Il Nanga Parbat è la più occidentale e la più crudele delle vette himalayane, vera ossessione per gli alpinisti. A ricordarcelo tre nuovi libri appena usciti con le loro storie di tragedie e di speranza.
Il Nanga Parbat è un ottomila un po’ a se stante. Geograficamente parlando è considerato ancora compreso nella catena dell’Himalaya, ma di fatto ne costituisce uno snodo vitale, poiché da lì in poi la grande catena asiatica cambia direzione: l’asse principale, orientativamente Est-Ovest, più o meno da quel punto si dirige verso Nord-Nord Ovest a formare il Karakorum.
Il Nanga Parbat non è più Himalaya in senso stretto e non è ancora Karakorum. La sua storia è particolare, contraddistinta dall’assalto germanico degli anni ’30, con decine di morti, poi ripreso e completato con la conquista solitaria di Hermann Buhl nel ’53.
Ho scoperto il Nanga Parbat al tempo della prima traversata compiuta dai fratelli Messner nel 1970: come si sa Günther è rimasto sulla montagna.
Nelle celebrazioni che seguirono, ci furono alcuni appuntamenti ufficiali a Torino, presumo al Monte dei Cappuccini che è ancor oggi la sede sociale del CAI (del CAI nazionale, intendo).
Mio padre è sempre stato molto impegnato nel CAI Torino e fu in qualche modo coinvolto anche in questi appuntamenti, come gli capitava spesso. Mi portava con sé, anche se io in quel momento avevo “solo” 9-10 anni: lui diceva che era per farmi fare le ossa, come si fa con un bocia di bottega.
Ebbene in tutto questo contesto, rispetto al quale io non ricoprivo nessun ruolo di rilievo, mi trovai a stringere la mano a Reinhold Messner. Me lo ricordo benissimo, come se fosse accaduto ieri mattina: capelli e barba incolta, più rossicci che biondi, pelle a sua volta arrosata dal sole. La sua presa della mano mi sembrò forte, ma non altrettanto forte di quella che, nel ricordo, mi diede (in occasioni completamente diverse) Walter Bonatti.
Eravamo seduti al tavolino di un dehor cittadino, in pieno centro di Torino. Era un intervallo fra gli appuntamenti ufficiali. Io, ovviamente, ero l’unico ragazzino: c’erano varie autorità istituzionali, sia del CAI Torino che del CAI nazionale. Il ricordo che ho di Messner è di un giovane impacciato nei convenevoli, con in più la difficoltà linguistica che certamente non lo favoriva, specie di fronte a persone di 60-70 anni (almeno) come le cariche del CAI.
Mio padre ci scattò una foto, a me e Messner, seduti fianco a fianco nel dehor. Purtroppo non la si trova più, questa benedetta foto, strano perché mio padre aveva un archivio molto preciso.
E’ stato il mio incontro con il Nanga Parbat (Carlo Crovella).
Vivere e morire sul Nanga Parbat
di Leonardo Bizzaro
(pubblicato su Venerdì di Repubblica, 13 dicembre 2019)
Hanno arrampicato insieme, si sono aiutati, ostacolati, odiati. Il Nanga Parbat è tornato con loro protagonista delle ultime stagioni dell’alpinismo himalayano, la nona montagna più alta della Terra ha preso il posto per qualche mese, anno, di Everest e K2. Ora gli interpreti di quest’ultima serie di tentativi e vittorie sulla vetta himalayana più occidentale sono arrivati in libreria, anche se per due di loro ci sono ormai solo pagine scritte e fotografie. Daniele Nardi e Tomasz Tomek Mackiewicz, soprannominato Czapkins, sono rimasti lassù.
La conquista nazista
Il Nanga era stato protagonista tra gli appassionati e sulle pagine dei quotidiani quando l’andare per montagne perfino sulle Alpi era nell’adolescenza: il britannico Albert F. Mummery, pioniere dell’alpinismo senza guide, aveva messo il naso per primo sul versante Diamir nel 1895. Un progetto visionario, per l’epoca. Lui e i due portatori gurkha che lo accompagnavano non tornarono più indietro, ma per gli appassionati europei fu l’apertura di nuove frontiere, all’inizio solo per la fantasia. Ci vollero almeno vent’anni per i primi timidi tentativi di salita dei colossi oltre gli Ottomila.
Sull’Everest tentarono a ripetizione gli inglesi, del K2 ci diciamo che è stata la “montagna degli italiani”, il Nanga divenne un affare tedesco, anzi nazista – fu il contraltare, sugli Ottomila, della parete nord dell’Eiger – e da “montagna nuda”, nella locale lingua urdu, si trasformò in “Killerberg”, la montagna assassina. Trentuno furono i morti prima che Hermann Buhl riuscisse a raggiungerne la vetta a 8126 metri. Uscirono libri, il Nanga divenne un nome buono per vendere macchine fotografiche e torce elettriche, forse nel tentativo di illuminare quell’epoca buia, la sua sagoma divenne il percorso di giochi da tavolo sul cui traguardo sventolava la croce uncinata.
Poi nel 1953 ci fu Buhl e la sua ascensione senza alcun compagno, disperata, con una notte senza tenda né sacco a pelo, in piedi su un sasso. E ancora i fratelli Messner, nel 1970, una salita senza il permesso del capospedizione, che li portò in vetta in vero “stile alpino”, ma si trasformò in tragedia nella discesa, quando Günther, il più giovane, fu rapito da una valanga e Reinhold raggiunse quasi in trance il fondovalle.
I colossi della Terra
Oggi, come gli altri Ottomila, non è più per fortuna il teatro di spedizioni nazionali e accoglie – o perlomeno ha accolto – l’ultima tenzone di un himalaysmo diventato sfida personale, tanto più nella sua ultima versione, l’assedio invernale. Di questo è stato soprattutto, il Nanga, il terreno di gioco.
Nel 2016 la penultima vetta oltre gli ottomila raggiunta nella stagione fredda, tra il 2018 e il 2019 il campo di battaglia dei tentativi più temerari che mai – finora – si siano sferrati ai colossi della Terra. A raccontarne le vicende più recenti ecco dunque ben tre titoli nel giro di due mesi, mentre un paio sono già usciti e uno ancora è in arrivo. Quasi tutti inoltre pubblicati da grandi editori che con la montagna hanno avuto finora rapporti episodici, attirati evidentemente da un interesse sempre più vasto per questi temi.
Nardi, rimasto lassù
In queste settimane la scrittrice Alessandra Carati – è stata l’ottima ghostwriter, tra gli altri, di Fabio Volo e del ciclista Danilo Di Luca – sta presentando in giro per l’Italia La via perfetta (Einaudi), firmato con Daniele Nardi. Lui non c’è più, il suo corpo e quello del compagno Tom Ballard verranno restituiti fra chissà quanti anni dai ghiacciai del Nanga. Avrebbero voluto arrivare in vetta lungo lo sperone Mummery, il nome è ovviamente quello dell’inglese che per primo volle provarci e anche il suo cadavere è rimasto lassù.
Nardi e Ballard, l’alpinista di Sezze, in provincia di Latina, che a 43 anni era riuscito a imporsi sul palcoscenico internazionale e il trentenne specialista del ghiaccio che dal Derbyshire si era trasferito nelle Dolomiti fassane, figlio della grande himalaysta Alison Hargreaves, chenel 1995 era stata “spazzata” via dalla bufera sulla vetta del K2. Erano arrivati oltre i seimila metri, i due, su una via che Nardi aveva già tentato da solo e che chiunque aveva ritenuto impossibile, compreso lo stesso Messner che pure era passato nei paraggi, quando aveva perduto il fratello. All’autrice era stato Nardi a chiedere di metter mano al libro, erano saliti insieme al campo base del Nanga e poi, lei rientrata in Italia, le aveva mandato una mail quasi profetica: «Se non dovessi tornare dalla spedizione desidero che Alessandra continui a scrivere questo libro, perché voglio che il mondo conosca la mia storia».
La storia c’è, si fa leggere volentieri e spiega le ragioni di un ragazzo nato lontanissimo, per geografia e mentalità, dalle capitali dell’alpinismo, che invece proprio in quello vuole riscattarsi. Non si deve cercare la ricostruzione della tragedia, che non si conoscerà mai, mentre invece ci si sarebbe aspettati qualche riga sull’adesione di Nardi a Scientology, che molto avrebbe spinto per quell’ultima, tragica spedizione.
Moro, il maestro d’inverno
Tutta diversa l’autobiografia di Simone Moro, I sogni non sono in discesa (Rizzoli), presentata lo scorso 26 novembre 2019 a Milano con l’annuncio della nuova spedizione, la salita invernale di Gasherbrum I e II, sulle tracce di Messner e Kammerlander che nell’estate del 1984 riuscirono a fare per la prima volta la traversata di due Ottomila. Moro non ha bisogno di dimostrare nulla, ha schiere di devoti ammiratori che lo chiamano “winter maestro” – è l’unico ad aver raggiunto quattro dei quattordici ottomila in prima invernale – e quasi altrettanti detrattori.
Ma l’alpinismo di punta, e quello himalayano più ancora, ha bisogno di tifoserie, le chiedono gli sponsor e lui abbastanza ci gioca, coadiuvato da un ufficio di comunicazione che è una superpotenza nel settore. Al Nanga lui aveva già dedicato un libro dopo la prima salita nell’inverno del 2016, ma il suo libro attuale ci ritorna, magari non svela di più sulle vicissitudini e gli scontri di quell’ascensione, ma è piacevole e spiega le nuove frontiere dell’himalaysmo.
Tomek, dalla droga alla vetta
Infine La versione di Tomek (Mulatero), ovvero Tomasz Mackiewicz, arrivato sul palcoscenico delle grandi montagne dalla provincia polacca, dopo una giovinezza perduta nella droga. Il libro è scritto da Dominik Szczepański, sulla base dei diari di Tomek raccolti dopo la sua morte dalla moglie, con la supervisione tecnica di Emilio Previtali.
Un personaggio ancora diverso, sicuramente vero, anche lui protagonista delle ultime stagioni invernali sul Nanga. Nel gennaio 2018, con la francese Élisabeth Revol, sale verso la vetta lungo un itinerario che Messner, ancora lui, e Hanspeter Eisendle hanno immaginato e però mai percorso (in completezza, NdR). Ce la fanno, ma in discesa Tomek è il primo a cedere, vinto dalla fatica. Élisabeth continua, scende fino ai seimila, continua a chiedere aiuto al satellitare. La spedizione polacca impegnata nel tentativo invernale al K2 si fa trasportare alla base del Nanga per tentare un salvataggio. I polacchi Adam Bielecki, Peter Tomala e Jarosław Botor, con il russo Denis Urubko, riescono a raggiungerla e a metterla in salvo. Tomek è ancora lassù.