Esiste una montagna educativa?

Esiste una montagna educativa?
(esclusione o inclusione?)
di Beppe Guzzeloni e Anna Frigerio
(pubblicato su Lo zaino n. 20)
Foto di Beppe Guzzeloni e Anna Frigerio

Piantare un chiodo nella roccia non è semplice, soprattutto quando si è in una posizione scomoda ed esposta alla verticalità. Richiede tenacia, esperienza, fiducia in se stessi: “l’avrò piantato bene?”. E in bilico sulle pagine scritte, mi chiedevo: “Le avrò scritte bene? Saranno state comprensibili? Avranno stimolato pensieri, critiche, dubbi? E fatto nascere qualche interesse?”. Ecco, queste sono le domande che mi sono posto mentre riflettevo su che articolo scrivere per Lo Zaino, ma soprattutto pensavo al miei contributi, apparsi su alcuni numeri della Rivista, che trattavano il tema della “pedagogia della montagna”.

Beppe Guzzeloni e Anna Frigerio in vetta al Castore.

Una riflessione, questa volta, non più coccolata in una condizione di solitudine, ma accarezzata e nutrita dalla collaborazione di Anna, amica, alpinista e collega (seppur lavorando in due servizi diversi) che è la responsabile del progetto di montagnaterapia “Di passo in passo” del Centro Cocaina degli Spedali Civili di Brescia. Considerazioni che partono sia dalla nostra esperienza alpinistica che dal nostro lavoro di operatori sociali, ma innanzitutto da alcune questioni di fondo: esiste realmente la montagnaterapia? Se sì, qual è la sua funzione? E in quali intrecci si lega alla pedagogia della montagna? E la montagna, attraverso la sua frequentazione e di come la si vive, può avere una valenza inclusiva ed educativa? E ancor di più, forse troppo di più, se la pedagogia della montagna può diventare la modalità attraverso la quale immaginare e tendere a “modificare e raggiungere la soglia d’uscita” dal modello culturale con la quale si affronta la montagna oggi. Immaginare l’utopia del “ciò che non è ancora”; utopia come possibilità, come azione volta a eliminare alcuni aspetti del livello “simbolico” dell’andare in montagna, portandolo alle estreme conseguenze in termini di realtà concreta. Utopia intesa come educazione infinita, che non può finire. Perché l’educazione è personale, interiore, generosa, indocile (Duccio Demetrio) e noi aggiungiamo anche folle e libera. Perché l’educazione è soprattutto guardare dinanzi a sé per un altrove, anche senza vedere; desiderare un qualcosa che si possa raggiungere almeno per approssimazioni e tentativi. Educazione come un ex ducere che conduce in luoghi fisici e interiori sconosciuti, diversi da quelli noti.

Si tratta di considerazioni per noi non semplici, che tentano di indagare sul senso di un termine che coniuga due parole complesse e ricche di significati: montagna e terapia. La montagna intesa come cultura in cui confluiscono vari ambiti della conoscenza, dalla storia alle scienze naturali, dall’economia alle scienze umane, dall’alpinismo alla letteratura, alle politiche ambientali per la loro salvaguardia e alla tutela del paesaggio alpino, ma anche la montagna considerata come “setting di cura” particolare e specifico. Dove interno ed esterno, fuori e dentro, esperienza ed elaborazione, fare e pensare dovrebbero creare sintesi e diventare luogo pedagogico e opportunità di emancipazione, espressione del proprio desiderio, delle proprie scelte, della propria vocazione.

E tale riflessione ci ha portato a valutare maggiormente che ciò che viene definita montagnaterapia, come approccio metodologico a carattere terapeutlco-riabilitativo secondo un paradigma bio psico sociale (Giulio Scoppola,) porta in sé uno slancio pedagogico che tende a costruire opportunità generative. E che il rapporto tra montagna e cura potrebbe aprire orizzonti nuovi nello stesso rapporto tra uomo e natura, tra uomo e montagna. Avere cura e prendersi cura di sé e dell’ambiente alpino all’interno di relazioni di scambio e reciprocità. Dove la speranza e l’agire pedagogico spingono a dare voce, a lasciare un ‘segno’ nel fare emergere con forza la possibilità di innescare le condizioni di un profondo ripensamento del rapporto con la montagna e di come viene vissuta.

Buona la prima…

Pensiamo alla montagna come luogo d’interazione tra l’uomo e lo spazio montano, in cui l’attività umana lascia delle tracce, che diventano simboli, segni, testimonianze stratificate di storie e di eventi (Annibale Salsa); dove il paesaggio alpino è vissuto come elemento essenziale per il benessere individuale e collettivo e soprattutto della sua salvaguardia che comporta diritti e responsabilità per ciascuno di noi. Una montagna da “abitare”, in cui rimanere, dove è bello stare e mettere radici, in cui sentirsi a casa, dove scoprire un’identità e coscienza del luogo, dove l’ambiente fisico concorre alla formazione della più complessa identità personale. E abitare richiede un’etica, un “intenzionale e incisivo sospiro pedagogico”, dove l’abitare, la cui origine etimologica greca è ethos, costituisce la radice etica imprescindibile di ogni attività di costruzione e di agire educativo. Ed etica vuol dire mettersi nelle condizioni di apprendere, di creare significati e senso all’abitare senza volersi imporre come padroni di una terra da saccheggiare, su cui imprimere la violenza ecocida dell’uomo, manifestazione del suo, del nostro narcisismo antropocentrico. Solo così è pensabile il “costruire sulla terra”.

La parola greca ethos porta innanzitutto con sé il primato dell’abitare sul costruire.

Torri del Vajolet

In tal modo la montagna diventa accogliente solo attraverso la nostra consapevolezza e le nostre scelte. Ed è qui che l’aver cura si identifica con la dimensione etica dell’abitare che precede ogni scala di valori. E, come aggiunge don Luigi Ciotti, abitare oggi la terra consiste nel trasformare la transizione ecologica in una conversione ecologica intesa in senso laico, ma anche alla luce della enciclica “Laudato Sì”, come un sentire intimo, individuale, in un qualcosa che cambia in profondità. Si tratta di pensare ad un processo culturale ed educativo verso un nuovo modo di consumare e di rapportarsi agli altri. Quel sospiro pedagogico intenzionale e incisivo, accennato prima, che richiede formazione, informazione e proposte per promuovere e testimoniare nuovi comportamenti nel pensare, nel linguaggio, nel fare scuola, economia, politica. Saper dire dei no, avere la forza della rinuncia e della denuncia per pensare ad una nuova qualità della vita.

Così anche per la parola “terapia” intesa come intervento che rimanda al concetto di “cura” attraverso l’accoglienza, la presenza, la solidarietà, alla reciprocità, dove l’intenzionalità è la linea guida che indica il percorso e la direzione, senza la certezza del raggiungimento dello scopo.

Terapia intesa come azione finalizzata a lenire stati dolorosi sia fisici che psicologici, individuali e sociali. “Terapia” come agire politico, come capacità di critica sociale e come proposta generante opportunità e possibilità di svolta. Dalla terapia in montagna, vista come setting specifico, alla montagnaterapla come sguardo e agire pedagogico. L’esperienza di andare in montagna è di volta in volta singolare e personale, varia e plurale. Vi sono vari modi di apprezzare le cime e che nessuno di essi debba escludere gli altri. Ciascuno può frequentarla soltanto in prima persona, con le proprie forze e aspirazioni. Da soli o in compagnia, slegati o legati, su pareti o per sentieri, ma con un coinvolgimento profondo del singolo, necessario a vivere e sentirsi parte dell’ambiente alpino. Anche nella semplice contemplazione di orizzonti e panorami. Un andare in montagna come opportunità di scoprire un mondo al quale molti hanno voltato le spalle. Così la montagna si trasforma in un rifugio prezioso, come risposta al disorientamento che provoca e ci provoca una società che corre illudendosi di superare limiti, sentendo poi il forte bisogno, come ricorda Michele Comi, di un “ritorno a casa” esausti e svuotati.

La frequentazione della montagna al ritmo dei propri passi, su percorsi noti o inesplorati, apre e attinge al suo significato più creativo; è il senso profondo e personale del mistero dell’andare per montagne che rende la montagna transitabile in ogni sua dimensione. A differenza della fruizione, come ben scrive Alessandro Gogna nel suo Visione verticale, che è passivo atto consumistico e “ossequioso palcoscenico per le nostre evoluzioni”, dove il divertimento fine a se stesso induce a perdere il contatto della nostra anima con le montagne. Alpinismo ed escursionismo vissuti anche come riattivazione di un’intimità fisica con gli spazi attraversati che consente di riappropriarsi di quel piccolo istinto selvatico necessario a “sentirsi parte” di quell’ambiente spesso non decifrabile che è la montagna, in contatto con l’incerto, l’insicuro e la sorpresa.

La via della montagna nessuno può aprirla (Francesco Tomatis)”, ma è essa che si apre al viaggiatore, all’alpinista, all’esploratore il cui cammino, normale o estremo, ma sempre originale perché alla ricerca (illusoria?) di una qualche trasformazione di sé. Le montagne si esibiscono e questo loro esibirsi è provocante; costituisce un’istigazione per il soggetto che è incantamento e incatenamento. E l’esplodere della montagna nello sguardo dell’alpinista pone la montagna infinitamente distante (Andrea Bocchiola). Si vede perché si è visti e l’esposizione alpinistica è l’ethos alpinistico, è quell’abitare, quello stare all’aperto che è il luogo alpinistico, il suo particolare setting.

Luogo pedagogico dove sperimentare, attraverso l’abisso della verticalità o delle altezze, il senso del proprio esporsi e disporsi nei confronti di qualcosa che ci è estraneo, se non sappiamo o abbiamo imparato ad abitarlo.

Un “vivere il luogo” che diventa scelta etica il come viverlo. Il senso dell’alpinismo sta dentro o fuori di sé? Sta nelle motivazioni personali, razionali o inconsce, oppure perché le montagne “sono lì (George Mallory)”? O forse il senso dell’alpinismo sta nell’evento in sé? Nell’atto in se stesso, nella scalata fine a se stessa e nella sua continua ripetizione? E può un atto fine a se stesso (inutilità?) essere atto educativo e trasformativo (utile?)?

È nello sguardo, in quel faccia a faccia che si rivela il luogo originario in cui ciascuno di noi si crea tramite l’altro e con l’altro. Che lo si voglia o no, noi leggiamo sul volto dell’altro la traccia del nostro volto: luogo radicale. Saper vedere per sentire in profondità. Così anche nel rapporto che noi instauriamo con la montagna e il suo ambiente creiamo le condizioni del nostro essere faccia a faccia: fare della presenza frontale una relazione di reciprocità, rispetto, convivenza condivisa. Infatti, lo sguardo è l’estrema avanzata del nostro essere al mondo, la prua del nostro destino personale e collettivo. Capite bene quanto sia importante “non perdere la faccia” nella relazione con l’ambiente alpino. La montagna come luogo pedagogico dove imparare a guardare e osservare per poter vedere il suo volto, la sua essenza nella sua alterità; perché imparare a leggere un volto significa imparare a leggere e conoscere il mondo. Questo è il viaggio educativo. Questo, per noi, è il senso dell’alpinismo. Alpinismo come passione insostenibile, patimento e godimento; come atto di libertà dalla schiavitù dell’utile. Alpinismo come esplorazione incantata fine a se stessa che ha il proprio senso nel suo accadere. L’alpinismo non mira alla conoscenza di sé né alla trasformazione della persona, ma queste due dimensioni vengono sollecitate e stimolate dal rapporto con la montagna e nella scelta di “abitarla” come scelta etica e responsabile.

Orizzonte e vetta, verticalità e cammino, partenza e ritorno, salita e discesa, fatica e ricompensa, stretta di mano ed emozioni che sgorgano dagli occhi rappresentano gli elementi di un possibile percorso personale trasformativo dove la montagna non si ritrae, non più ridotta a scenario, ma fautrice di quel possibile cambiamento.

La montagna ha un volto, una identità, una sua essenza. La montagna ci guarda, ci seduce, ci provoca, si manifesta nella sua potenza e nella sua vulnerabilità e ci tende la mano. La sua prossimità al nostro volto interpella la nostra responsabilità: il nostro faccia a faccia con la montagna ci esorta a non sottrarci da tale scelta. E l’unicità dell’io sta nel fatto che nessuno può rispondere al posto nostro. Inclusione o esclusione? Dipende da noi se vogliamo escluderci da noi stessi o meno, se vogliamo fuggire dall’abitare noi stessi, se non scegliamo di convertirci ad un nuovo inizio perché Madre Terra non ci escluda per sempre.

More from Alessandro Gogna
Lo scempio eolico nella Tuscia
Inviate al Ministero dell’Ambiente le osservazioni contro ulteriori pale eoliche a Tuscania...
Read More
Join the Conversation

3 Comments

  1. says: Carlo Crovella

    Estendo le mie considerazioni oltre la pregevole attività di sostegno a soggetti con criticità individuali. Fra le persone senza criticità, al di là di pochi individui, veramente dotati di talento naturale, e di chi sceglie di lavorarci (GA per intenderci), per tutti gli altri la montagna è un sano passatempo, un momento di svago, una specie di massaggio dell’anima per rilassarsi alla fine di una settimana stressantissima e in procinto di affrontarne un’altra, altrettanto stressante. Da questo punto di vista la montagna è “terapeutica” anche per le persone che non hanno specifiche criticità individuali. Non solo la montagna è terapeutica, ma è anche “educativa”, perché una qualsiasi uscita, anche la più semplice gitarella invernale, “impone” una certa programmazione (orari giusti, zaino composto nel modo corretto, compagni adatti, scelta azzeccata dell’itinerario, adeguato comportamento durante l’uscita ecc ecc ecc). La forma mentis cui ti abitua l’andar in montagna, se ti si radica davvero “dentro”, si estende a ogni risvolto dell’esistenza, dal lavoro alla famiglia, dagli interessi collaterali al rapporto con gli altri esseri umani. Ecco la portata “educativa” della montagna. In tutto ciò consiste l’importanza “etica” della montagna per quelli che NON hanno un talento tale da elevarli al ruolo di top climber. A conti fatti, i top climber sono una minoranza numerica di chi frequenta le montagne, per cui i sopracitati ragionamenti dovrebbero riguardare la stragrande maggioranza di chi va in montagna. Il problema (da cui si innescano numerose e differenziate conseguenze) è che oggi domina l’approccio che considera l’andar in montagna alla stregua di un qualsiasi altro sport, come giocare a tennis o a bocce. Ridurre l’andar in montagna ad un approccio sportivo (quanto dislivello faccio, in che tempi, su che pendenze scio, su che gradi arrampico in roccia, ecc) comporta la conseguenza di svilire la vera essenza dell’andar in montagna (cioè quella educativa): di conseguenza si perde l’aspetto terapeutico, rilassante ed educativo si cui sopra.

  2. says: grazia

    Confesso che a tratti non è semplice seguire il filo logico degli autori.

    Dopo questa premessa, confesso anche che non ho compreso quali siano i dubbi riguardo all’andare in montagna e a considerarlo una terapia.

    Vivere in ambienti naturali – magari non solo per il tempo della gita – fa star bene. Forse bisognerebbe, in tutta semplicità, partir da questo presupposto quando si vuole aiutare qualcuno a trovare la luce smarrita: non basta uscire ogni quindici giorni dalla comunità, bisogna spostare le proprie attività in luoghi in cui poter lasciare spazio all’identità e alle propensioni personali.
    Accompagno diverse anime in cammino verso se stesse e so che è sufficiente guidarle ogni tanto in natura: quell’esperienza va richiamata anche nel quotidiano, va sviluppata e amplificata anche quando sembra non c’entri nulla.

Leave a comment
Leave a comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *