttosto ironico, allegro anche se lui a volte era un brontolone come spesso gli diceva sua moglie Anna, che lui non chiamava mai per nome, ma con l’appellativo “Oh Donna”.

Scesi dalla Torre, risaliamo la sassosa e suggestiva Borra di Canala, tra un’imprecazione e l’altra, sotto un bel sole implacabile, con Enrico che ci maledice per l’insana idea che, Giovanni ed io, abbiamo avuto di andare al rifugio Rossi a festeggiare con una birra. Pensa e ripensa, tra proposte, fatica e sudore, m’è tornata in mente una frase, una tra le tante frasi tipiche del colorito repertorio del Sigali: “oh bimba/o tutta un c’è più”. Direte voi: e cosa vuol dire? Era semplicemente una frase d’ incoraggiamento che Luciano usava dire durante un’escursione o un’arrampicata piuttosto lunga e faticosa, come dire è quasi fatta, non mollare. Alla fine, dopo la faticosa sgambata, oltre ad una meritata birra e un riso freddo, di più non si poteva pretendere vista l’ora, il premio è stato l’affissione nella sala da pranzo del rifugio della relazione della via, scritta e disegnata di getto al tavolo del rifugio sulla tovaglietta gialla. Più artigianale e spontanea di così non si poteva. “Tuttaunc’èpiù” ci è sembrato il nome giusto da dare alla via, che ne dici Lucianino? Sei d’accordo?
Il tracciato è evidente, la via viene presto ripetuta da alcune cordate e apprezzata, le difficoltà sono di ordine classico, ma la roccia che impone attenzione e la chiodatura non ascellare, rendono l’itinerario comunque impegnativo. Il 13 luglio 2024 la ripetono i cari amici Deborah, Gabriele e Giuseppe. Questo il garbato commento di Gabriele, animato anche da una certa vena poetica: “È la volta buona, che alla scorsa ci ha sorpresi la pioggia a 15 minuti dalla Torre Oliva. Ripetiamo Tuttaunc’èpiù di Berti, Puccetti e Benassi a guida di Giuseppe Tessandori che vent’anni fa ha aperto Equilibri apuani sempre con Benassi e Stagetti. Per noi neofiti rappresenta un breve e intenso concentrato di scalata apuana e una precisa dimostrazione di logica e di corretto posizionamento delle protezioni: i chiodi lasciati da Alberto prima e dopo i passi delicati – lo spostamento a dx del primo tiro, l’ingresso e l’uscita dai diedri rispettivamente al secondo e al terzo – e alle soste, i friend medi e grandi a integrare di Giuseppe ci trasmettono fiducia e ci concedono massima concentrazione e una certa spensieratezza nei movimenti… scaliamo quasi elegantemente! In vetta è grandioso l’ambiente e davvero esile si mostra la Torre, come una fetta di Vetricia; ci caliamo verticalissimi nell’intaglio dove una grossa briciola è rimasta incastrata. Cauti passi nel ripido canale tra sfasciumi e paleo, poi una seconda breve calata ci riportano all’attacco. Complimenti!”.

Discesa dalla Torre
E’ uguale per tutte le vie. Dalla cima spostarsi a sud lungo il filo di cresta, fino ad abbassarsi ad un ancoraggio esposto su un gradino sul lato Vetricia. Con una calata di circa 40 metri ci si cala nel canale all’intaglio tra la Torre e la parete della Vetricia. Con cautela si scende verso nord il ripido canale (passaggi di I, sassi ed erba), trascurando a metà un ancoraggio a spit, (attacco della via Gli insegnamenti di Don Juan) sulla parete della Vetricia, si continua a scendere il ripido canale, fino a reperire (a sinistra) un ancoraggio sullo spigolo della Torre sul bordo di un salto. Con una calata di 20 metri si è a terra dove attacca la via Segmenti Irrazionali. Qui, per comodità, si possono lasciare gli zaini prima di iniziare l’arrampicata. Si può evitare questa calata, continuando a scendere con molta attenzione verso nord su insidioso terreno erboso (tracce di accesso alla cengia Oliva) con alcune piante, ripido ed esposto (I e II) per poi riattraversare verso la base della Torre (sconsigliabile).


Riflessioni, conclusioni, dubbi e contraddizioni
Arrivato alla conclusione di questo lungo racconto, mi vengono alla mente alcuni dubbi e riflessioni. Sarà la cosa giusta fare pubblicità alla nostra piccola Torre? Non avrei, forse, fatto meglio a stare zitto, non raccontare nulla e lasciarla lontana dalla notorietà? Non che non se la meriti, ma la notorietà non fa sempre bene, alle persone ma nemmeno ai luoghi. E’ un po’ come l’industria turistica, che li rende famosi ma sovraffollati da frequentatori che, in gran parte, sono lì solo per mettere una tacca, farsi un selfie da postare in diretta sui social, non per conoscere e vivere la cultura e la storia di quel luogo. Un’industria turistica che finisce per distruggerne irrimediabilmente l’anima e l’originalità, trasformando i luoghi in non luoghi, in vetrine tutte uguali. Quanto alle vie poi corrono il rischio di essere banalizzate, rese la fotocopia una dell’altra. Forse sarebbe stato meglio lasciarla in quel silenzioso dormi-veglia che ha caratterizzato fino ad oggi la sua storia e non aprirla al consumismo verticale? Quello che mi auguro è che lo spirito avventuroso e romantico, che ha animato fino ad oggi gli apritori, venga custodito e continuato nel futuro, sia nelle nuove aperture che nelle ripetizioni, senza far venire meno il carattere impervio, aspro e selvatico del luogo e degli itinerari. Anche se non credo che diventerà un luogo di moda, super frequentato. Seconda riflessione, che vuole essere anche una autocritica: non è forse contraddittorio per chi, come me, cerca l’avventura aprendo vie nuove, pubblicare poi dettagliate informazioni che non fanno altro che azzerare, in tutto o in parte, l’esperienza avventurosa, il gusto della ricerca e della sorpresa ai ripetitori? E qui mi ritornano in mente le parole del bohémien Gary Hemming: “a chi vorrà seguirvi non dite nulla di preciso”.
Messaggio forte chiaro quello del biondo alpinista figlio dei fiori californiano, che racchiude in poche parole il suo stile, la sua concezione alpinistica; parole che meritano grande rispetto e richiedono una grande coerenza che non è da tutti, me compreso. Parole che invitano a riflettere su quanto sia solo cronaca alpinistica, quanto questa sia necessaria e opportuna, o invece pura ostentazione e vanità, di quanto siamo belli e bravi. Nonostante condivida molto del pensiero di Hemming, pur nella convinzione che l’alpinismo dovrebbe essere, soprattutto, una vicenda molto personale, a volte intima, sono dell’opinione che le esperienze alpinistiche sia bello raccontarle, trasmetterle, non solo per alimentare la cronaca, ma soprattutto per confrontarsi con gli altri. Non per dire chi è il più bravo, ma sulle idee, sui differenti stili e concetti, anche se questo raccontarsi e confrontarsi, andrebbe fatto senza scendere troppo nei dettagli tecnici, per non incidere troppo sul senso d’avventura, sul gusto della scoperta, sulla capacità di arrangiarsi, che dovrebbero rimanere i cardini dell’esperienza alpinistica.
Ringraziamenti
Per l’aiuto dato e la documentazione anche fotografica fornita, vorrei ringraziare Giovanni Guidi, Enzo Maestripieri, Guido Barbieri, Galileo Venturini, Eraldo Meraldi, Edoardo Mutti, Silvia Tamagno, Lorenzo Salvatori, Nico Bertellotti, Alessandro il Biffi Biffignandi e Giustino Crescimbeni.













Bellissimo racconto, e anche molto educativo. Grazie.