Attualità di Buzzati
di Antonia Arslan
(pubblicato su Montagna, Annuario GISM 2017-2019)
Ritengo che sia ormai giunto il momento di riconoscere che Dino Buzzati è forse lo scrittore italiano del Novecento che, decennio dopo decennio, è davvero diventato un classico, parte integrante della nostra cultura e perfino del vocabolario comune. Non ha subito periodi di eclissi o di oblio, i suoi libri sono stati continuamente ristampati, nelle scuole si continua a leggerlo. Frasi come “deserto dei Tartari” o “in quel preciso momento”, usate per rievocare o suggerire precise atmosfere di mistero e di attesa dell’ignoto; storie di animali fantastici come quella degli “orsi in Sicilia” e della loro famosa invasione, del drago-mamma e della sua vendetta, o del minaccioso colombre; animali che ragionano come uomini e uomini che ragionano come animali da preda, così da rendere sempre più sottile e pericolosa la linea che li separa: tutto concorre nelle sue opere a evocare sensazioni e percezioni che oggi sentiamo molto moderne, che cioè la realtà è fluida e in fondo inconoscibile, e niente è come sembra, sicché la situazione più tranquilla e apparentemente serena può trasformarsi in un improvviso gorgo di angoscia e di paura, e le persone che crediamo di conoscere possono trasformarsi in mostri, in alieni. Che insomma ciò che abbiamo davanti agli occhi, che ci è familiare e conosciuto, può sbiadire o sprofondare in un’altra dimensione, speculare e capovolta.
Alieno com’è da qualsiasi forzatura ideologica, così frequente nella narrativa italiana del secondo Novecento, Buzzati prima di tutto “onora il contratto” col suo lettore. Sa di essere bravo a raccontare storie, e le costruisce con perfetta abilità e naturalezza; non si interessa di critica, non si interroga su se stesso, non indulge a psicologismi. E un novellatore nato, sia che scelga come ambiente le crode dolomitiche da cui proviene, fra terrosi calanchi giallastri e lontane guglie irraggiungibili, sia la Milano ambigua e allettante della modernità e del progresso, dove vive e lavora come giornalista. Sta nella metropolitana, dietro a una modesta porticina, l’ingresso al regno degli inferi, dove – nel suo Poema a fumetti – Orfi ed Eura si inseguono invano: e là, rivisitando appunto la favola di Orfeo ed Euridice, intreccia realistico e fantastico senza forzature, scivolando dall’uno all’altro con naturalezza e rendendo benissimo, attraverso la plasticità immediata della graphic novel, la sensazione della fragilità e della misteriosa precarietà che sono sempre in agguato nel nostro vivere quotidiano. Buzzati non fu uno scrittore prestato al giornalismo, non si sentì mai costretto o limitato dalla routine quotidiana del suo lavoro al Corriere della Sera, che anzi gli forniva idee e spunti narrativi. Scrittura creativa e scrittura giornalistica si intrecciarono in lui in modo originale e fecondo, e la scioltezza disinvolta ed efficace del suo stile lo dimostra, unita a una precoce maturità espressiva che si riscontra già nelle prime opere. Il deserto dei Tartari – che non rappresenta affatto un’apologia del militarismo, come si è perfino arrivati a dire – è un capolavoro pubblicato da un giovane autore di poco più di trent’anni, il cui punto culminante, il senso dell’intero libro, non sta nella tensione dell’attesa di un’oscura minaccia che pervade e definisce la vita dei militari nella fortezza, quanto piuttosto nello splendido capitolo finale, quando il protagonista Giovanni Drogo, invecchiato e malato, è costretto a scendere a valle e finisce per morire in una squallida locanda. Non lo attendeva la sognata fine eroica in battaglia, combattendo contro i Tartari invasori; il suo sarà l’eroismo vero di un uomo qualunque che affronta il momento terminale della propria vita guardandolo in faccia, perché “la morte è cosa semplice e conforme a natura”. La critica spesso ha privilegiato in Buzzati l’analisi delle sue famose “atmosfere” e lo ha affrontato come un pensatore coerente e profondo, a volte quasi come un profeta dei lati oscuri e paurosi della modernità. Oserei dire invece che il suo bagaglio culturale non era né così profondo né così esteso. Aveva letto i grandi scrittori della tradizione europea, amava Stevenson e Kipling, Poe e Dostoevskij, Thomas Mann e Kafka, li sentiva riecheggiare dentro di sé: e seppe usarli, come stimolo e come meta per il suo mondo fantastico, che tuttavia costruì con il materiale delle sue esperienze e della concretezza reale del suo vivere.
Il suo percorso creativo seguì però una parabola che potremmo definire discendente, e che appare evidente se si confronta la freschezza inventiva e il fascino delle prime tre raccolte di racconti, sviluppati con libertà appassionata seguendo il filo delle storie che sbocciavano nella sua mente (I sette messaggeri, 1942; Paura alla Scala, 1949; Il crollo della Baliverna, 1954), con le successive. Opere come Il colombre o Le notti difficili, oggi, non ci dicono molto di nuovo sul genio di Buzzati, sia per la costrizione della lunghezza standard dell’elzeviro (i testi uscivano sempre prima sul Corriere della Sera) che per lo sforzo di inserire nella tessitura del racconto troppi – e a volte stridenti – elementi della contemporaneità più immediata; e molto anche per la banalizzazione del linguaggio, che spesso diventa volutamente (e a volte perfino sciattamente) giornalistico. Ma forse il suo genio aveva preso altre strade, come lui stesso sperava – e ripeté varie volte: “Io in verità sono un pittore prestato alla letteratura“. Il suo cruccio profondo negli ultimi anni di vita fu proprio quello di non essere preso sul serio come pittore; disse anche che si affidava al giudizio dei posteri perché il suo valore venisse riconosciuto. Ed è infatti proprio così, in certo modo. Se guardiamo il celebre quadro del duomo di Milano composto da un insieme di guglie dolomitiche, questa emozionante, visiva compenetrazione di paesaggi permette certamente di entrare meglio nei segreti della sua scrittura; e impagabile è l’incanto sempre rinnovato, fiabesco e sottile, del rispondersi perfetto di disegno e parola nei libri che scrisse ma anche illustrò fino agli ultimi anni, come Poema a fumetti (1969) o I miracoli di Val Morel (1971).
La Piazza del Duomo di Milano dipinta da Dino Buzzati
di Richard Chance
(pubblicato su lavaligiadellartista.com il 23 aprile 2020)
Lavorare da casa, vi confesso, è qualcosa in cui non ho mai creduto: per quanto mi riguarda, infatti, l’ufficio resta il luogo dove riesco a dedicarmi con più attenzione ai compiti da svolgere. Poco importa, poi, se l’azienda che mi paga lo stipendio non somiglia alla reggia di Caserta, o se alcuni dei miei colleghi non sono persone con cui andrei volentieri in vacanza; viva il lavoro in ufficio, abbasso il lavoro a casa.
C’è una cosa, tuttavia, che ho scoperto durante questo malaugurato periodo di confinamento domestico, trovandomi costretto a lavorare da remoto, o detto in maniera più trendy fare dello smart working. Se considero che di norma la mattina per andare in azienda mi ci vuole una buona mezzora e la sera per rientrare a casa un’altra mezzora, adesso, lavorando a chilometri zero, ogni giorno guadagno un’ora da dedicare ad attività molto più produttive e meno stressanti del fare tragitti in macchina.
Da un mese a questa parte, pertanto, mi sono gettato a capofitto nella lettura: almeno un’ora al giorno, quella che prima passavo incarognito al volante, in questo periodo la trascorro in piacevole compagnia di William Faulkner, Honoré de Balzac, Simonetta Greggio e un signore di cui ho fatto la vera conoscenza solo recentemente, grazie a un denso volume edito da Mondadori che ne raccoglie le opere principali. E dire che si tratta di uno degli autori più importanti della letteratura italiana del Novecento, scrittore ma anche esponente di primo piano nell’ambito giornalistico: il milanese d’origine veneta Dino Buzzati, nato a San Pellegrino di Belluno il 16 ottobre 1906 e morto a Milano il 28 gennaio 1972.
Cantore del sogno, del mistero, del destino, artefice di un’abbondante mole di racconti più alcuni romanzi, tra i quali spicca il bellissimo e struggente Il deserto dei Tartari, alla sua epoca e anche più tardi Buzzati incantò migliaia di lettori in tutto il mondo, tanto da venir considerato quale il Kafka italiano – cosa che lui, uomo troppo orgoglioso, non riuscì mai a digerire. Meno ricordata, invece, è la sua produzione giornalistica, forse perché il giornalismo, nell’universo delle belle lettere, non gode ancora dello stesso prestigio della narrativa o della poesia. Il libro della Mondadori, infatti, riporta solo una minima parte dei tantissimi articoli che egli scrisse per il Corriere della Sera nel corso di tutta la sua vita, e per giunta li rilega nella sezione finale. Curiosare tra questi resoconti di viaggio, elzeviri e cronache d’attualità, è stato comunque piacevole e interessante, ma soprattutto mi ha rivelato un aspetto di Buzzati cui difficilmente si pensa leggendo le sue opere letterarie.
Fin da giovanissimo, fin dalla prima adolescenza e per gli anni a venire, oltre a coltivare la passione del raccontare storie Dino Buzzati dimostrò una forte inclinazione per l’arte figurativa: gli piaceva disegnare e dipingere, dare forma visiva ai personaggi fantomatici e le atmosfere sospese che popolavano il suo immaginario letterario, senza tuttavia aver avuto altri maestri al di fuori di se stesso; e similmente a quanto avvenne con la letteratura, non tentò mai di aderire a un movimento creativo, o ispirarsi a una precisa corrente. Era un viaggiatore solitario, un adulto che dipingeva con la mano di un bambino; un outsider dell’arte contemporanea.
I suoi scritti d’argomento artistico riflettono dunque l’atteggiamento divertito e un poco scettico che egli rivolgeva nei confronti delle tendenze creative della sua epoca, gli anni ‘50 e ‘60, quando a dominare erano l’astrattismo e le sperimentazioni concettuali. A questo proposito, se vi capita, vi raccomando l’articolo in cui parla di quando si fece regalare da quel folletto stralunato di nome Yves Klein una porzione della sua sensibilità pittorica immateriale, attestata peraltro da una regolare ricevuta cartacea.
La critica d’arte ufficiale, d’altra parte, quasi per dispetto, stimava di poco conto i lavori di Buzzati pittore, anzi, appena li prendeva in considerazione: come potevano, i suoi dipinti e disegni dall’aria così candida, dal gusto così naïf, trovare posto accanto alle tele tagliate, le composizioni di rottami o gli austeri monocromi che allora invadevano gallerie e musei? Persino il suo quadro più celebre fu realizzato in occasione di un concorso d’arte rivolto non a pittori professionisti bensì a letterati con il pallino dei colori e pennelli. A indire questo concorso, finalizzato a radunare un numero consistente di opere da esporre in una mostra, fu la galleria milanese Apollinaire, che nel 1957 propose agli scrittori con l’hobby della pittura di produrre un dipinto ispirato alla Piazza del Duomo di Milano. Soltanto tre animi intrepidi raccolsero la sfida lanciata dalla galleria, Eugenio Montale, Orio Vergani e appunto Dino Buzzati, di conseguenza il progetto della mostra alla fine non si concretizzò.
Nonostante la sua conclusione poco felice, questo episodio fu all’origine di quello che oggi è considerato il capolavoro di Buzzati artista figurativo: un dipinto in cui il Duomo di Milano e l’area circostante perdono i loro normali connotati per essere trasfigurati in un impensabile paesaggio alpino. La facciata marmorea, le guglie, gli imponenti finestroni della cattedrale diventano le pareti rocciose, i pinnacoli, le profonde cavità di una montagna, e nello stesso modo gli edifici limitrofi assumono contorni rupestri; il grande spiazzo centrale, invece, sgombro da macchine, ciclisti o pedoni indaffarati, si trasforma in una prateria d’alta quota, dove minuscoli contadini ammucchiano covoni di fieno. Era così che Buzzati, alpinista provetto, doveva sognare la Piazza del Duomo di Milano: una verde vallata circondata d’aridi massicci montuosi. Mi piacerebbe davvero immaginare che cosa penserebbe se venisse a sapere dello stato di abbandono, della solitudine dolomitica in cui si trova quella stessa piazza nell’attuale periodo di epidemia. Chissà… questo potrebbe essere lo spunto per scrivere un racconto, magari un racconto fantastico, un racconto dove gli incubi più tetri si mischiano a lontanissime utopie… Ecco: un racconto alla Dino Buzzati.